CAPITOLO QUARTO

Avevo deciso di lasciare Cecilia, il giorno stesso in cui era avvenuto l’episodio crudele che ho raccontato. Avevo preso questa decisione d’impeto, appena Cecilia se ne era andata; quindi, come ho già detto, lasciai passare un paio di settimane per trovare un pretesto decente per la separazione. Mai, tuttavia, come in quel tempo, soffrii della noia, la quale pareva ormai incarnarsi ai miei occhi nella persona della mia piccola amante. Ricordo che, come udivo squillare il campanello nella nota maniera breve e reticente, traevo un profondo sospiro d’impaziente sopportazione; quindi, tutto quello che avveniva dopo l’ingresso di Cecilia nello studio pareva immerso in un’inerzia ottusa e opaca che non valeva a scuotere né la solita operazione dello spogliarsi, né i baci, né le carezze, né gli altri stimoli erotici di cui Cecilia non era mai avara, e neppure, a conclusione di quella specie di rito monotono che era il nostro amore, la solita contorsione epilettica dell’orgasmo finale. In realtà, Cecilia nuda o vestita, sdraiata sotto di me durante l’amplesso o allungata al mio fianco dopo l’amore, al buio o in piena luce, pareva perdere ogni giorno di più, ai miei occhi, la sua consistenza di persona, anzi di oggetto riconoscibile. E poiché non volevo più ricorrere alla crudeltà che, senza dubbio, avrebbe potuto ridare provvisoriamente una effimera realtà al nostro rapporto, vedevo venire il giorno in cui mi sarei comportato con Cecilia come con un oggetto qualsiasi di cui non si ha più bisogno, ossia l’avrei lasciata senza fornire né a lei né a me stesso una ragione plausibile. Bisognava, dunque, che trovassi un pretesto prima che fosse troppo tardi.

Una di quelle mattine andai a trovare mia madre che non avevo più rivisto dal giorno della mia fuga. Partii, dunque, con la mia vecchia macchina sgangherata in direzione della via Appia. Ecco l’antica strada pagana e cristiana, oggi tanto di moda tra la gente ricca, con le sue mura traboccanti di verdure, i suoi cancelli, le sue ville nascoste tra gli alberi; ecco i cipressi allineati in lunghe file e i pini solitari, le sponde erbose e i ruderi di mattoni rossi ornati di frammenti di marmo bianco; ecco, tra i due pilastri, il viale in ascesa dalla ghiaia ben rastrellata, lo spiazzo circondato di lauri e di lecci, la villa bassa e rossa. Questa volta, non venne ad aprirmi Rita, la cameriera dalla faccia sorniona e occhialuta, bensì un maggiordomo tarchiato e calvo, con un viso pingue di sacrestano, in giacca di fatica a righe, il quale, dopo avermi chiamato “signor marchese”, mi informò che la “signora marchesa” era in casa. Trasalii al titolo nobiliare che mi riusciva del tutto nuovo e andai nello studio. Mia madre stava seduta alla sua tavola, assorta ad esaminare uno scartafaccio, gli occhiali sul naso e un lungo bocchino tra i denti. Le dissi, dopo il bacio di rito, sulla guancia magra e secca: “Ma che cos’è questo titolo di marchese che mi ha dato il tuo cameriere? Eppoi da dove salta fuori questo cameriere? Rita dove è andata a finire?”

Mia madre si tolse gli occhiali e mi fissò un momento con gli azzurri occhi vitrei, senza parlare. Quindi disse con la sua voce più sgradevole: “Rita l’ho cacciata via, perché era una donnaccia.”

“Ma che faceva?”

“Tutti gli uomini,” disse mia madre, “non uno escluso, dentro casa e fuori, per un raggio di alcuni chilometri. Una ninfomane.”

“Ma guarda un po’, chi l’avrebbe pensato, aveva l’aria così seria.”

Mia madre tacque di nuovo, come se avesse voluto aspettare che nel mio animo fosse tornata la serenità che ci voleva per ricevere la notizia che stava per darmi: “Quanto al titolo, venne a trovarmi tempo fa uno specialista di araldica e mi spiegò che il nostro casato è nobile e che siamo marchesi. A quanto pare il titolo fu lasciato cadere dalla famiglia di tuo padre un secolo fa, non si sa per quale motivo. Adesso farò fare le ricerche necessarie e così ben presto avremo il diritto di portarlo. Mi è sembrato che fosse stato un peccato non farne uso, dal momento che ci spetta di diritto.”

Non dissi niente: lo snobismo di mia madre mi era noto e da tempo avevo cessato di meravigliarmene. Lei riprese, dopo un momento, in tono di rimprovero: “Non so se ti rendi conto che dopo la tua, diciamo così, scomparsa il giorno del tuo compleanno, è la prima volta che vieni a trovare tua madre.”

Dissi con voce sufficientemente contrita: “Hai ragione. Ma ho avuto molto da fare.”

Domandò: “Hai ripreso a dipingere?”

Risposi: “Non aver paura, ho avuto da fare per altri motivi.”

“Io non ho paura di niente. Per me, anzi, preferirei che tu dipingessi.”

“Perché?”

