CAPITOLO SETTIMO

Le cose che sto per raccontare potranno forse dar l’idea di una crisi di assai comune gelosia; effettivamente, se la mia condotta di quei giorni fosse stata osservata da uno spettatore poco perspicace, essa gli sarebbe apparsa come quella del perfetto geloso. Ma non era così. Il geloso soffre di un senso eccessivo di proprietà, sospetta continuamente che altri voglia impadronirsi della sua donna, l’ossessione di questo sospetto gli ispira immaginazioni stravaganti e può anche spingerlo fino al delitto. Io invece soffrivo di amare (poiché d’amore, ormai, si trattava) Cecilia; e miravo, spiandola, ad accertarmi che mi tradisse, non già per punirla e comunque per impedirle di portare avanti il tradimento, ma per liberarmi del mio amore e di lei. Il geloso, insomma, tende, sia pure suo malgrado, a ribadire la propria servitù; io volevo invece disfarmi di questa stessa servitù e non vedevo altro mezzo, per raggiungere questo scopo, che distruggere l’autonomia e il mistero di Cecilia, riducendola, attraverso una conoscenza più esatta del suo tradimento, a qualche cosa di noto, di comune, e di insignificante.

Per prima cosa pensai di servirmi del telefono. Come ho già accennato, Cecilia mi telefonava tutte le mattine verso le dieci. L’aveva fatto nei primi tempi soltanto per salutarmi. Ma adesso che le sue visite si erano diradate (la sua promessa di continuare a vedermi tutti i giorni, come nei primi tempi, si era ben presto rivelata inconsistente), il telefono era diventato un elemento essenziale dei nostri rapporti. Attraverso il telefono, infatti, volta per volta, in maniera oscuramente irregolare, Cecilia, adesso, mi fissava il giorno e l’ora dei nostri appuntamenti. Ora notai che questa sua telefonata, negli ultimi tempi, si era spostata dalle dieci alle dodici. Cecilia aveva giustificato questo cambiamento con il fatto che il telefono era un duplex e che l’abbonato che ne condivideva l’uso con lei, aveva preso a fare molte telefonate di buon mattino. Ma io ero convinto che il motivo fosse un altro; cioè che lei non mi telefonava più alle dieci perché, a quest’ora, non aveva ancora parlato con l’attore il quale, come tutti gli attori, dormiva molto avanti nella mattinata. E non avendogli parlato, non sapeva ancora quel che avrebbe fatto durante la giornata e perciò non poteva dirmi se e quando poteva vedermi.

L’attore non aveva il numero nell’elenco; ma mi fu facile ottenerlo da una casa cinematografica per la quale aveva lavorato in passato. Avuto il numero, mi accertai della verità della mia supposizione nel modo seguente: prima telefonavo a Cecilia verso le undici e tre quarti e trovavo invariabilmente che il telefono era occupato; subito dopo telefonavo all’attore e scoprivo che anche lui stava parlando. Aspettavo cinque, dieci minuti e poi ripetevo il controllo: ambedue i telefoni erano liberi. E infatti, di lì a un minuto, con una puntualità che mi riempiva di tristezza, il mio telefono squillava e Cecilia, all’altro capo del filo, calma e precisa come una segretaria, mi diceva, secondo i casi, che quel giorno ci saremmo veduti oppure che non potevamo vederci.

Il telefono mi serviva anche per sorvegliare le entrate e le uscite di Cecilia. Telefonavo metodicamente (se si può parlare di metodo a proposito dei frenetici accorgimenti della gelosia) a varie ore del giorno e o non trovavo nessuno, oppure trovavo la madre che spesso restava a casa, lasciando il negozio alla sorella. Allora attaccavo discorso con la madre, la quale, lei, non chiedeva di meglio che chiacchierare; e così, attraverso le chiacchiere della madre, venivo a sapere più o meno quanto mi premeva. Naturalmente le informazioni della madre venivano quasi tutte da Cecilia, che mentiva a lei come a me, e, comunque, non le lasciava sapere se non quello che le faceva comodo; ma io ero ormai in grado di decifrarle abbastanza bene, tanto più che Cecilia, non sapendosi spiata, non si curava di concordarle con quelle altrettanto false ma diverse che forniva a me. Venni così a sapere che Cecilia, abitudinaria come tutte le persone prive di immaginazione, aveva giustificato a casa i suoi rapporti con l’attore nella stessa maniera che quelli con Balestrieri e con me: diceva di vedere l’attore perché questi le aveva promesso di farla lavorare nel cinema, allo stesso modo che, in passato, aveva detto di vedere Balestrieri e me perché le davamo le lezioni di disegno. Ma le lezioni non durano che un’ora o due; i rapporti con un ambiente di lavoro possono invece occupare l’intera giornata; e così scoprii che Cecilia, con la scusa del cinema, vedeva l’attore tutti i giorni, due e anche tre volte al giorno. Lo vedeva qualche volta la mattina, specie se il tempo era bello, per una passeggiata in città e un aperitivo; lo vedeva il pomeriggio, probabilmente per fare l’amore; lo vedeva la notte per cenare e andare al cinema. La madre un po’ era allarmata da questa sedicente attività cinematografica della figlia e un po’ lusingata. Prendendomi come confidente, ora mi chiedeva con ansietà se non c’era il pericolo che l’ambiente del cinema, notoriamente molto libero per non dire licenzioso, non avesse a corrompere Cecilia; ora, invece, mi domandava con altrettanta ansietà se credevo che la figlia avesse, come si dice, i numeri per diventare una stella. Parlava con completa ingenuità ma a me, all’altro capo del filo, faceva spesso l’effetto che sapesse tutto, così di me come dell’attore, e che si divertisse a tormentarmi con consapevole e raffinata crudeltà. In realtà, come sapevo benissimo, la crudeltà era nelle circostanze e soltanto in esse.

