Il mattino dopo, ripensando alla mancata visita di Cecilia, mi convinsi, o meglio cercai di convincermi che la sua assenza fosse stata dovuta a motivi che niente avevano a che fare con i nostri rapporti. Perché io desideravo tuttora di disfarmi di Cecilia, ma la Cecilia di cui volevo disfarmi era la Cecilia innamorata o che immaginavo innamorata di me, e non la Cecilia che non mi amava più e mancava agli appuntamenti. E questo non già per quel particolare genere di amore che, di solito, viene chiamato amore a dispetto, il quale ci fa amare chi non ci ama e disamare chi ci ama, bensì perché la Cecilia che mi amava si era dimostrata noiosa, cioè irreale, mentre la Cecilia che non mi amava pareva invece sempre più acquistare ai miei occhi, per il fatto stesso che non mi amava, una sembianza di realtà. Tuttavia io preferivo pensare che Cecilia mi amasse, e di conseguenza io non avessi a cambiare la mia decisione di disfarmi di lei, perché, come ho già accennato, l’idea che non mi annoiasse più, cioè diventasse reale, in fondo mi ispirava una specie di timore, come di fronte ad una prova che non mi sentivo in grado di affrontare.
Intanto, però, c’era un problema, piccolo ma angoscioso: dovevo telefonare per primo o dovevo aspettare che lei mi telefonasse? Cecilia aveva l’abitudine di telefonarmi tutti i giorni, sempre alla stessa ora, la mattina verso le dieci, per salutarmi e confermarmi l’appuntamento del pomeriggio. Io potevo dunque certamente aspettare anche quel giorno la sua telefonata, ma al tempo stesso temevo che non si facesse viva e uscisse, e così, quando mi fossi deciso a telefonarle io stesso, non ci fosse e io avessi a rimanere tutto il giorno nell’incertezza ormai sicuramente molto dolorosa della sua venuta. Anche per questa faccenda del telefono, d’altro canto, mi accorsi che i termini del mio problema si ripetevano, identici: io volevo che Cecilia mi telefonasse per prima per potere continuare a considerarla inesistente appunto perché disponibile; se invece fossi stato io a telefonarle, avrei dovuto pensare a lei come a qualche cosa di reale, appunto perché problematico e sfuggente. Alle tre del pomeriggio ero ancora immerso in queste riflessioni, quando udii il telefono, laggiù, in fondo allo studio, squillare ripetutamente, dolcemente, querulamente, ironicamente, come per dirmi che ciò che contava non erano i miei pensieri, per quanto lucidi, ma il suo squillo. Mi alzai, andai a staccare il ricevitore e subito udii la voce di Cecilia: “Finalmente, ma dov’eri?”
Risposi con voce molto bassa: “Ero nello studio, ma non ti avevo udito.”
Ci fu un momento di silenzio; poi lei disse: “Non ti ho telefonato stamattina perché il telefono era guasto. Allora ci vediamo oggi alla solita ora.”
Non potei fare a meno di esclamare con qualche vivacità: “Ma ieri perché non sei venuta?”
Aspettai una risposta, sincera o menzognera, ma, comunque, precisa. Invece mi arrivarono queste parole sconcertanti: “Perché non ho potuto.”
“E perché non hai potuto?”
“Perché ho avuto da fare.”
“Va bene,” dissi con rabbia, riconoscendo in queste risposte la caratteristica capacità di Cecilia di evitare al tempo stesso di dire la verità e di mentire, “va bene. Allora ci vediamo tra poco.”
“Sì, tra poco, ciao.”
Subito dopo mi accorsi che il fatto che fosse stata lei a telefonarmi per prima non mi recava quel sollievo che avevo sperato. Sì, aveva telefonato per prima, ma con la sua reticenza era riuscita a restare sfuggente e misteriosa né più né meno che se non si fosse fatta viva. L’azione di telefonarmi che avrebbe dovuto significare disponibilità, dipendenza e dunque annullamento, in realtà non aveva significato niente. E io dovevo tuttora disfarmi di lei, come avevo deciso.