“Così penseresti meno alle donne,” disse mia madre in maniera impreveduta e oltremodo spiacevole. E quindi, guardandomi in faccia: “Cosa credi? Che non si veda?”

“Ma che cosa?”

Mia madre non rispose direttamente e disse: “Lo sai che sei molto ma molto sciupato?”

Lo sapevo. In quei due mesi avevo abusato del rapporto sessuale. E soprattutto non avevo fatto che questo, ossia mi ero abbrutito. Dissi: “Sarà, però mi sento benissimo.”

“Secondo me dovresti riposarti, stare all’aria aperta, fare dello sport, respirare aria buona. Perché non te ne vai in montagna un mese o due?”

“Per andare in montagna ci vogliono i soldi e io non li ho.”

Ogni volta che mettevo avanti la mia povertà la quale era volontaria e, in sostanza, fittizia, mia madre s’indignava, come per un puntiglio incomprensibile e, in fondo, immorale. Così anche questa volta: “Ma Dino, questo proprio non dovresti dirlo.”

“Perché? Siamo al quindici del mese e credo che mi restino appena quarantamila lire del mio mensile.”

“Ma Dino, tu non hai soldi perché non vuoi averne. Tu sei ricco, Dino, molto ricco, ed è inutile che tu faccia il povero. Sei ricco e qualsiasi cosa tu faccia, resti ricco.”

Era esattamente quello che pensavo io stesso. Dissi marcando le sillabe: “Se tu vuoi che io venga a trovarti, smettila di ricordarmi che sono ricco, hai capito?”

“Ma perché, è la verità.”

“Sì, ma è una verità che mi deprime.”

“Ma perché ti deprime? Pensa quanta gente sarebbe felice di essere al tuo posto. Figlio mio, perché deve deprimerti un fatto che renderebbe felice chiunque altro?”

La voce di mia madre era veramente accorata; e io non potei fare a meno di provare improvvisamente un senso di irritata stanchezza. Dissi: “Ci sono quelli che hanno l’idiosincrasia delle fragole e, se le mangiano, si coprono di macchie rosse. Ebbene io ho quella del denaro. E arrossisco all’idea di averne.”

Ci fu un momento di silenzio. Poi mia madre riprese in tono di buona volontà: “E va bene: sei povero. Ma sei un povero che ha una madre ricca, questo almeno lo ammetterai.”

“E allora?”

“Allora tua madre ti presta i soldi per andare in montagna: per esempio a Cortina d’Ampezzo.”

Stavo già per cacciare l’ululato di indignazione che di solito mi ispiravano i consigli sempre oltremodo prevedibili e convenzionali di mia madre: l’inverno a Cortina d’Ampezzo, come l’estate al Lido e la primavera in Riviera; quando, ad un tratto, pensai che, senza volerlo, mi aveva fornito il pretesto che andavo cercando per separarmi definitivamente da Cecilia. Mi sarei fatto dare la somma che ci voleva per un soggiorno a Cortina: con questo denaro avrei comprato un regalo a Cecilia; al tempo stesso le avrei annunciato che dovevo accompagnare mia madre in montagna. Il regalo avrebbe addolcito la separazione che, del resto, avrei presentato come provvisoria; più tardi avrei scritto a Cecilia una lettera di commiato. Dissi in tono remissivo: “Va bene: Cortina. Allora dammi i soldi.”

Mia madre evidentemente non si era aspettata una resa così rapida. Sconcertata mi scrutò e poi domandò: “Ma quando vorresti partire?”

“Subito. Oggi è il quindici; il diciotto, per esempio.”

“Ma bisogna fissare la camera all’albergo.”

“Telegraferò.”

“E quanto rimarresti?”

“Quindici, venti giorni.”

Adesso mia madre pareva addirittura pentita della sua offerta; o meglio, come mi parve di capire, non tanto di averla fatta quanto di non essersi assicurata alcuna contropartita: l’abitudine alla speculazione era così forte in lei che non cessava neppure nei suoi rapporti con me. Disse in tono irresoluto e pieno di cattiva volontà: “Io ti darò certamente il denaro che ti serve, te l’ho promesso e non ritiro la mia promessa.”

“Va bene. Allora dammelo.”

“Che fretta. E poi quanto ti serve?”

“Calcola ventimila lire al giorno. Dammi duecentomila lire. Intanto.”

“Ventimila lire al giorno!”

“Sono o non sono ricco, secondo le tue stesse parole? Non andrò in un albergo di prim’ordine. Ventimila lire al giorno sono appena sufficienti per un soggiorno modesto.”

“Non le ho qui,” disse mia madre decidendosi alla fine ad opporre un larvato rifiuto alla mia richiesta, “qui non tengo mai denaro.”

“Va bene,” dissi alzandomi, “allora andiamo su in camera tua.”

“Non ce l’ho neppure in camera mia. Ho dovuto fare un pagamento proprio stamattina.”

“Fammi allora un assegno. Il libretto degli assegni ce l’hai certamente qui.”

Stranamente, a questa proposta così ragionevole, cambiò idea: “No, dopo tutto te li darò in contanti, perché il libretto degli assegni l’ho finito ieri. Andiamo su.”