In questo modo, tra le illusioni della madre e le bugie di Cecilia, il telefono né mi rassicurava del tutto, né mi forniva le prove indubitabili di cui avevo bisogno per liberarmi della mia piccola amante e del mio amore per lei. Indiretto e astratto per sua natura, il telefono mi sembrava anzi, ormai, il simbolo stesso della mia situazione: un mezzo di comunicazione che mi impediva di comunicare; uno strumento di controllo che non permetteva di sapere niente di preciso; una macchina automatica e di uso facilissimo che, però, si rivelava quasi sempre infida e capricciosa.

D’altronde il telefono pareva fatto apposta per confermare il carattere inafferrabile di Cecilia. Evidentemente non era colpa del piccolo apparecchio di ebanite nera se Cecilia tardava a telefonarmi o non mi telefonava affatto; se mi mentiva o mi deludeva. Ma poiché tutto questo avveniva attraverso il telefono, io ero giunto a concepire un odio ossessivo per quell’oggetto innocente. Non telefonavo ormai più senza una ripugnanza estrema; non udivo lo squillo senza angoscia. Nel primo caso temevo di non trovare Cecilia, come, infatti, quasi sempre avveniva; nel secondo di udirla, al solito, mentirmi, che era anche questa una maniera di non trovarla. Ma soprattutto il telefono confermava l’inafferrabilità di Cecilia, perché sostituiva la persona fisica con una sua parte e per giunta la più astratta, ossia la voce. Anche quando questa voce non mentiva, essa restava per me ambigua e sfuggente appunto perché non era che una voce. Tanto più, poi, la voce di Cecilia, sempre così ostinatamente inespressiva.

Ma quello che mi spinse soprattutto a spiare Cecilia direttamente, fu la stanchezza. Io passavo ormai quasi tutta la giornata a guardare il telefono, aspettando sia l’ora in cui Cecilia mi telefonava, sia l’ora in cui sapevo che potevo telefonarle con la speranza di trovarla. Inoltre c’erano le telefonate che non trovavano nessuno o trovavano soltanto i sussurri del padre; e c’erano le telefonate alla madre, estenuanti e irritanti, per ricostruire la giornata di Cecilia. Tutti questi accorgimenti telefonici, sempre più complicati e più ansiosi, finivano per annullare, come notai, qualsiasi sollievo potessi ritrarre dalle telefonate stesse. Un po’ come avviene agli affamati, la cui fame pare continuare anche dopo che hanno mangiato, così, dopo che ero riuscito finalmente a parlare con Cecilia, continuavo a sentirmi egualmente ansioso e rabbioso. Il risultato di tutto questo, poi, era una specie di frenesia sessuale per cui, dopo aver premeditato di interrogare Cecilia con calma e a lungo e di costringerla a confessare il suo tradimento, appena lei compariva sulla soglia dello studio, dimenticavo i miei propositi di freddezza, la gettavo sul divano e lì la prendevo, senza aspettare che si spogliasse, senza neppure darle il tempo, come lei stessa diceva con una punta di infantile compiacimento, di respirare. Era la solita illusione maschile di raggiungere il possesso in un sol colpo e senza parlare, con il rapporto fisico, che mi spingeva a questa furia. Ma subito dopo l’amore, vedendo Cecilia restare più inafferrabile di prima, mi accorgevo del mio errore e mi dicevo che se volevo possederla davvero, non dovevo spendere la mia energia in un atto che del possesso aveva soltanto le apparenze.

Un incidente insignificante fu la causa occasionale della mia decisione di spiare Cecilia. Mette conto di riferirlo se non altro per dare il senso dello stato d’animo in cui mi trovavo allora. Una mattina, dopo aver fatto il solito controllo dei telefoni di Cecilia e dell’attore, e averli trovati ambedue occupati, appena Cecilia mi chiamò, le domandai a bruciapelo: “A chi telefonavi? Il telefono è stato occupato almeno venti minuti.”

Rispose subito con perfetta naturalezza: “Telefonavo a Gianna.”

Gianna era un’amica di Cecilia e per caso io ne conoscevo il cognome e l’indirizzo. Salutai in fretta Cecilia e quindi andai a cercare nell’elenco il numero di Gianna. Esasperato, pensavo questa volta di mettere Cecilia con le spalle al muro. Formai il numero di Gianna, una voce di donna, probabilmente quella della madre, mi rispose. Domandai: “La signorina Gianna.”

“È uscita.”

“Da quanto tempo?”

“Oh, sarà già più di un’ora, chi la voleva?”

Buttai giù l’apparecchio e formai di nuovo il numero di Cecilia. Appena udii la sua voce, gridai: “Mi hai mentito.”

“Come sarebbe a dire?”

“Mi avevi detto che Gianna ti aveva telefonato un minuto fa. Ora, le ho telefonato e ho saputo che era già uscita da un’ora.”

“Che c’entra, Gianna telefonava da fuori. Da un telefono pubblico.”

Rimasi senza fiato. Così, nella condizione di stanchezza in cui mi trovavo, non ero più capace di riflettere con ordine e lucidità; e avevo creduto di chiudere Cecilia in una trappola dalla quale, in realtà, era facilissimo uscire. Dissi, quasi con stupore: “Scusami, non ci avevo pensato. Da qualche tempo non capisco più niente.”

“Pare anche a me.”

Quest’incidente, benché minimo, mi convinse che non potevo più fidarmi della mia mente stanca e confusa; e che dovevo spiare Cecilia direttamente, con gli occhi. A tutta prima mi sembrò la cosa più facile del mondo. Ma appena mi accinsi a farlo davvero, mi accorsi che non era così.

La mia idea era di telefonare a Cecilia da un telefono pubblico più vicino che fosse possibile al suo palazzo; e dopo essermi assicurato che lei era in casa, andare a mettermi di fazione di fronte al suo portone e aspettare che uscisse, com’era solita, verso le tre. Ero convinto, per una quantità di indizi, che lei si recasse dall’attore intorno a quell’ora: l’avrei seguita, avrei controllato il suo ingresso in casa di Luciani, avrei aspettato che uscisse, l’avrei fermata. Certo, non era escluso che anche in quel momento e in quel luogo, Cecilia trovasse il modo di mentirmi, oppure, com’era più probabile, di ammettere soltanto una parte della verità e precisamente quella parte innocente che non manca mai in alcuna azione colpevole; ma io contavo sulla sorpresa e sulla flagranza per far crollare la sua dissimulazione e costringerla a confessare. Una volta ottenuta questa confessione, ero convinto che la svalutazione di Cecilia e la mia conseguente liberazione sarebbero venute da sé.