Intanto, però, bisognava vivere, cioè passare le due ore che mi separavano ancora dal momento in cui Cecilia sarebbe comparsa nello studio. Per dare una idea della mia impazienza, dirò che, non sapendo che fare, mi venne persino in mente di dipingere, dopo più di due mesi di completa interruzione della pittura. Mi dissi che, se non altro, ove fossi riuscito a riempire in qualche modo la tela che tuttora campeggiava sul cavalletto, poi avrei avuto una ragione di più per separarmi da Cecilia; sapevo, infatti, che soltanto la pittura avrebbe potuto colmare nella mia vita il vuoto che mi avrebbe lasciato la fine della nostra relazione. Ma mi bastò guardare la tela, là, sul cavalletto, per capire che non sarei stato capace nonché di dipingere, neppure di alzare la mano per tracciarvi un segno qualsiasi. In realtà, come pensai, io non avevo in quel momento che un solo rapporto, del resto problematico, con un oggetto purchessia, e questo era il mio rapporto con Cecilia, che, d’altronde, mi apprestavo a troncare. Che diavolo avrei potuto dunque dipingere su quella tela che, il giorno del mio primo incontro con Cecilia, avevo firmato come per sottolineare che la pittura era finita per me? Per consolarmi, rilessi un testo di Kandinski, appunto, sulla tela vuota: “La tela vuota. Apparentemente: davvero vuota, silenziosa, indifferente. Quasi stupita. Effettivamente: piena di tensioni, con mille voci sommesse, gravida di attesa. Un po’ spaventata poiché può venire violentata. Ma docile. Fa volentieri quello che da essa si richiede, implora soltanto grazia. Può portare a tutto, ma non sopportare tutto. Meravigliosa è la tela vuota, più bella di molti quadri, etc. etc.” Ad un tratto scaraventai il libro per terra e uscii quasi di corsa dallo studio.
Sapevo dove mi dirigevo, benché non con la mente ma con un fiuto molto simile a quello d’un cane da caccia che segue un odore per un bosco o una brughiera. Uscii così da via Margutta, passai in via del Babuino, m’incamminai in direzione di piazza di Spagna, camminando svelto lungo i negozi, tra la gente che mi urtava, proprio come se avessi temuto di giungere in ritardo ad un appuntamento. Percorsi forse cento metri e quindi, davanti a me, vidi Cecilia. Camminava anche lei piuttosto svelta come chi sa dove si dirige e ha fretta di arrivarci. Dopo aver pensato per un momento di raggiungerla, rallentai il passo e la seguii: improvvisamente mi ero accorto che mai mi era sembrata così reale come adesso che avevo intenzione di separarmi da lei; volevo godere di questa realtà e, al tempo stesso, capire perché mai mi si fosse rivelata proprio ora. La guardai, dunque, con attenzione e mi accorsi che era come se l’avessi vista per la prima volta nella mia vita, in un’aria altrettanto nuova che quella del primo giorno della creazione. I particolari della sua persona parevano, per non so qual miracolo, essere più visibili del solito, anzi, per così dire, visibili in se stessi, cioè visibili in ogni modo anche se non li avessi guardati e osservati: la massa bruna, crespa e leggera dei capelli, più simili al tosone intricato e selvatico del pube che ad una capigliatura pettinata; il gesto del collo, che non si vedeva perché nascosto, ma si sentiva, insieme flebile e grazioso; il movimento del maglione verde, lungo, lento e peloso, intorno il busto che sapevo nudo, con il seno pieno ed erto, esposto, con le punte delicate, alla confricazione della lana ruvida; la gonna nera, stretta e corta, nella quale, ad ogni passo, si stampavano, con mobile e sbilanciata evidenza, le rotondità delle anche; il suo corpo intero, insomma, pareva attirare e, per così dire, inghiottire i miei sguardi con la stessa avidità con cui una terra arida inghiotte la pioggia. Ma oltre queste apparenze che, purtuttavia, mi saltavano agli occhi, mi accorsi che, per la prima volta da molto tempo, io ero in grado di percepire una realtà, come dire? di secondo grado; cioè qualche cosa che dava un’anima alle forme pur già così vive e rilevate. Alla fine capii che cos’era questa realtà: in ogni parte di quel corpo in movimento c’era come una forza inconsapevole e involontaria che pareva spingere in avanti Cecilia, quasi fosse stata una sonnambula dagli occhi chiusi e dalla mente oscurata. Questa forza me la sottraeva e di conseguenza me la rendeva reale.
Giunta a piazza di Spagna, Cecilia si avviò con decisione verso la scalinata. Mi fermai un momento e, saltando con l’occhio da lei al luogo dove pareva essere diretta, incontrai con lo sguardo la figura di un uomo che, infatti, sembrava aspettare qualcuno, dritto in piedi, presso l’ombrellone di un fioraio. Era un uomo giovane, alto e dall’aspetto vigoroso, con due particolari che notai subito: le spalle molto larghe che facevano pensare ad una complessione atletica; e i capelli di un biondo falso, aureo, che parevano ossigenati. Cecilia aveva intanto attraversato a testa bassa tutto il selciato di piazza di Spagna e si andava avvicinando a lui, senza affrettare il passo ma con un movimento delle anche pieno di una spinta irresistibile e provocante. Lo raggiunse, si fermò e mi parve che si stringessero la mano; allora, in fretta, mi mossi anch’io. Adesso parlavano e Cecilia era salita sul primo gradino della scalinata e ciononostante appariva più bassa di lui.