Si alzò e io la seguii fuori dello studio domandandomi il perché di questo mutamento improvviso nella modalità del pagamento. Non aspettai molto per saperlo. Come fummo per la scala, mia madre, che mi precedeva, disse senza voltarsi: “A proposito, ti darò un acconto: centomila lire. Il resto te lo do domani. Non posso darti di più perché è tutto quello che ho.”

Così mia madre aveva cambiato idea perché, mentre non avrebbe potuto evitare di farmi l’assegno per la somma intera, poteva invece darmi di meno in contanti, adducendo di non avere di più. Perché questa subitanea avarizia? Probabilmente, come pensai, per non perdere il controllo su di me e al tempo stesso ottenere qualche cosa in cambio del denaro. Non dissi niente e la seguii su per la scala e poi nella sua camera. Era una grande stanza molto comoda, in stile moderno, tutta intonata al grigio e al bianco, con tappeti, tappezzerie, cortinaggi in profusione, in modo da dare l’impressione un po’ soffocante di non contenere un palmo di pavimento o di parete che non fosse ricoperto di stoffa. Nella penombra, che rendeva misteriosamente e quasi colpevolmente complici le nostre due figure riflesse negli specchi, mia madre andò all’uscio del bagno, in fondo alla camera, e l’aprì. Restai fermo dov’ero. Mia madre disse: “Perché stai lì? Vieni pure, io non ho segreti per te.”

Dissi: “Non ne hai perché sai che non voglio il tuo denaro. Se lo volessi, ne avresti e come.”

Rispose: “Che sciocchezze, sei figlio mio, no?” e precedendomi entrò nel bagno. Questo era assai spazioso, con quell’ampiezza ostentata, sprecata e inutile che, nelle case dei ricchi, è propria ai luoghi dove si prende cura del corpo. Tra la vasca e il lavandino c’erano almeno quattro metri di pavimento marmoreo; tra il lavandino e la tazza del cesso, altrettanti di parete maiolicata. Vidi mia madre avvicinarsi alla parete, afferrare uno di quei ganci che servono per appenderci gli asciugamani, girarlo da sinistra a destra e quindi tirarlo a sé. Quattro mattonelle di maiolica bianca si aprirono come uno sportello, scoprendo la superficie grigia e forbita di un forziere di acciaio. “Vediamo,” disse mia madre, con didascalica compiacenza: “vediamo, prova ad aprire tu, con il segreto.”

Mia madre mi aveva insegnato il segreto del forziere, e io lo avevo appreso quasi mio malgrado, forse soltanto perché avevo una buona memoria, ma mi ripugnava servirmene, specie sotto i suoi occhi; un po’ come ripugna partecipare ai riti di una religione alla quale non si crede. Dissi: “Ma perché? Aprilo tu, che c’entro io?”

“Volevo vedere se te ne ricordavi,” disse mia madre assai allegra. Rapidamente, con la bianca mano nervosa carica di anelli massicci, girò alcune rotelle sul quadrante e quindi aprì. Intravidi in confuso, nel profondo loculo, alcuni rotoli di azioni industriali, alcune buste bianche e gialle. Mia madre, passando ad un tratto dall’allegria al sospetto, mi lanciò un’occhiata diffidente. Imbarazzato, abbassai gli occhi: arenato sulla porcellana della tazza si vedeva un batuffolo di ovatta; stesi una mano e premetti la leva dello sciacquone, facendo scrosciare l’acqua. Come levai gli occhi di nuovo, mia madre aveva già cavato dal forziere una busta bianca molto gonfia e ora stava sospingendo al loro posto le mattonelle. Disse, poi, avviandosi verso la camera: “Ti darò cinquantamila lire, per oggi. Mi sono ricordata che le altre cinquantamila mi servono per pagare un fornitore.”

Così mi riduceva ancora una volta la somma che le avevo chiesto. Avevo calcolato di fare a Cecilia un regalo del valore di duecentomila lire; mi ero rassegnato ad accettarne centomila; ma cinquantamila mi sembravano veramente poche per addolcire la nostra separazione. Protestai con fermezza: “Mi occorrono centomila lire oggi stesso. Pagherai il fornitore un’altra volta.”

“No, non posso.” Mia madre andò ad un alto cassettone antico e, voltandomi le spalle, aprì, come mi parve di capire, la busta sul piano di marmo. Dissi, senza muovermi dal centro della stanza: “In quella busta ci sono di certo più di cinquantamila lire, forse anche più di trecentomila. In quella busta avrai almeno mezzo milione, perché mi fai queste storie?”

Rispose senza voltarsi, in fretta: “No, in questa busta non ci sono che centomila lire.”

“Allora fammela vedere.”

Bruscamente, con gesto inaspettato, si voltò nascondendo con le spalle il denaro e mostrandomi un volto, pur sotto la consueta, prosciugata secchezza, quasi commosso: “Dino, perché non vuoi venire a vivere di nuovo con tua madre? Se tu fossi qui, avresti tutto il denaro che desideri.”

Questa era dunque la contropartita che mia madre mi chiedeva; e poco importava se, invece di mettermi di fronte ad un secco dilemma, come avrebbe fatto con un debitore insolvibile, mi presentava la sua proposta in forma di patetica invocazione. Domandai a mia volta: “Che c’entra questo, ora?”