Avevo notato che la strada dove si trovava il palazzo di Cecilia intersecava, due casamenti più in giù, una via trasversale e che sull’angolo c’era un bar. Così, uno di quei pomeriggi, fermai la macchina davanti al bar, mi feci dare un gettone e chiamai il numero di Cecilia. Mi accorsi, mentre il telefono squillava, che non avevo alcuna scusa per parlarle. Ci eravamo già telefonati il mattino ed eravamo rimasti d’accordo di vederci il giorno dopo; che cosa avrei potuto dirle? Pensai, alla fine, che l’avrei pregata di venire allo studio quel giorno stesso, contrariamente ai nostri accordi; e pensai pure che, se lei accettava, avrei rinunziato definitivamente a spiarla.

Il telefono squillò a lungo; finalmente ecco la voce di Cecilia, neutra e incolore: “Sei tu? Dimmi.”

“Ci ho ripensato, vorrei vederti oggi.”

“Oggi è impossibile.”

“Perché è impossibile?”

“Perché non posso.”

“Devi andare anche oggi da quel produttore?”

Questa volta tacque, come aspettando che mi congedassi. Aspettai anch’io, sperando che Cecilia fosse abbastanza ipocrita per dirmi qualche cosa di affettuoso come avrebbe fatto qualsiasi altra donna vedendosi sospettata con ragione. Ma Cecilia non aveva immaginazione e non diceva mai più di quanto ci fosse da dire. Così, dopo un lungo silenzio, concluse: “A domani, allora, ciao.”

Uscii dal bar, risalii nella macchina e andai a mettermi due palazzi più in là, davanti al portone di Cecilia. Era la prima volta in vita mia che spiavo qualcuno; e, come ho già detto, mi ero illuso che fosse una cosa facile: non spiavano forse, oltre a coloro che lo facevano per mestiere, come gli agenti di polizia e simili, anche le donnicciole attraverso le stecche delle persiane e i monelli ai buchi delle serrature e in genere gli sfaccendati per ammazzare il tempo? Ma poiché cominciai a spiare anch’io, scoprii un fatto molto semplice che non avevo preveduto; ed era che un conto è spiare per mestiere come gli agenti, o per oziosa curiosità come le donnicciole e i monelli e un altro spiare, com’era il mio caso, per uno scopo preciso che ci riguardi direttamente. Non erano, infatti, ancora passati dieci minuti che mi accorsi di soffrire molto di più che se fossi rimasto nello studio ad analizzare con la mente i sospetti, senza cercare di appurarne altrimenti la fondatezza. Adesso continuavo lo stesso a sospettare di Cecilia; ma all’angoscia del sospetto si aggiungeva quella dello spionaggio. E almeno avessi saputo il momento preciso in cui Cecilia sarebbe uscita; avrei potuto sentirmi tranquillo sino a, poniamo, un minuto prima della sua apparizione sulla soglia del palazzo. Ma poiché ignoravo quando sarebbe scoccato quel momento, ogni istante che passava aveva per me la qualità estrema e dolorosa di quell’unico istante in cui l’avrei vista apparire davvero. E l’attesa, delusa ad ogni secondo, invece di suddividersi per me in tanti ritardi facilmente giustificabili (il solito ritardo che si concede a tutte le donne, il ritardo dovuto alla toletta, ad un colpo di telefono, ad una visita, etc. etc.) e abbastanza ampi da consentire qualche riposo, non faceva che crescere, vuota e tesa, come una sola nota acutissima che salga sempre più o un dolore monotono che si faccia sempre più forte.

Aspettai i primi dieci minuti con calma perché ero sicuro che Cecilia sarebbe uscita non prima di dieci minuti in quanto io mi ero messo di fazione alle tre meno dieci e sapevo che Cecilia non usciva mai prima delle tre. Questi primi dieci minuti passarono senza che Cecilia apparisse e io gliene concessi altri dieci. Passarono anche questi e poi altri dieci ancora e allora decisi di aspettarne altri dieci senza però riuscire, questa volta, a immaginare in alcun modo che cosa trattenesse Cecilia in casa sua. Questi dieci minuti vuoti, ma ancora sopportabili, trascorsero più lentamente dei primi trenta, in quanto non ero più disposto ad aspettare e anzi speravo che Cecilia apparisse al quarto o al quinto minuto; ma Cecilia non venne e io mi trovai, ad un tratto, per la quinta volta, di fronte ad un tempo vuoto che mi ripugnava come può ripugnare una piazza immensa e deserta ad un agorafobo. Purtuttavia, aspettai dicendomi, con una speranza in qualche modo mistica, che questa volta Cecilia non poteva non venire. Ma Cecilia non venne e io mi rassegnai ad aspettare altri dieci minuti, pensando, per consolarmi, in mancanza di meglio, che così sarebbe stata un’ora, e un’ora è il massimo che si può aspettare in qualsiasi caso. Ma, naturalmente (dico: naturalmente, perché io sentivo ormai che l’apparizione di Cecilia sarebbe stato un fatto contro natura, ossia un miracolo), Cecilia non venne neppure questa volta e io mi accinsi ad aspettare per la settima volta altri dieci minuti, giustificandomi con il pensiero sottile e arbitrario che, essendo un’ora il massimo che si poteva aspettare, io dovevo concedere a Cecilia dieci minuti in più di un’ora, se non altro per cavalleria. A questo punto, però, mi accorsi che la mia mente non pensava più nulla, ossia si rifiutava di tenermi compagnia durante l’attesa. Io ero solo con me stesso, ossia con l’angoscia che in quel momento era il mio unico modo di esistenza; e le due sole cose che contassero per me, ormai, erano l’orologio che tenevo al polso e il portone che sorvegliavo con gli occhi. All’orologio cercavo di rivolgere gli sguardi ad intervalli della durata di tre minuti; al portone, invece, guardavo più spesso che fosse possibile, quasi temendo che Cecilia ne uscisse con la rapidità del lampo e dileguasse in quel solo momento in cui abbassavo gli occhi verso l’orologio. Ma avveniva che l’impazienza, invariabilmente, mi facesse credere che i tre minuti erano già passati, mentre in realtà non ne era trascorso che uno; e che lo sforzo, con il quale mi costringevo a fissare il portone, si facesse ad un tratto insopportabile, come diventa insopportabile ogni tensione muscolare troppo prolungata. Così guardavo troppo spesso l’orologio e mi stupivo di vedere che i minuti di quell’attesa parevano infinitamente più lenti di qualsiasi altro minuto che avessi aspettato nella mia vita; e invece provavo un desiderio quasi invincibile di distogliere gli occhi dal portone, la cui soglia pareva deserta soltanto perché la guardavo, come se quelle pietre, quei mattoni, quell’intonaco avessero saputo della mia attesa e malignamente mi avessero rifiutato l’apparizione di Cecilia, appunto perché la desideravo tanto.