Ben presto fui vicino a loro. Mi accorsi che Cecilia non mi aveva visto e allora le venni sotto, alla distanza di forse un passo e tuttavia, come mi resi conto, continuò a non vedermi. Salii sullo scalino e le girai intorno, quasi sfiorandola, questa volta: parlava e rideva allegramente con l’uomo dai capelli ossigenati, ad un tratto i suoi occhi grandi e oscuri si fermarono su di me, ma anche questa volta, per quanto mi sembrasse impossibile, dovetti ammettere che non mi aveva visto. Mi accorsi che registravo queste cose senza pensare niente e capii che non pensavo niente perché soffrivo. Alla fine, andai a nascondermi dietro l’ombrellone del fioraio, pochi passi più in là.
Adesso il giovane dai capelli ossigenati aveva preso sottobraccio Cecilia, con una tenerezza eloquente, e la sospingeva dolcemente verso l’ombrellone dietro il quale mi nascondevo. Si fermarono; poi il giovane, pur senza lasciare il braccio di Cecilia, scelse un mazzolino di viole da un barattolo e glielo porse. Cecilia portò il mazzolino alle narici; il giovane pagò il fioraio, e quindi, sempre tenendola sottobraccio, si avviò con lei su per la scalinata, verso Trinità dei Monti. Per la prima volta, mi accorsi che il giovane indossava un corto cappottino verde, fino allora non lo avevo visto.
Per un poco, dopo che furono scomparsi, restai dove ero, guardando in su, verso la scalinata. Provavo un dolore acuto che non mi dava requie e al tempo stesso un furore impotente per il fatto di provare questo dolore. Capivo infatti che, fino a quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi o soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato.
Queste riflessioni e altre simili dovevano essere molto dense e molto assorbenti perché, improvvisamente, mi ritrovai con stupore nel mio studio: senza averne coscienza, avvolto nei miei pensieri come in una nebbia, ero tornato a via Margutta, ero rientrato e mi ero gettato sul divano. La sveglia, sulla tavola centrale, segnava le quattro e mezzo; mancava, dunque, soltanto mezz’ora all’arrivo di Cecilia. Ma non avevo veramente più niente da fare se non aspettarla. E quella mezz’ora mi parve, ad un tratto, invalicabile come se il tempo si fosse fermato e aspettasse da me una spinta per riprendere la sua corsa. In realtà ero io che stavo fermo ad un pensiero che non si spostava per quanti sforzi facessi.
Ciò che mi infuriava di più era che, sebbene non amassi Cecilia, le circostanze, per così dire, mi costringevano a provare i sentimenti e comportarmi nei modi che sono propri dell’amore. Io avrei voluto liberarmi da queste circostanze come un bue vorrebbe liberarsi dal giogo che gli pesa sul collo, ma sentivo che ad ogni movimento esse mi opprimevano di più e mi costringevano a condurmi come l’innamorato che tuttora ero convinto di non essere.
Mi dicevo per esempio: “Adesso Cecilia e il suo amico sono in qualche angolo appartato di Villa Borghese e Cecilia fa con lui quello che ha fatto tante volte con me: lo bacia maldestramente e freddamente, con le sue labbra puerili e allo stesso tempo gli assesta al ventre il solito colpo duro e voglioso col pube.” E subito dopo pensavo: “Ma perché penso tutto ciò e perché ne soffro? Evidentemente perché li ho visti insieme. E dunque, sono costretto, mio malgrado, per il solo fatto di averli visti insieme, ad essere geloso di lei e a soffrire?”
Riflettevo a testa bassa, gli sguardi a terra, alla fine levai gli occhi alla sveglia e mi accorsi che mancava poco, ormai, all’arrivo di Cecilia. Allora, alzandomi dal divano e stirando le membra indolenzite, pensai che, dopo tutto, io non ero poi tanto sicuro del tradimento. In fondo che cosa avevo visto? Un innocente appuntamento in un luogo per niente segreto, il dono galante ma poco significativo di un mazzo di violette, una passeggiata al Pincio. Simili cose avvengono a tutte le ore, tutti i giorni, senza che, per questo, coloro che le fanno siano legati da rapporti d’amore. C’era, è vero, il fatto del mancato appuntamento del giorno avanti. Ma dovevo diffidare della disposizione mentale che tende a stabilire relazioni arbitrarie tra cose lontane e diverse. Cecilia non era venuta all’appuntamento il giorno prima: questo era un fatto. L’avevo veduta quel pomeriggio con un giovane dai capelli ossigenati: questo era un altro fatto. Ma non era detto che i due fatti fossero collegati e, soprattutto, che lo fossero dal nesso del tradimento.