“Non posso fare a meno di notare che tu sei venuto a trovarmi soltanto per chiedermi del denaro, dopo due mesi che non ti vedevo.”

“Ti ho già detto che ho avuto da fare.”

“Se tu venissi qui, potresti fare quello che vuoi. Io non interferirei affatto nella tua vita.”

“Beh, dammi questi soldi e non se ne parli più.”

“Potresti andare e venire, fare tardi la notte, ricevere chi vuoi, vedere tutte le donne che vuoi.”

“Ma io non ho bisogno di vedere nessuno.”

“Quel giorno scappasti perché avesti forse l’impressione che ti avrei impedito di avere una relazione con Rita. Ti sbagli: sempre che avessi salvato la forma, non ti avrei impedito niente.”

Rimasi questa volta veramente meravigliato. Così mia madre aveva osservato qualche cosa tra me e Rita; ma aveva taciuto, evidentemente sperando che una tresca tra me e la ragazza avrebbe rafforzato i miei legami con la villa e dunque anche con lei. E quando se n’era accorta? Durante la colazione? O più tardi? Provai ad un tratto un sentimento spiacevole di colpevolezza familiare, quasi fossi tornato ragazzo e mia madre avesse il diritto di svergognarmi; ma riuscii a sormontarlo pensando che, dopo tutto la mia attrazione per Rita era stata originata dal senso di disperazione che ogni visita a mia madre non mancava mai di ispirarmi. Risposi guardandola dritta in faccia, in tono risentito: “No, non scappai a causa di Rita, scappai a causa tua.”

“A causa mia? Ma se finsi persino di non vedere come le mettevi le mani addosso durante la colazione?”

La frase, e più ancora il tono, mi fecero imbestialire: “Già, fu appunto a causa tua che le misi, come dici, le mani addosso.”

“E perché, che c’entro io? Ora sarà colpa mia se dai fastidio alle serve.”

“Misi le mani addosso a lei perché tu mettesti i piedi addosso a me.”

“Ma quali piedi?”

“Per raccomandarmi di non parlare di interessi di fronte alla servitù. E poi sappilo,” adesso mi ero avvicinato e le parlavo in faccia, “sappilo una buona volta: tutte le sciocchezze che ho fatto nella mia vita, le ho fatte per causa tua.”

“Per causa mia?”

“Ho passato anni interi della mia adolescenza,” urlai ad un tratto, in preda ad una furia terribile, “a sognare di essere un ladro, un assassino, un delinquente, pur di non essere quello che tu volevi ch’io fossi. E ringrazia il cielo che non lo sono diventato davvero, per mancanza di occasioni. E tutto questo perché abitavo con te, in questa casa.”

La mia voce, questa volta, parve spaventare davvero mia madre la quale, fino a che si trattava di parole, si mostrava, di solito, intrepida incassatrice. La vidi, smarrita in viso, cominciare a scuotere la testa, con un movimento impaurito, da destra a sinistra, balbettando: “Beh, se è così, non venir più da me, non venirci più in questa casa.”

Mi calmai improvvisamente; e dissi: “No, ci tornerò, ma non chiedermi di amarla.”

“Che ha di così odioso, questa casa, non è una casa come tutte le altre?”

“Anzi, è una casa più bella e più comoda di tante altre.”

“E allora?”

Vidi che, adesso, pareva un poco sollevata dal fatto che non l’attaccassi più direttamente. Risposi con una domanda: “Anche mio padre non voleva starci in questa casa. Perché?”

“Tuo padre amava viaggiare.”

“Non sarebbe più esatto dire che viaggiava perché non amava star qui?”

“Tuo padre era tuo padre, tu sei tu.”

Non era la prima volta che avvenivano discussioni di questo genere tra me e mia madre. Io potevo anche urlare e offenderla, ma mi fermavo sempre di fronte alla verità: che la casa mi ripugnava perché era la casa di una persona ricca. D’altra parte mia madre mi spingeva, si sarebbe detto, a rivelare questa verità, provocandomi e quasi sfidandomi; ma, in realtà, non desiderava che la rivelassi e veniva sempre il momento che si tirava indietro e sviava il discorso. Così, anche ora. Stavo per risponderle, quando un po’ nervosamente, soggiunse: “Di’ piuttosto che vuoi vivere per conto tuo per essere più libero. Ti sbagli, ma non importa. Tieni, ecco le tue centomila lire.”

Mi tese il denaro ma a metà; come allungai la mano, lo ritirò indietro, quasi avesse constatato che non le davo niente in cambio; e soggiunse: “A proposito, almeno resta a colazione.”

“Non posso.”

“Ho invitato a colazione alcune persone. C’è anche il ministro Triolo con la moglie. Un uomo simpatico, intelligente, energico.”

“Un ministro? Orrore. Su, dammi questo denaro.”

Questa volta mi diede il denaro ma con un gesto quasi rabbioso, e al tempo stesso reticente, come se avesse voluto sottrarmelo nel momento stesso che me lo porgeva. “Allora vieni a colazione domani. Non ci saremo che tu ed io. Così ti darò il resto della somma. Sempre che sia vero che vai a Cortina.”