Aspettai, dunque, dieci minuti dopo l’ora, poi altri dieci, perché alle quattro e venti, come sapevo, la madre di Cecilia si recava al negozio che non era troppo lontano e si apriva alle quattro e mezzo, e Cecilia, qualche volta, aspettava di uscire fino a che la madre non fosse uscita. Ma alle quattro e un quarto improvvisamente, come se i miei muscoli avessero avuto uno scatto involontario, senza riflettere, accesi il motore, ingranai la marcia e partii. Non andai lontano, però. Al bar, all’angolo, mi fermai, discesi e andai a telefonare. “Deve essere uscita,” mi rispose la madre, in tono incerto, “sono stata in cucina e non l’ho vista, può essere uscita cinque minuti fa, come mezz’ora fa.” Uscii in fretta e furia dal bar, risalii nell’automobile e perlustrai di gran corsa quella strada e le altre adiacenti, spingendomi fino alla fermata dove sapevo che Cecilia era solita aspettare l’autobus, ma non trovai niente. Evidentemente la madre si era sbagliata e Cecilia non era uscita né da cinque minuti né da mezz’ora, bensì soltanto da un minuto o poco più e così aveva varcato il portone di casa sua proprio nel momento in cui io l’andavo cercando nelle strade vicine; a meno che, giunta a metà scala, non fosse tornata indietro, per qualche suo motivo che non potevo immaginare e non si trovasse adesso di nuovo in casa. Ma non avevo più voglia di far controlli telefonici; così decisi di andare ad appostarmi di fronte alla casa di Luciani. L’attore abitava ai Parioli, in via Archimede, una strada stretta e tortuosa che fa il giro della collina fra due file di case moderne. Io avevo già perlustrato quella strada qualche giorno addietro, non tanto per spiare quanto per vedere il luogo dove sapevo che Cecilia capitava ormai così spesso; e mi pareva di ricordare che, proprio di fronte alla casa dell’attore, ci fosse un bar dal quale sarebbe stato facile sorvegliarla. Infatti, come fui disceso dalla macchina e mi fui affacciato al bar, scoprii che non m’ingannavo: dietro la vetrina, c’erano due o tre tavolini dai quali, passando con lo sguardo attraverso le bottiglie e le scatole di dolciumi, sarebbe stato facile, senza essere osservati, osservare il portone della casa dirimpetto.

Sedetti, ordinai un caffè e cominciai a spiare, occupazione che, ormai, già odiavo con tutto l’animo. Il portone dell’attore, incorniciato di marmo nero, spiccava sulla facciata bianca come un annunzio mortuario su una pagina di giornale; ma scoprii subito che una bottiglia di liquore, esposta nella vetrina, me ne nascondeva una buona metà. Ora, proprio attraverso questa metà di portone che non vedevo, Cecilia avrebbe potuto sgattaiolare dentro o fuori della casa senza che io me ne accorgessi. Cercai di spostare la seggiola; ma allora non vedevo più affatto il portone perché una grande scatola di biscotti inglesi me lo nascondeva completamente. Mi domandai se fosse il caso di stendere una mano e rimuovere la bottiglia; ma capii che non potevo farlo senza insospettire il barista. Decisi alla fine di togliere di mezzo l’oggetto ingombrante, acquistandolo. Era vero che non si poteva escludere che il barista avesse una bottiglia simile in riserva, e così non mi desse quella della vetrina, ma insomma, non avevo altro mezzo per giungere al mio scopo. Chiamai: “Vorrei quella bottiglia.”

Venne subito: un uomo giovane, dall’aria brutale, magro e molto pallido, con un particolare che si notava: un labbro leporino mal dissimulato sotto neri baffi spioventi. Domandò con una grossa voce confidenziale: “La bottiglia del whisky canadese?”

“Sì, quella.”

Si sporse, prese cautamente la bottiglia dalla vetrina e parve accennare un gesto come per sostituirla con un’altra che stava esposta accanto. Dissi in fretta, imperiosamente: “Me la faccia vedere.”

Un po’ sorpreso, mi porse la bottiglia e io finsi di esaminarla a lungo, con la speranza che dimenticasse il posto vuoto della vetrina. Per fortuna, in quel momento, entrò un cliente; il barista mi lasciò e se ne andò dietro il banco. Dopo un po’ mi portò il mio caffè ma non rimise alcuna bottiglia in luogo di quella che mi aveva dato. Respirai e mi dedicai all’osservazione del portone che adesso era completamente visibile.

Calcolavo che Cecilia avesse preso l’autobus perché sapevo che non aveva soldi, e che, d’altronde, non aveva mai troppa fretta di giungere agli appuntamenti. Ora, in autobus, ci volevano almeno venti minuti per andare dalla casa di Cecilia ai Parioli. Tutto questo, naturalmente, se Cecilia era davvero uscita un minuto prima della telefonata e si era davvero recata da Luciani. Decisi, almeno in linea provvisoria, che queste due supposizioni erano esatte, e trascorsi così, pur senza staccare un istante gli occhi dal portone, una ventina di minuti in maniera tollerabile.