Strano a dirsi: avevo appena formulato questi pensieri, che la figura di Cecilia, la quale, finché l’avevo sospettata di tradirmi, mi era stata davanti agli occhi viva e reale benché misteriosa, anzi, appunto perché misteriosa; adesso che dubitavo del suo tradimento, ridiventava irreale e noiosa come nei giorni passati. E come nei giorni passati, io sentivo che dovevo disfarmi di lei, a tutti i costi; e temevo di non esserne capace; e mi confermavo nella mia decisione col ricordo della crudeltà alla quale, durante uno dei nostri ultimi incontri, avevo ricorso pur di non cadere nella noia.
Cecilia fu puntuale. Alle cinque udii la nota scampanellata che tanto le rassomigliava, così breve e reticente e, al tempo stesso, così intima. Andai ad aprirle pensando: “Appena la vedrò, le dirò subito che devo partire per la montagna, e così, anche se avessi a pentirmi in seguito, avrò creato un fatto compiuto che, difficilmente, potrò poi annullare.” Prevedevo che Cecilia, al solito, appena entrata, mi avrebbe gettato le braccia al collo, col consueto gesto meccanicamente passionale; ma questa volta le avrei afferrato le mani e gliele avrei abbassate, sciogliendo l’abbraccio e dicendo: “Prima di tutto devo parlarti.”
Avvenne, invece, quello che non avevo preveduto, e che, in fondo, avrei dovuto prevedere. Come ebbi spalancato la porta, Cecilia non mi buttò le braccia al collo; bensì tirò avanti, facendo come un gesto per tenermi lontano e dicendo: “Prima di tutto, però, debbo dirti una cosa.”
Non potei fare a meno di pensare che queste erano pressapoco le parole che avevo in mente di dirle; e subito mi venne l’idea che Cecilia volesse annunziarmi una decisione simile alla mia; cioè che voleva lasciarmi. Intanto lei era andata a sedersi sul divano. La raggiunsi e le sedetti accanto, dicendo con voce forte e rabbiosa: “No, prima di tutto tu devi darmi un bacio.”
Ubbidiente, si protese e mi scoccò un rapido bacio sulla guancia. Disse, poi, tirandosi indietro: “La cosa che debbo dirti è che d’ora in poi non potremo più vederci tutti i giorni, ma soltanto due volte la settimana.”
“E perché?”
“Calmati, non arrabbiarti,” disse, prima di rispondere. Effettivamente la mia voce era stata forte e aspra; ma mi arrabbiai sul serio sentendomelo dire: “Sono calmo e non sono arrabbiato. Vorrei soltanto sapere il perché di tutto questo.”
“In casa mia cominciano a brontolare per il fatto che ti vedo tutti i giorni.”
“Ma non gli hai detto che prendi lezioni di disegno?”
“Sì, ma due volte la settimana. Per gli altri giorni devo sempre inventare qualche scusa, e loro, ormai, l’hanno capito.”
“Non è vero, i tuoi non brontolano. Non brontolavano, per esempio, quando vedevi tutti i giorni Balestrieri.”
“Balestrieri aveva sessantacinque anni, non trentacinque come te: non sospettavano di lui. E poi lo conoscevano.”
“Ebbene presentami ai tuoi.”
“Ti presenterò. Ma intanto dobbiamo vederci soltanto due volte la settimana.”
Per un poco restammo silenziosi. Adesso scoprivo che non soltanto non volevo più separarmi da Cecilia; ma anche che non avrei sopportato di vederla soltanto due volte ogni sette giorni. Quindi, ad un tratto, capii. Io ero anche disposto a diradare i nostri appuntamenti; ma dovevo essere matematicamente sicuro che lei non mi mentiva e che i genitori avevano davvero brontolato. Poiché, però, non ne ero sicuro, l’idea che mi mentisse mi ispirava un sentimento angoscioso; come se mi fosse sfuggita nel momento stesso in cui, grazie alla menzogna, diventava ai miei occhi reale e desiderabile. Le afferrai la mano: “Di’ la verità, tu non vuoi più vedermi.”
Rispose subito: “Che c’entra. Ho detto che d’ora in poi dovremo vederci soltanto due volte la settimana, ecco tutto.”
Mi accorsi che la sua voce era perfettamente neutra, a eguale distanza dalla verità e dalla menzogna. Era un’osservazione che avevo già fatto altre volte; soltanto, però, per notare un carattere di Cecilia senza annetterci alcun significato. Insomma, lei pareva sempre dire soltanto le cose che diceva, né più né meno, senza, cioè, la minima partecipazione sentimentale. La quale, come sapevo, avveniva nel rapporto sessuale, e soltanto in quello. Ma io dovevo assolutamente sapere se lei mi mentiva, perché desideravo tuttora separarmi da lei e la menzogna me lo impediva. Insistetti: “In realtà tu vuoi che ci lasciamo. Ma non hai il coraggio di dirmelo e così vuoi prepararmi. Oggi dici due volte la settimana, domani dirai due volte al mese e poi, alla fine, dirai la verità.”