“Perché? Ne dubiti?”

“Con te non si può mai sapere.”

Mia madre pareva, adesso, abbastanza soddisfatta. Lo capivo dal modo con il quale mi precedeva per la scala, tenendo la testa alta e posando la mano sulla guida di ottone. Forse, pensai, era soddisfatta perché una volta di più era riuscita ad evitare la grande spiegazione tra me e lei; quella spiegazione che nessuno, il quale sia ricco, desidera che avvenga mai, altrimenti non potrebbe più godersi in pace la ricchezza. La sua soddisfazione era così forte che, dimenticando il mio recente rifiuto, come fummo nell’ingresso mi propose: “Perché non resti finché viene il ministro? Prendi un aperitivo con lui e poi te ne vai. È un uomo influente, può sempre essere utile.”

“Non a me, purtroppo,” dissi con un sospiro, “e poi debbo proprio scappare.”

Mia madre non insistette; aprì la porta di casa, e si affacciò sulla soglia, di fronte allo spiazzo, mettendosi le mani sotto le ascelle e rabbrividendo nell’umida aria autunnale: “Se continua a piovere in questo modo,” disse scrutando il cielo rannuvolato, “addio i miei poveri fiori.”

“Allora, arrivederci, mamà,” dissi; e chinandomi, deposi il rituale bacio secco sulla non meno secca guancia. Poi corsi in fretta verso la mia macchina: avevo visto, in fondo al viale, un’automobile sorgere improvvisamente risalendo verso la villa e volevo evitare a tutti i costi un incontro con gli invitati di mia madre. Mi misi al volante nel momento che l’altra macchina sbucava sullo spiazzo e vi si fermava. Mia madre, adesso, stava sulla soglia di casa in atto di chi si prepari a ricevere degli ospiti di riguardo. Accesi il motore e partii, in tempo per vedere l’autista gallonato smontare ed aprire lo sportello, sberrettandosi e inchinandosi, ma non in tempo per vedere a chi appartenesse il piede calzato di una scarpa nera maschile che si tendeva fuori della macchina cercando il suolo.

Mancava poco all’una, rifeci di gran corsa tutta la via Appia e giunsi in piazza di Spagna poco prima della chiusura dei negozi. Sapevo dove andare per comprare il regalo del commiato a Cecilia, entrai in un negozio di borse e di ombrelli in via dei Condotti. Era affollato di compratrici eleganti che alla mia apparizione si scostarono con una sfumatura di meraviglia. Poi, mentre sceglievo in gran fretta una borsa di coccodrillo, mi guardai nello specchio e compresi il motivo della meraviglia delle clienti. Avevo l’aspetto di un vagabondo e per giunta di un vagabondo un po’ inquietante: testa calva circondata di capelli biondi e ricci troppo lunghi, un’ombra di barba rossiccia sulle guance, maglione color antracite che lasciava vedere la camicia senza cravatta e pantaloni sformati e lisi, a coste, color verde oliva. Alto, poi, anzi forse per contrasto col soffitto molto basso del negozio, altissimo, con la fronte che pareva una visiera calata sugli occhi celesti e iniettati di sangue, il naso corto, la bocca prominente: insomma, una specie di scimmione. Capii nello stesso tempo, guardandomi, quale dimostrazione di affetto mi avesse fatto mia madre invitandomi a colazione, vestito a quel modo, insieme con il ministro e con gli altri invitati. Ma poi pensai che mia madre, con la sua sensibilità per quello che lei chiamava “la forma”, doveva aver pensato che dopo tutto, io ero vestito da pittore, cioè indossavo una specie di divisa che indicava il mio posto niente affatto disonorevole in una società come la sua, nella quale era egualmente riconosciuto il diritto di vestirsi così del maglione dell’artista come della giacca a doppio petto del ministro. Trasalii tra questi pensieri alla voce della commessa che mi porgeva la borsa. Pagai, presi l’involto e uscii.

Era l’una. L’appuntamento era alle cinque. Strano a dirsi, mentre non mi ero mai accorto di aspettare Cecilia gli altri giorni, quando sapevo che la nostra relazione sarebbe continuata, adesso che avevo deciso di separarmi da lei, l’attesa mi sgomentava. Feci, perciò, con la massima lentezza tutte le cose che potevo fare prima delle cinque, sperando così di far passare il tempo insensibilmente e senza dolore: mangiai in una trattoria del quartiere fingendo di assaporare il cibo e di meditare tra un boccone e l’altro; andai in un bar e, dopo aver sorbito un caffè, indugiai ad ascoltare alcune canzoni del juke-box; presi un secondo caffè in un altro bar e, inerpicato su uno sgabello, lessi da capo a fondo un giornale; mi fermai sul marciapiede, una ventina di minuti, a conversare con un giovane pittore di cui ignoravo il nome, simulando interesse per la sua lunga diatriba sui premi e le esposizioni. Ma non riuscii in questo modo che a far passare due delle quattro ore che mancavano all’appuntamento. Con cuore angosciato, alla fine, rientrai nello studio.