Passati questi primi venti minuti, pazientai ancora altri dieci, e quindi mi proposi il dilemma: o Cecilia era arrivata prima di me in taxi (non era improbabile: avevo dovuto fermarmi a tre semafori) oppure non era arrivata affatto. Che cosa dovevo fare? Aspettare che uscisse o andarmene? Ero così sicuro che Cecilia quel giorno si fosse recata da Luciani, che, alla fine, decisi di aspettare. Oltre tutto, pensai, se Cecilia era arrivata, poniamo cinque minuti prima di me, mi restavano comunque trentacinque minuti di meno da aspettare.

Ma, come per negarmi anche questa umile consolazione, ecco, d’improvviso, pararsi davanti ai miei occhi una figura d’uomo in soprabito verde. Mi parve che ci fosse qualche cosa di noto nella sua schiena; e quando si mosse per attraversare la strada, lo riconobbi definitivamente dalle larghe spalle e, soprattutto, dai capelli di un biondo falso, troppo chiaro: era l’attore. Lo vidi entrare nel portone e scomparire.

Così la mia attesa non faceva che incominciare. Cecilia era venuta prima di Luciani ed era entrata nell’appartamento ad aspettarlo, oppure non era venuta affatto; ma io, per accertarmene, dovevo adesso aspettare chissà quanto. E i trenta minuti che avevo già passato a spiare, erano trascorsi invano.

Mi accorsi subito che, se l’attesa di fronte al palazzo di Cecilia era stata dolorosa, questa di fronte alla casa dell’attore, lo era cento volte di più. Infatti: aspettando Cecilia fuori di casa sua, io avevo aspettato che lei finisse di mangiare o di vestirsi o di chiacchierare con la madre, tutte cose innocenti; ma aspettandola fuori della casa di Luciani, in realtà aspettavo che finisse di fare l’amore. Così, mentre un’ora prima avevo sofferto di una attesa informe e vuota che la mia immaginazione non aveva saputo come riempire, adesso che sapevo benissimo perché Cecilia si trovava in casa di Luciani, soffrivo di una attesa che aveva invece la forma e il ritmo del rapporto sessuale. Adesso, al contrario di quanto era avvenuto prima, se guardavo l’orologio potevo calcolare al minuto quello che stava succedendo nell’appartamento dell’attore: “In questo momento Cecilia si sfila la maglia dalla testa. In questo momento, nuda, si avvicina al letto, vi sale, si stende. In questo momento ha il primo orgasmo e dopo due o tre scatti violenti del ventre, rovescia indietro la testa e si abbandona, esausta.” Tutte queste immaginazioni, naturalmente, rinnovavano in me la sensazione di non possedere, di non aver mai posseduto Cecilia, poiché sinora mi ero illuso di possederla soltanto perché avevo posseduto il suo corpo, e questo corpo adesso era tra le braccia di Luciani.

La sensazione dell’inafferrabilità di Cecilia nasceva d’altra parte anche dall’incertezza in cui mi trovavo circa la sua effettiva presenza in casa dell’attore. Dopo tutto, poteva anche darsi che quel giorno, per qualche motivo che ignoravo, non si fossero visti. In tal caso le mie immaginazioni diventavano davvero quelle di un geloso dei più comuni, il quale su un piccolo fallace indizio, costruisce tutto un castello di ipotesi. Tuttavia questo non voleva affatto dire che Cecilia non mi tradisse; voleva soltanto dire che non mi tradiva quel giorno.

Pensai alla fine di telefonare a Luciani; forse, attraverso qualche rumore, avrei potuto ricostruire la presenza di Cecilia nell’appartamento. Per fortuna il telefono del bar era presso la porta, di modo che avrei potuto telefonare senza interrompere la sorveglianza del portone. Ci andai, formai il numero, udii la voce dell’attore e spinsi giù il gettone. Il mio calcolo si rivelò non del tutto sbagliato: mentre l’attore ripeteva, “pronto, pronto,” potei infatti udire distintamente i suoni di un ballabile; il che mi fece sprofondare il cuore perché sapevo che Cecilia amava far l’amore a suon di musica. L’attore, dopo aver ripetuto: “Pronto” un’ultima volta, aggiunse una sola parola: “Deficiente,” e riattaccò il ricevitore. Ora, se la musica mi aveva quasi suggerito la grandezza, la disposizione e l’aspetto della stanza in cui risuonava, questa ingiuria, nella quale, insieme con l’irritazione per il disturbo, mi parve di avvertire la vanità maschile ispirata dalla natura della cosa che era stata disturbata, mi fece vedere Cecilia e l’attore com’erano in quel momento: lui, nudo, in piedi presso il tavolino sul quale era il telefono, bene in vista con l’ampio petto e le larghe spalle fitte di peli, con il ventre muscoloso dal sesso forse ancora in stato di erezione, con i lombi e le gambe atletiche e ridondanti; lei, nuda, languidamente distesa sul letto, gli occhi rivolti a vagheggiare le membra dell’amante. Riattaccai il ricevitore e tornai a sedermi dietro la vetrina.