“Quale verità?”
Mi stava sulla punta della lingua: “Che hai un altro uomo.” Ma mi trattenni: il nesso tra la sua decisione di diradare le visite e l’incontro di piazza di Spagna era troppo ovvio e mi umiliava di accettarlo. Dissi, invece, bruscamente: “E va bene. Sia come tu vuoi, d’ora in poi ci vedremo soltanto due volte la settimana. E adesso cambiamo discorso.”
“Ma che hai, perché sei così scuro?”
“Cambiamo discorso. Lo sai che oggi ti sono passato sotto il naso e tu non mi hai visto?”
“Ma dove?”
“In piazza di Spagna, presso la scalinata.”
“A che ora?”
“Saranno state le quattro.”
La guardavo con attenzione: il volto aveva la solita espressione incerta ed infantile e non trasalì neppure: “Ah, sì, ero con un attore che si chiama Luciani.”
Anche la voce non rivelava niente di particolare: inespressiva, neutra, al di là dell’innocenza e della colpa. Domandai a caso: “Perché ha i capelli ossigenati?”
“Perché ha dovuto fare una parte di uomo biondo.”
“Sembravate molto intimi, almeno a giudicare dal modo col quale camminavate.”
Si informò con sincera curiosità: “Quale modo?”
Sentii che le parole non erano sufficienti per dipingere la tenerezza con cui l’attore l’aveva presa sottobraccio: “Alzati.”
“Ma perché?”
“Alzati.”
Ubbidì. Io, allora, la presi sottobraccio e la costrinsi a camminare un poco per lo studio; proprio come avevo visto fare all’attore: “Ecco,” dissi alla fine lasciandola: “in questo modo.”
Tornò a sedersi sul divano e mi guardò per un momento; poi disse: “Lui fa sempre così,” una frase, come pensai, che non significava affatto che lei e l’attore non si amassero. Domandai: “Lo conosci da molto tempo questo Luciani?”
“Da un paio di mesi.”
“Lo vedi spesso?”
“Ci vediamo ogni tanto.”
La vidi alzarsi in piedi e cominciare a sfilarsi la maglia dalla testa. Domandai: “Ma tu oggi avevi un appuntamento con lui?”
“Sì, lui vorrebbe che lavorassi nel cinema, dovevamo appunto parlare di questo.”
La guardai di sotto in su: si era tirata la maglia sulla testa, mostrando le ascelle bianche con pochi peli lunghi, molli e bruni; ma il seno era rimasto dentro, e non si vedeva che il busto magro di adolescente. Poi, con un movimento violento, riuscì a dare uno strappo in su e il seno esplose di fuori: di colpo, il busto fu quello di una donna, pur conservando qualcosa di gracile e di immaturo. Mi venne in mente che si spogliasse per interrompere un interrogatorio imbarazzante. Domandai: “E lavorerai nel cinema?”
“Non lo so ancora.”
“E dopo dove siete andati?”
“Siamo andati al Pincio a prendere un caffè.”
Adesso si era seduta di nuovo sul divano, nuda fino alla cintola, come per rispondermi meglio. Intanto rivoltava con cura le maniche della maglia. Dissi: “Vi ho visti salire verso Trinità dei Monti, infatti. Ma quell’attore non abita in via Sistina?”
“No, abita ai Parioli, a via Archimede.”
“E dopo il caffè che cosa avete fatto?”
“Abbiamo passeggiato per Villa Borghese fino a poco fa, quando l’ho lasciato per venire da te.”
Mi accorsi che la guardavo con desiderio; e capii che la desideravo non già perché era nuda, bensì perché mi mentiva. Lei parve notare il mio sguardo e soggiunse con semplicità: “Allora vuoi che facciamo l’amore?”
L’idea che mi proponesse di fare l’amore per nascondermi che mi mentiva, m’infuriò ad un tratto. Ero sicuro che soltanto un amante poteva stringere il braccio a una donna nel modo in cui Luciani glielo aveva stretto. Ma anche questa volta evitai di fare il nome dell’attore. Urlai: “No, non voglio far l’amore, voglio sapere la verità.”
“Ma quale verità?”
“La verità, quale essa sia.”
“Non ti capisco.”
“Ieri non sei venuta all’appuntamento e non mi hai neppure avvertito che non potevi venire. Oggi vuoi diradare le tue visite. Voglio sapere la verità; voglio sapere che cosa c’è dietro tutto questo.”
“Te l’ho già detto: i miei genitori brontolano.”
Sentii di nuovo che l’avevo sulla punta della lingua: “Non è vero, la verità è che tu fai l’amore con Luciani;” ma sentii al tempo stesso che a nessun patto sarei stato capace di dirlo. Restai, così, silenzioso e cupo, gli occhi rivolti in basso. Poi avvertii la sua mano sulla guancia: “Ti dispiace molto di non vedermi più tutti i giorni?”