Vi trovai, filtrata dalla tenda bianca, una luce blanda, pulita ed esatta, che ben conoscevo, la luce stessa in cui mi pareva che la noia, ossia la mancanza di rapporto tra me e le cose, assumesse un aspetto supremamente normale, benché non per questo meno angoscioso, anzi, forse appunto per questo, più angoscioso che mai. E infatti, come fui entrato e mi fui seduto nella poltrona di fronte alla tela vuota che tuttora biancheggiava sul cavalletto, subito pensai: “Io sono qui e loro sono lì.” Loro, come sapevo, erano gli oggetti intorno a me: la tela sul cavalletto, la rotonda tavola centrale, il paravento nell’angolo a sinistra dietro il quale stava nascosto il letto, la stufa di terracotta con il tubo infilato nel soffitto, le seggiole cariche di scartafacci, lo scaffale con i libri. Loro erano lì, come mi ripetevo, ed io ero qui; e tra loro e me, non c’era niente, veramente niente, come, forse, negli spazi siderali, non c’è niente tra le stelle, lontane, le une dalle altre, miliardi di anni luce.

Mi ripetevo: “Io sono qui e loro sono lì,” e poi ricordai Cecilia, il giorno prima, sdraiata sul divano, il volto dagli occhi chiusi rovesciato indietro sulla spalliera e il ventre proteso in avanti, in atto di offrirsi nella maniera più esplicita e letterale, cioè proprio come un oggetto privo di qualsiasi volontà all’infuori di quella di essere posseduto; e ricordai pure che, andando verso di lei, avevo pensato, come oggi: “Lei è lì e io sono qui;” e avevo sentito che tra me e lei non c’era niente, e che io dovevo attraversare, varcare, e, insomma, riempire questo niente con il gesto del mio corpo che si gettava sul suo. E rammentando lo sforzo, come di rottura di una barriera, che avevo compiuto per abbracciarla e prenderla, mi resi conto ad un tratto che la mia decisione di lasciarla, era, in realtà, nient’altro che la conferma, per così dire, ufficiale, di una condizione preesistente. Sì, io avrei lasciato quel giorno Cecilia; ma in effetti l’avevo abbandonata molto tempo prima, seppure avevo mai avuto alcun rapporto con lei.

Tra queste riflessioni avevo preso a sonnecchiare; alla fine mi levai dalla poltrona e andai a gettarmi sul divano. Mi addormentai quasi subito e con tanto impeto che ebbi, mentre dormivo, la sensazione di stare piombando a pugni serrati e denti stretti, rannicchiato su me stesso, in uno spazio infinito e più la caduta durava e più il peso del mio corpo aumentava, Quindi, mi destai all’improvviso con un sapore di ferro nella bocca, come se avessi stretto tra i denti una sbarra metallica. Lo studio era quasi al buio, nella penombra grigia gli oggetti s’erano fatti neri. Balzai dal divano e andai ad accendere la luce. Subito fu notte al finestrone. Guardai allora la sveglia sulla tavola e vidi che erano le sei passate: Cecilia avrebbe dovuto venire alle cinque.

Non mi ci volle un grande sforzo d’immaginazione per capire che il ritardo non era casuale e che, insomma, ormai era molto probabile che, per quel giorno, Cecilia non sarebbe più venuta. Ma questo non era un fatto normale, che potesse essere accettato con tranquillità. Per una delle tante sue contraddizioni, pur sembrando incapace di quei sentimenti che suggeriscono di non far soffrire le persone che ci amano, Cecilia era sempre puntualissima, come se mi avesse davvero amato; e quando, per qualche motivo, era costretta a ritardare, procurava sempre di avvertirmi in tempo. Il ritardo di quel giorno, perciò, era anormale e non si poteva spiegare che in un solo modo, cioè con un avvenimento più importante del nostro appuntamento, così importante da impedirle nonché di venire, anche di farmi sapere che non sarebbe venuta.

Tuttavia la prima riflessione che mi venne in mente fu: “Ebbene non sei contento? Volevi disfarti di lei e lei non è venuta. Tanto meglio, no?” Ma era una riflessione sarcastica; perché mi accorsi con stupore che il ritardo di Cecilia non soltanto non mi faceva piacere, ma addirittura mi sconvolgeva.

Tornai a sedere sul divano e presi a riflettere. Perché il ritardo di Cecilia mi sconvolgeva? Compresi che, mentre finora Cecilia, come ho già detto, non era stata niente per me, il suo ritardo la faceva diventare qualche cosa. D’altra parte questo qualche cosa nel momento stesso che acquistava consistenza, mi sfuggiva, dolorosamente, perché, dopo tutto, Cecilia non era venuta. Così mi pareva che Cecilia fosse assente, quando si trovava nello studio e si stringeva a me; adesso invece che non c’era e sapevo che non sarebbe venuta, la sentivo amaramente e oscuramente presente.

Cercai di pensare con maggiore chiarezza, benché sentissi che mi riusciva difficile perché stavo soffrendo. Dunque, Cecilia non era venuta; dunque, non si era neppure curata di giustificarsi; dunque, non mi amava più o almeno non abbastanza per essere puntuale o per avvertirmi che non veniva, ossia molto poco. Allora, improvvisamente, ricordai con meraviglia che durante quei due mesi che era durata la nostra relazione, Cecilia non mi aveva mai detto che mi amava e io non glielo avevo mai chiesto. Certo, il fatto che si fosse data a me e mostrasse di prendere piacere con me, poteva equivalere ad una dichiarazione d’amore. Ma poteva anche darsi, come mi accorsi subito, che non significasse niente.