Aspettai ancora una ventina di minuti, e quindi ecco un’altra prova della presenza di Cecilia in casa di Luciani. Il telefono del bar squillò, il barista andò al telefono, ascoltò e quindi disse con voce melensamente marziale: “Sempre agli ordini, signor Luciani.” Dopo un poco, vidi il garzone del bar, un ragazzetto dalla faccia rossa, uscire reggendo un vassoio sul quale ebbi il tempo di gettare uno sguardo: c’erano una bottiglia di birra, dei sandwich involtati in un tovagliolo e un grande bicchiere colmo di sugo d’arancia. Ora io sapevo che Cecilia, dopo l’amore, era solita dissetarsi con tre o quattro arance spremute. Seguii con gli occhi il garzone, lo vidi entrare nella casa di fronte e, dopo non più di un minuto, uscirne con il vassoio vuoto. Il ragazzo rientrò nel bar; il barista gli disse con voce sardonica: “Ma che hai? Che hai visto? Mi sembri tutto sbalordito: eppure te l’ho già detto tante volte: quello che vedi nelle case non ti riguarda. Su, svelto, sciacqua questi bicchieri;” e io, nello stesso momento, come spinto da una molla potente, con lo stesso scatto puramente muscolare che poco prima mi aveva fatto abbandonare la sorveglianza di fronte al palazzo di Cecilia, posi il denaro sulla tavola, presi la mia bottiglia di whisky e uscii. Capivo che andarmene, dopo aver aspettato tanto, voleva dire gettare al vento tutti gli sforzi e le sofferenze di quel pomeriggio; ma sentivo che, almeno per quel giorno, non ero in grado di aspettare di più. Forse, come pensai più tardi, io volevo in realtà ritardare il momento in cui, essendo del tutto sicuro del tradimento di Cecilia, avrei sentito che la possedevo in quanto potevo giudicarla e di conseguenza ne ero liberato e non l’amavo più. Comunque, la dimostrazione definitiva del tradimento era rimandata e con essa la svalutazione di Cecilia, la sua riduzione da creatura misteriosa a piccola adultera insignificante.

Ho voluto descrivere nei particolari il primo giorno che presi a spiare Cecilia, perché esso fu identico o quasi ai molti altri che seguirono, dei quali, perciò, posso risparmiarmi di parlare per disteso. La sola differenza fu che quel primo giorno io ero ancora capace di agire con un certo metodo; e invece, via via che il tempo passò e queste logoranti attese si ripeterono, io feci le cose sempre più a caso e più stupidamente. In realtà, per spiare con qualche efficacia, avrei dovuto avere, come ho già detto, il freddo distacco tecnico del poliziotto, o la curiosità fine a se stessa dell’indiscreto. Invece io sorvegliavo Cecilia con l’animo angosciato dell’amante, e poco importava che ero un amante il quale voleva non già conservare la propria donna, bensì liberarsene.

Quante ore passai in quei giorni, seduto nella mia macchina di fronte al palazzo di Cecilia! Quante ore, nel bar, al tavolino dietro la vetrina! Per capire fino a che punto io ero reso ottuso dalla gelosia, mi basti dire che, dopo una settimana di spossanti appostamenti, per caso scoprii che era inutile sorvegliare il palazzo di Cecilia perché esso aveva due uscite, una sulla strada dove mi mettevo di fazione, e un’altra su una strada parallela, più importante, dove passavano gli autobus e si potevano trovare dei taxi. Naturalmente Cecilia usciva da quest’ultima, che le conveniva di più. Questa scoperta mi parve significativa. Ero così istupidito, che mi ci era voluta una settimana per accorgermi di una cosa alla quale chiunque avrebbe pensato fino dal primo momento.

Credetti, dopo avere scoperto il secondo portone del palazzo di Cecilia, che la mia sorveglianza, ridotta ormai alla sola casa dell’attore, sarebbe diventata molto più facile. Ma mi sbagliavo ancora una volta. A quanto pareva, fra tutti i minuti della giornata, io sceglievo sempre quelli che non scoccavano mai al piccolo orologio da polso di Cecilia. Il tempo di Cecilia e del suo amante non era il mio. Il loro era il tempo calmo, sicuro, regolare dell’amore; il mio quello rabbioso e ineguale della gelosia. Così mi avveniva, con ogni probabilità, di appostarmi al bar quando Cecilia era già entrata nella casa dell’attore e di andarmene quando non era ancora uscita. In realtà non riuscivo a sormontare la mia ripugnanza per l’atto di spiare che sentivo al tempo stesso avvilente e delusivo. Questa ripugnanza mi rendeva pigro quando mi accingevo a recarmi al bar e impaziente quando la mia attesa volgeva alla fine.

Per tutto il tempo, così, benché mi accanissi ad appostarla, non vidi una sola volta Cecilia uscire o entrare nella casa di Luciani. Mi pareva questo un fatto incredibile, che avesse del soprannaturale; a tal punto che mi avvenne qualche volta di pensare addirittura che Cecilia fosse invisibile. E in realtà lo era, almeno per me; della invisibilità che è propria alle cose le quali, pur essendo evidenti ai sensi, sfuggono alla mente.

L’inafferrabilità di Cecilia mi era confermata, oltre che dal fallimento della mia sorveglianza, anche da quello delle mie indagini sui suoi rapporti con Luciani. Ben sapendo che non potevo attaccarla di fronte perché sarebbe stata pronta a mentirmi e in tal modo sarebbe diventata ancora più inafferrabile di quanto non fosse già, cercavo qualche volta di farla parlare genericamente dell’attore, per vedere se attraverso le sue risposte trasparisse un sentimento più che amichevole. Ecco uno di questi interrogatori: “Tu ora vedi spesso Luciani?”

“Sì, lo vedo qualche volta.”

“Ormai lo conosci bene, insomma.”

“Beh, sì, lo conosco un poco.”

“Dimmi allora che cosa ne pensi.”

“Come sarebbe a dire che cosa ne penso?”

“Sì, che cosa ne pensi, cioè come lo giudichi?”

“Non lo giudico, perché dovrei giudicarlo?”

“No, voglio dire che idea te ne sei fatta, come lo trovi.”

“È simpatico.”

“Tutto qui?”

“Come sarebbe a dire tutto qui?”

“Soltanto simpatico?”

“Beh, sì, mi pare che sia simpatico e basta.”

“E tu esci con lui perché è simpatico e basta.”

“Sì.”

“Ma io sono simpatico, tu sei simpatica, tuo padre è simpatico, dire che uno è simpatico non vuol dire quasi nulla.”

“E che cosa bisogna dire?”

“Difetti, qualità, buono, cattivo, intelligente, stupido, avaro, generoso, e così via.”