“Sì.”
“Ebbene, sia come non detto. Continueremo come in passato. Soltanto dovremo fare più attenzione. Ci vedremo a ore diverse, secondo i giorni. Del resto ti telefonerò la mattina per dirti, volta per volta, l’ora in cui potremo vederci. Sei contento adesso?”
Così, in maniera repentina e misteriosa, Cecilia rinunciava a diradare le visite. Fui tanto sorpreso che non riuscii più a pensare niente di malevolo. Era chiaro: Cecilia, nonostante le sue precoci esperienze, era una ragazza molto giovane che aveva paura dei genitori; questa paura le aveva suggerito di rendere meno frequenti i nostri incontri; di fronte alla mia tristezza e al mio sospetto, cambiava di nuovo decisione e mi accontentava. Così lei non mi tradiva e non mi mentiva, era soltanto una ragazza semplice e senza mistero, divisa tra la soggezione ai suoi genitori e l’attaccamento all’amante. Mi parve strano di non averlo pensato prima e d’improvviso, il modo con il quale l’attore l’aveva presa sottobraccio, diventò un particolare senza importanza: forse lui faceva così davvero con tutte le donne, quali che fossero i suoi rapporti con esse. Queste riflessioni non durarono che un attimo. Quindi mi accorsi di un fatto nuovo: non soltanto non ero contento che Cecilia avesse rinunziato a diradare le visite; ma anche, simile ad una nube piccolissima, ma decisamente scura in un cielo sgombro, già vedevo la vecchia noia riapparire al nostro orizzonte: “Grazie. Ma se vuoi potremo forse vederci, che so io, quattro volte la settimana invece di sette.”
“No, non importa, troverò qualche scusa.”
Era tornata vicino alla seggiola sulla quale aveva deposto la maglia, e ricominciava a spogliarsi. La vidi portare le due mani alla chiusura lampo della gonna, sul fianco, e quindi abbassarla; mi domandai allora se i gesti alacri e graziosi che provocavano la graduale caduta dei vestiti e il graduale svelarsi del corpo mi apparissero, adesso che ero sicuro di non essere tradito, noiosi e assurdi come in passato: e, dopo un momento di attenzione, dovetti convincermi che era proprio così. Come, infatti, per un miracolo alla rovescia, un miracolo, cioè, che invece di introdurre qualche cosa di magico nella realtà, glielo sottraesse, Cecilia, che mi era sembrata così desiderabile sinché avevo sospettato che mi tradiva, ora che mi ero convinto del contrario, era tornata ad essere un oggetto insignificante, presente forse alla percezione più superficiale dei miei sensi, ma non per questo veramente reale. Pensai che lei “era tutta lì”, in quell’atto di abbassare la chiusura lampo, senza margini di autonomia e di mistero, tutta lì e per questo, appunto, inesistente; posseduta in anticipo prima ancora che il rapporto sessuale desse una conferma superflua a questo possesso del sentimento; posseduta e perciò noiosa. Ricordo che mentre pensavo queste cose, mi spogliavo anch’io; e che non potei fare a meno di rivolgere lo sguardo al mio sesso, quasi temendo che non fosse in stato di erezione, come avrei potuto temere giudicando dalle mie riflessioni. Ma lo era; e mai come in quel momento ammirai la forza della natura che, per così dire, mi faceva desiderare senza vero desiderio. Ormai ero nudo. Mi distesi supino, sul divano, un po’ come un infermo si stende sul lettino del medico, con lo stesso sentimento di sottopormi ad una prova spiacevole e comunque molto lontana dall’amore.
Allora avvenne un fatto impreveduto. Cecilia, che aveva finito anche lei di spogliarsi, andò in punta di piedi, come era solita, a tirare le tende del finestrone e quindi, con lo stesso gesto gioioso di chi corra verso il mare dopo essersi messo in libertà, spiccò la corsa verso il divano e mi cadde addosso, pesantemente e violentemente, con un inarticolato grido di trionfo. Poi si levò a cavalcioni sopra di me che giacevo supino e, pesandomi con le due palme sulle spalle, esclamò: “Di’ la verità, confessalo, poco fa tu hai creduto che ti tradissi con Luciani?”
Guardai il suo viso eccitato, rosso di piacere, tra i capelli crespi e leggeri che non mi erano mai sembrati così vivi e fui d’improvviso sicuro del contrario di quanto avevo sinora pensato: sì, Cecilia mi aveva mentito; sì, mi aveva tradito con l’attore. Lo dimostrava, se non altro, la sua voce trionfante, simile, nella sua irresistibile ingenuità, a quella di una bambina che, dopo uno scherzo riuscito, gridi ad un compagno: “Di’ la verità, ci sei cascato.”