Del resto, che questa dedizione del corpo non avesse alcun significato, sembrava dimostrarlo la pochissima importanza che Cecilia vi attribuiva. Sono cose che si sentono: Cecilia mi aveva dato il suo corpo con la stessa indifferenza barbara e ingenua con la quale un selvaggio regala ad un rapace esploratore l’amuleto di pietre preziose che porta al collo. Era, insomma, come se lei non avesse mai avuto corteggiatori che le avessero fatto capire quanto possa essere desiderabile il corpo di una donna. Balestrieri, è vero, l’aveva adorata ed era morto di questa adorazione; ma Cecilia pareva esserne ancora meravigliata, come di qualche cosa che le paresse assolutamente ingiustificato.

D’improvviso provai come una trafittura al cuore, e trasalii davvero, dando un guizzo con tutto il corpo. La trafittura me l’aveva fatta questo pensiero: “Posso pensare quello che voglio, ma lei intanto non è venuta,” ispirandomi un senso quasi fisico della vanità di qualsiasi riflessione di fronte alla realtà dell’assenza. Guardai all’orologio e vidi che era passata più di mezz’ora dal mio risveglio: Cecilia ormai non sarebbe sicuramente venuta. E io non avevo più voglia di mostrare a me stesso che la sua assenza mi lasciava indifferente.

Pensai che non si sentisse bene, il solo motivo che potesse spiegare la sua condotta senza indurmi a sospettare di lei; e mi alzai dal divano per andare al telefono. Allora, con la sensazione di fare una scoperta, mi ricordai che non avevo mai telefonato a Cecilia, neppure una volta sola. Era lei che mi telefonava, tutti i giorni; io non le avevo telefonato perché non ne avevo mai sentito la necessità. Questa mia mancanza di curiosità mi sembrò significativa. Non mi ero mai curato di telefonare a Cecilia allo stesso modo che non avevo mai cercato di stabilire alcun vero rapporto con lei. Così la nostra relazione era stata niente, e la noia l’aveva facilmente corrosa ed io, alla fine, avevo deciso di romperla.

Una volta formato il numero, il telefono di Cecilia risuonò a lungo in un silenzio misterioso. O meglio, come pensai, il silenzio era misterioso in quanto Cecilia, la quale stava in fondo a quel silenzio, a partire dal momento che non era venuta, era diventata misteriosa per me, come una bestia rifugiata in fondo alla sua tana. Tuttavia, pur essendo misterioso, quel silenzio non era del tutto negativo. In una certa maniera malsicura, come di giocatore che, dopo molte perdite, s’illuda ancora di vincere, io speravo che, alla fine, la voce di Cecilia risuonasse all’apparecchio. Avvenne invece un fatto strano: lo squillo s’interruppe, qualcuno staccò il ricevitore ma nessuno parlò; o meglio, mi parve di avvertire all’altro capo del filo come un respiro affannoso e quasi un sussurro. Chiamai: “Pronto, pronto,” domandai più volte: “chi parla?” e alla fine sentii che, all’altro capo del filo, il ricevitore veniva abbassato. Rifeci rabbiosamente il numero, mi fu risposto di nuovo con il silenzio e con quel misterioso respiro e di nuovo, alla fine, fu abbassato il ricevitore. La terza volta, il telefono risuonò a lungo ma nessuno rispose.

Lasciai il telefono e tornai a sedermi sul divano. Per un pezzo non pensai a niente, attonito. La sola cosa che mi fosse chiara era che il giorno stesso in cui avevo deciso di annunciare a Cecilia la fine della nostra relazione. Cecilia, non sapevo ancora per quale motivo, mancava per la prima volta ad un appuntamento, ossia, in effetti, provocava, sia pure in maniera provvisoria, la separazione che avevo avuto in mente di proporle. Provavo, così, lo stesso sentimento sgradevole di chi, scendendo al buio per una scala ripida, si prepara ad uno scalino e invece incontra la superficie piana di un pianerottolo e allora perde l’equilibrio proprio perché lo scalino che avrebbe potuto farglielo perdere, non c’è.

Soprapensiero, mi alzai, andai meccanicamente alla porta, l’aprii e guardai nel corridoio, verso l’angolo, quasi sperando di vedervi apparire Cecilia. Guardai anche dalla parte opposta; il mio sguardo, scorrendo lungo la parete, si fermò sull’ultimo uscio che era quello dello studio di Balestrieri. Non potei fare a meno di pensare che anche Balestrieri doveva essersi affacciato chissà quante volte nel corridoio, per vedere se Cecilia, in ritardo, spuntasse al cantone. Sapevo che lo studio non era stato ancora riaffittato; si diceva, anzi, che la vedova avesse intenzione di andarci ad abitare lei stessa. Ora, Cecilia aveva lasciato la chiave dello studio del vecchio pittore sulla mia tavola, il giorno del nostro primo incontro. Cecilia non mi aveva mai richiesto quella chiave, e io l’avevo gettata in fondo ad un cassetto, quasi con il presentimento che in futuro me ne sarei servito. Provai, d’improvviso, il desiderio di affacciarmi al luogo nel quale Balestrieri si era tormentato per la stessa incertezza di cui, in quel momento, io stavo soffrendo.