Questa volta tacque, rispondendo alle mie parole con un silenzio niente affatto ostile né offeso, il silenzio, non potei fare a meno di pensare, di un animale. Insistetti: “Beh, non parli?”

“Non ho niente da dire. Tu vuoi sapere come è fatto Luciani, e io non posso dirti niente, perché non ci ho mai pensato, e non lo so. So soltanto che con lui mi trovo bene.”

“Mi dicono che è un pessimo attore.”

“Può darsi, io non me ne intendo.”

“Di dove è Luciani?”

“Non lo so.”

“Che età ha?”

“Non gliel’ho mai chiesto.”

“È più giovane o più vecchio di me?”

“Forse è più giovane.”

“Lo è senz’altro, di almeno dieci anni. Dimmi: ha padre, madre, fratelli, sorelle, famiglia, insomma?”

“Non ne abbiamo mai parlato.”

“Di che cosa parlate quando state insieme?”

“Di tante cose.”

“Quali, per esempio?”

“Come faccio a ricordarle? Parliamo, ecco tutto.”

“Io ricordo benissimo quasi tutte le nostre conversazioni.”

“Io, invece, non ricordo niente.”

“Ma, insomma, se tu dovessi descrivere Luciani, ci fossi costretta, non potessi evitare di farlo, come lo descriveresti?”

Esitò e poi rispose con semplicità: “Ma nessuno mi costringe, e così non ho il dovere di descriverlo.”

“Allora te lo descrivo io: è alto, atletico, con le spalle larghe, gli occhi neri e i capelli biondi, le mani e i piedi piccoli, l’espressione fatua.”

“Che vuol dire fatuo?”

“Vuol dire vanitoso.”

Tacque un momento e poi osservò: “È vero che ha le mani e i piedi piccoli. Adesso che me lo hai detto, lo ricordo.”

“Così, se io non te l’avessi detto, tu non te ne saresti ricordata?”

“Io non guardo le persone, come fai tu, nei particolari. Vedo soltanto se mi sono antipatiche o simpatiche. Tanto mi basta.”

A questo punto, ovviamente, mi veniva fatto di chiedermi che cosa pensasse Cecilia di me. L’avevo sulla punta della lingua, la domanda: “Ma tu che pensi di me?” però non mi risolvevo a muoverla, quasi temendo che lei mi rispondesse, come per Luciani, che non pensava a niente. Alla fine, tuttavia, uno di quei giorni mi decisi: “E che pensi di me?”

In maniera inattesa rispose: “Oh, tante cose.”

Molto sollevato insistetti: “Davvero? e quali?”

“Non saprei, tante.”

“Dimmene una, almeno.”

Parve riflettere, con scrupolo, quindi rispose: “Forse proprio perché vuoi saperlo, in questo momento non trovo niente.”

“Come sarebbe a dire?”

“Voglio dire che in questo momento mi pare di non pensare a niente.”

“Niente assolutamente?”

“Niente.”

“Ma poco fa hai detto che pensavi tante cose.”

“L’ho detto ma si vede che mi sbagliavo.”

“Ma non ti dà fastidio non pensare niente, proprio niente, dell’uomo col quale fai l’amore?”

“No, perché, che bisogno c’è di pensare qualche cosa?”

Così, non soltanto Cecilia restava inafferrabile, ma riusciva a rendere inafferrabile tutto quello che la riguardava; un po’ come certi personaggi della favola, che non soltanto sono invisibili, ma rendono invisibili le cose che toccano.

Eppure due o tre volte la settimana io la possedevo, voglio dire la prendevo. Un altro, di fronte alla crescente insufficienza del rapporto fisico, avrebbe cercato altrove la spiegazione di questa sete che aumentava nella stessa misura in cui veniva soddisfatta. Ma io ero ormai su una strada che sentivo al tempo stesso fatale e sbagliata; e così mi accanivo a ricercare nel possesso fisico, che pur sapevo illusorio, quel possesso reale di cui avevo un così disperato bisogno. Forse, gettandomi sul corpo compiacente di Cecilia, mi pareva di rivalermi, in quelle due ore di fallace presenza, dell’assenza degli altri giorni; forse, cercavo nella sua docilità inalterabile un motivo di noia e dunque di liberazione. Ma il corpo di Cecilia non era Cecilia e quel che fosse Cecilia io non riuscivo a saperlo. Quanto alla docilità, essa non mi ispirava adesso più alcuna noia, bensì una diffidenza profonda, come una specie di trappola della natura nella quale avevo messi i piedi e di cui non riuscivo più a liberarmi.

Comunque, non ricordo di avere mai amato Cecilia con tanta violenza come in quei giorni in cui la spiavo e sospettavo che mi tradisse. Mi gettavo su di lei come su un nemico che avessi voluto fare a pezzi, caro nemico, però, che ambiguamente mi incitava a farlo; e non ero quasi mai soddisfatto di un solo amplesso. In maniera significativa, la sensazione di non possederla realmente, mi assaliva il più delle volte al momento in cui, tutta vestita, dopo avermi salutato, si avviava verso la porta per andarsene; come se la sua partenza mi avesse rivelato ad un tratto, in maniera tutta fisica, la sua immutata capacità di sottrarsi a me, di sfuggirmi. Allora la rincorrevo, l’afferravo per i capelli e la scaraventavo sul divano, senza badare alle sue proteste del resto non troppo energiche, e la prendevo di nuovo, così com’era, tutta vestita, con le scarpe ai piedi e la borsa al braccio, sempre con l’illusoria idea di cancellare, prendendola, la sua autonomia e il suo mistero. Naturalmente, subito dopo l’amplesso, mi accorgevo di non averla posseduta. Ma era troppo tardi: Cecilia se ne andava e io sapevo che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato: l’inutile sorveglianza, il possesso impossibile, la finale delusione.