Nello stesso tempo la vidi di nuovo, più reale che mai e dunque desiderabile, con il suo seno bruno e pieno di donna, pendente dal busto magro e bianco di adolescente; con la sua vita snella; coi suoi fianchi compatti e forti; e pensai che mi appariva reale e desiderabile proprio perché mi sfuggiva attraverso la menzogna e il tradimento. Invaso, a questo pensiero, da un furore ansioso e vendicativo, l’afferrai per i capelli con tanta forza che l’udii gemere, la disarcionai e mi gettai su di lei. Di solito il possesso fisico non era che la ripetizione di un possesso mentale precedente, ossia confermava la noia che mi rendeva Cecilia irreale e assurda. Ma questa volta, come sentii subito, il possesso pareva confermare, invece, la mia incapacità di possederla davvero: per quanto la malmenassi, la stringessi, la mordessi e la penetrassi, io non possedevo Cecilia e lei era altrove, chissà dove. Alla fine ricaddi stremato ma tuttora rabbioso, uscendo dal suo sesso come da una ferita inutile; e mi parve che Cecilia, la quale giaceva adesso accanto a me, con gli occhi chiusi, avesse sul volto, pur nella serenità placata che segue la soddisfazione dell’appetito carnale, un’espressione ironica. Quella, pensai, della realtà stessa, che mi sfuggiva e si sottraeva proprio nel momento in cui mi illudevo di impadronirmene.
La guardavo con intensità. Dovette sentire il mio sguardo perché aprì gli occhi e mi guardò a sua volta. Quindi disse: “Lo sai che è stato molto bello oggi?”
“Non è sempre bello allo stesso modo?”
“Oh no, è sempre diverso. Ci sono dei giorni che non è così bello, oggi è stato bello.”
“Perché è stato bello?”
“Sono cose che non si spiegano. Una donna sente, però, quando è bello e quando non lo è. Sai quante volte sono venuta?”
“Quante?”
Levò la mano con tre dita e disse: “Tre,” quindi richiuse gli occhi, stringendosi leggermente contro di me; e in questo gesto le apparve di nuovo, sul volto dalle palpebre abbassate, l’espressione ironica che avevo già notato. Così, pensai, poteva anche darsi che io l’avessi posseduta davvero, posseduta a fondo, posseduta senza margini di autonomia e di mistero. Ma io non potevo averne coscienza, né, dunque, goderne; del possesso, a quanto sembrava, poteva essere consapevole soltanto chi era posseduto, non chi possedeva. Di nuovo, più forte che mai, mi tornò il senso di incapacità del possesso, nonostante la pienezza del rapporto fisico. Avrei voluto domandare: “È stato più bello con me o con Luciani?” ma ancora una volta mi sentii incapace di pronunciare il nome dell’attore. Domandai, invece, non sapevo neppure io perché: “È vero che Balestrieri ti è morto tra le braccia, mentre facevate l’amore?”
La vidi raggrinzire fuggevolmente il viso, senza aprire gli occhi, come se un moscerino l’avesse sfiorata nel suo volo. Poi mormorò: “Ma perché vuoi saperlo?”
“Dimmi se è vero.”
Stava tuttora con gli occhi chiusi, mi pareva di interrogare una sonnambula. Rispose: “Non proprio. Si sentì male mentre facevamo l’amore, ma morì più tardi, quando non lo facevamo più.”
“Non dici la verità.”
“Perché non dovrei dirla? Ebbi una tale paura. Credevo che fosse proprio morto; ma si riebbe, per fortuna, e ce la fece ad arrivare sino al letto.”
“Allora non eravate sul letto?”
“No.”
“E dove eravate?”
“Quante cose vuoi sapere.”
“Dove eravate?”
“Sulla scala.”
“Sulla scala?”
“Sì, gli veniva la voglia di fare l’amore, per così dire, ad ogni momento. L’avevamo già fatto una prima volta nella cameretta, al secondo piano, e stavamo scendendo allo studio perché lui voleva dipingere. Io andavo avanti a lui. Improvvisamente gli venne la voglia di fare l’amore, e lo fece, lì, sugli scalini. Ma lo sai?”
“Che cosa?”
“Dopo che si fu sentito male, e io l’ebbi aiutato a risalire alla cameretta e a stendersi sul letto, stette per un poco, con gli occhi chiusi, immobile. Poi, pian piano, si riebbe e, immagina un po’, avrebbe voluto fare l’amore di nuovo, per la terza volta. Fui io a non volere. Aveva già la faccia del morto e mi faceva paura. Ci rinunziò, ma per forza, e arrabbiandosi. Qualche volta penso che sia morto appunto perché si era arrabbiato.”