Presi la chiave, accostai l’uscio, in modo che Cecilia, se fosse venuta, potesse entrare, e andai allo studio di Balestrieri. Una volta accese le finte candele smoccolate del lampadario centrale, lo studio mi apparve più tetro che mai, con i suoi mobili falsi antichi e i suoi damaschi rossi. Mi avvicinai alla tavola, camminando sullo spesso tappeto e respirando con disgusto l’aria chiusa, polverosa e leggermente maleodorante. Era una tavola massiccia, in stile rinascimentale, dal piano lucido già velato dalla polvere di due mesi di abbandono; il telefono vi stava posato, insieme con gli elenchi e con una bolletta verde, pagata. Pensai che, forse, la vedova aveva davvero l’intenzione di venire ad abitare nello studio, poiché continuava a pagare il telefono; quindi l’occhio mi cadde su un indirizzario rilegato, dalla copertina marmorizzata: lo presi e lo sfogliai. La calligrafia di Balestrieri, nera, grossa e tozza, non so perché, mi fece pensare alle sue spalle troppo larghe e ai suoi piedi troppo grandi. Mi colpì il gran numero di nomi di donne, senza alcun cognome, quasi in ogni pagina: Paola, Maria, Milly, Ines, Daniela, Laura, Sofia, Giovanna, ecc. ecc. Conoscendo le abitudini di Balestrieri, non dubitai che fossero i nomi delle compiacenti ragazze che, in passato, prima del suo grande amore per Cecilia, lo avevano così spesso visitato. Sfogliai ancora, andai a guardare alla lettera C. Ecco il nome di Cecilia, seguito dallo stesso numero di telefono che poco prima avevo chiamato invano. Per un momento restai con gli occhi fissi su quel nome e su quel numero, pensando ai sentimenti molto diversi che aveva dovuto provare Balestrieri il giorno che l’aveva scritto, e poi, via via, tutte le volte che era andato a riguardarlo prima di telefonare a Cecilia. Alla fine, Balestrieri, probabilmente, non aveva più dovuto ricorrere all’indirizzo, perché sapeva il numero a mente; ma aveva lo stesso ogni tanto riguardato la pagina dell’indirizzario alla lettera C per ridestare il ricordo di quella prima, fatale volta, che vi aveva scritto il nome e il numero di Cecilia. Improvvisamente, dalla tavola, il telefono prese a squillare.

Esitai, quindi staccai il ricevitore. Provavo un sentimento strano, di non essere io, bensì Balestrieri; e che al telefono avrei udito la voce di Cecilia. Questo sentimento ebbe una conferma inaspettata; udii, infatti, la voce ben nota che chiedeva: “Sei tu, Mauro?” Ora Balestrieri si chiamava Mauro. Sentii il cuore mancarmi, invaso da una specie di angoscia nauseata. Così era davvero Cecilia, la quale telefonava non a me ma a Balestrieri, cioè ad un uomo che era morto e di cui lei sapeva che era morto.

Tutto questo non durò più di un attimo. Dissi con voce appena udibile: “No, sono Dino,” e subito, la voce, perdendo ogni rassomiglianza con quella di Cecilia, e palesandosi, anzi, per molto diversa, come se quella rassomiglianza fosse stata creata lì per lì soltanto dalla mia ansietà, esclamò in tono confuso: “Oh, mi scusi, non parlo in casa del signor Balestrieri?”

“Sì.”

“E non c’è Balestrieri? Sa, sono stata fuori di Roma quattro mesi e volevo salutarlo. Lei è un amico, no?”

“Sì, sono un amico. Ma lei chi è?”

“Sono la Milly,” rispose la ragazza in tono patetico e speranzoso, quasi suggerendo con questo tono la sua intimità con il vecchio pittore.

“Signorina Milly, il signor Balestrieri... è partito.”

“È partito? E non lo sa quando torna?”

“No.”

“Beh, gli dica, quando lo vede, che la Milly gli ha telefonato.”

Riabbassai il ricevitore e rimasi per un poco immobile, rimescolando l’oscuro e sgradevole sentimento che mi aveva ispirato la telefonata. Poi mi accorsi che faceva freddo nello studio e che questo freddo mi stava penetrando nelle ossa. Un freddo particolare, al tempo stesso impuro e mortuario, come di tomba che fosse anche un’alcova, o di alcova che fosse anche una tomba. Mi ero seduto per rispondere al telefono, forse sopraffatto dal turbamento allorché avevo creduto di udire la voce di Cecilia. Mi alzai e uscii nel corridoio.

Una volta nel mio studio, guardai l’orologio e, poiché sapevo che non aspettavo più nessuno, capii che lo guardavo per vedere quanto mancava ancora alla solita telefonata che Cecilia mi faceva ogni mattina. Subito dopo pensai che era la prima volta che pensavo una cosa simile; e capii che d’ora in poi pensieri come questi avrebbero sempre più spesso visitato la mia mente.