Così, pensai, Balestrieri aveva voluto davvero uccidersi. Mi pareva di vedere quei due che si separavano sul più bello dell’amore; e il vecchio pittore che, aggrappandosi con le due mani alla balaustra, si arrampicava penosamente, scalino dopo scalino, fino al ballatoio e andava a cadere sul letto; e quindi quella specie di cadavere che si levava ad un tratto a sedere e tendeva le braccia verso Cecilia. Domandai ancora, seguendo il filo delle mie riflessioni: “Ma tu lo tradivi, Balestrieri?”
La vidi rifare quella smorfia di fastidio, come per un moscerino importuno; e capii che in realtà le avevo domandato: “Ma tu mi tradisci?” Infatti parve anche lei comprendere il vero senso della domanda, perché si limitò a mormorare: “Ecco che ricominci.”
Insistetti: “Dimmi, ti prego, lo tradivi?”
Rispose alla fine: “Perché vuoi saperlo? Sì, lo tradivo ogni tanto, era così noioso.”
Rimasi senza fiato: “Noioso, come sarebbe a dire: noioso?”
“Noioso.”
“Ma che cosa vuol dire per te, noioso?”
“Noioso, vuol dire noioso.”
“E cioè?”
“Noioso.”
Così Cecilia mi tradiva, pensai ancora, e mi tradiva perché ero noioso, cioè, appunto come lei per me inesistente. Ma tra di noi c’era questa differenza: che io sapevo cosa fosse la noia per averne sofferto per tutta la vita; mentre per lei la noia non era che una spinta oscura a portare altrove il movimento provocante e irresistibile dei fianchi riluttanti. La guardai di nuovo: stava distesa, a gambe larghe, supina, così come l’ultimo amplesso l’aveva lasciata, senza pudore, ma apparentemente fiduciosa che io avrei considerato questo suo abbandono come una dimostrazione di naturalezza e di intimità. E allora, guardandola, non potei fare a meno di soggiacere all’illusione maschile che vede nel possesso fisico il solo possesso reale. Sì, pensai, Cecilia mi sfuggiva, si sottraeva a me; ma se l’avessi presa di nuovo, chissà, forse sarei riuscito questa volta ad annullare la sensazione di non possederla; a possederla davvero e definitivamente. Mi tirai su, e chinandomi su di lei, le sfiorai le labbra con un bacio. Lei pronunziò, senza aprire gli occhi: “Credo che tra poco dovrò andarmene.”
“Aspetta.”
Così la ripresi senza che lei aprisse gli occhi, benché con il corpo mostrasse di accogliere e facilitare l’amplesso nella solita maniera vorace: un’ultima dimostrazione, se ce n’era ancora bisogno, del fatto che lei era altrove e che ciò di cui io mi impossessavo non aveva alcun valore per lei e dunque anche per me. Ma questa volta, subito dopo l’amore, Cecilia spalancò gli occhi e disse: “Ora devo proprio andarmene.”
Si levò, andò di corsa all’uscio del bagno e scomparve. Rimasto solo, caddi in una specie di vuota riflessione. Riflettevo proprio nel senso che si dà letteralmente alla parola, ossia contemplavo nello specchio oscuro della mia coscienza me stesso disteso nudo e inerte sul divano, il cavalletto con la tela bianca presso il finestrone, lo studio e tutte le cose che conteneva. Poi un pensiero preciso si insinuò in questo mondo oggettivo e morto; ed era che, dopo il secondo amplesso, Cecilia era restata più che mai sfuggente e dunque reale; così che, se per un miracolo della natura, io fossi stato capace di prenderla non già due volte di seguito, ma duecento, alla fine mi sarei trovato altrettanto insoddisfatto che la prima volta. Insomma, io la possedevo tanto meno quanto più la prendevo; se non altro perché, prendendola, sperperavo l’energia di cui avrei avuto bisogno per possederla sul serio, in una maniera, però, che non riuscivo a immaginare, almeno per il momento.
Udii a questo punto Cecilia aprire la porta del bagno e allora, sollevandomi sui gomiti, le dissi: “Guarda in quell’armadio: c’è un regalo per te.” L’udii esclamare: “Per me?” con un accento né sorpreso, né realmente contento; quindi dovette aprire l’armadio, prendere la borsa, scartarla, guardarla, ma non vidi nulla perché stavo tuttora supino, gli occhi rivolti al soffitto. Ma dopo un poco sentii le sue labbra sfiorare le mie in uno di quei suoi baci secchi e infantili e la sua voce mormorare: “Grazie.” Più tardi, mi levai finalmente sui gomiti: Cecilia, ormai vestita, stava in piedi presso la tavola centrale, e trasferiva con cura i vari oggetti personali dalla vecchia borsa alla nuova. Mi lasciai ricadere di nuovo, supino.