Alla fine, dopo più di un mese di vano spionaggio e di ancora più vana frenesia sessuale, capii ciò che avrei dovuto indovinare fin dal primo giorno, cioè che sorvegliare non è una cosa che vada fatta da chi è direttamente interessato ai risultati della sorveglianza. E che se volevo venire a capo di qualche cosa, dovevo rivolgermi a chi eseguiva questa sorveglianza per dovere professionale, cioè ad una agenzia di investigazioni private. Fu Cecilia stessa a darmi l’idea della agenzia. Continuamente, pur sorvegliandola, io non facevo che pensare a Balestrieri. Il vecchio pittore di cui non mi ero mai curato finché era vivo, era diventato per me, dopo la sua morte, un oggetto di attrazione inorridita e incomprensiva. In realtà, mi dicevo qualche volta, Balestrieri per me era un poco quello che è uno specchio per un malato: una testimonianza irrefragabile dei progressi della malattia. Pensavo soprattutto a Balestrieri ogni volta che sospettavo di fare qualche cosa che lui aveva già fatto. Così, in quei giorni che spiavo Cecilia, non resistetti alla tentazione di domandarle se anche il vecchio pittore avesse soggiaciuto alla stessa debolezza. Eravamo in macchina, accompagnavo Cecilia a casa, di sera. Giunti alla strada dove abitava e dove ricordavo di avere tante volte atteso inutilmente che uscisse dal portone, fermai la macchina e le domandai a bruciapelo: “Balestrieri ti aveva mai spiata?”

“Come sarebbe a dire?”

“Ti seguiva, ti aspettava, ti sorvegliava, insomma?”

“Sì.”

“Non me l’avevi mai detto.”

“Tu non me lo avevi mai domandato.”

“Ti sorvegliava in che modo?”

“Si metteva nel cortile e lì aspettava che uscissi.”

Dunque, pensai, Balestrieri, lui, era stato più intelligente di me, aveva subito scoperto la doppia uscita. Domandai ancora: “E poi?”

“E poi, appena io uscivo, mi seguiva.”

“Lo faceva spesso?”

“Per un certo periodo, lo fece tutti i giorni.”

“A che ora si metteva nel cortile?”

“Dipendeva. Certi giorni, che sapeva che dovevo uscire presto, era già lì verso le otto.”

“Come facevi a saperlo?”

“Lo vedevo dalla finestra della mia camera.”

“E cosa faceva nel cortile?”

“Passeggiava, oppure fingeva di leggere il giornale, oppure disegnava su un taccuino.”

“Ma come faceva per non essere visto da te, quando uscivi?”

“Andava a mettersi nel portone, in ombra, oppure dietro un albero.”

“E poi?”

“Poi mi seguiva.”

Tacqui, per un momento: mi pareva di vedere il vecchio pittore basso e tarchiato, dalle spalle larghe e dai piedi grandi, dalla faccia rossa e dai capelli d’argento, che, rialzando sul collo il bavero dell’impermeabile e abbassando sugli occhi la falda del cappello, pedinava la ragazzina di sedici anni, dal cortile alla strada, da questa strada ad un’altra strada; e provai, di rimbalzo, l’ormai consueto senso di vergogna al pensiero che, in quei giorni, facevo esattamente la stessa cosa. Insistetti: “Ma te ne accorgevi che lui ti seguiva?”

“Qualche volta sì e qualche volta no.”

“E quando te ne accorgevi, che facevi?”

“Niente: continuavo per la mia strada come se non me ne fossi accorta. Una volta, però, mi voltai e gli andai incontro e poi ci recammo insieme in un caffè.”

“Che disse nel caffè?”

“Non disse niente; si mise a piangere.”

Rimasi un momento silenzioso. Cecilia, che non amava essere interrogata, ne approfittò per fare il gesto di scendere dalla macchina. Ma la fermai: “Aspetta. Nel tempo che lui ti sorvegliava, tu lo tradivi?”

Rispose, quasi divertita per la coincidenza: “Pensa che non lo tradivo affatto. Ebbi qualcuno soltanto alcuni mesi dopo.”

“Così lui ti sorvegliava, senza motivo, ingiustamente?”

“Già.”

“E quando, come dici, tu avesti qualcuno, lui non ti seguiva più?”

“No, perché aveva avuto la prova che io non lo tradivo.”

“In che modo?”

“Mi fece seguire.”

“Da chi?”

Disse, un po’ incerta: “Da una di quelle agenzie, sai, che fanno le ricerche, da un agente, insomma. Gli dissero che io non avevo che lui.”

“Ma tu come lo venisti a sapere che ti aveva fatto seguire dall’agenzia?”

“Me lo disse lui. Mi fece leggere una relazione lunga molte pagine. Gli era costata non so quanto.”

“Era contento?”

“Felice.”

Domandai dopo un breve silenzio: “E tu lo tradisti subito dopo che l’agenzia gli aveva dimostrato che non lo tradivi.”

“Sì, un mese dopo, ma non lo feci apposta: avvenne.”

“E lui lo seppe?”

Esitò e poi disse: “Credo che qualche cosa indovinasse, ma non ne fu mai veramente sicuro.”

“E cioè?”

“Mi vide due o tre volte sempre con lo stesso ragazzo, e allora riprese a seguirmi, per conto suo, senza l’agenzia. Ma si era un po’ stancato e lo faceva meno spesso di prima. Poi è morto.”

“Perché non ti fece seguire anche questa volta dall’agenzia?”

Disse con aria riflessiva: “Se mi avesse fatto seguire, avrebbe saputo tutto. Ma non si fidava più dell’agenzia. Diceva che io l’avevo sempre tradito e che l’agenzia non aveva saputo scoprire la verità.”

Dopo questa conversazione, cominciai a pensare sempre più spesso di ricorrere all’agenzia, come aveva fatto Balestrieri. Stranamente, mentre in passato mi ero trattenuto dal fare certe cose appunto perché sapevo che Balestrieri le aveva già fatte, adesso, invece, mi sentivo inclinato a ricorrere all’agenzia proprio perché Balestrieri vi aveva ricorso. Era come se, avendo riconosciuto vani i miei sforzi di fermarmi lungo la china sulla quale Balestrieri era scivolato, io mi fossi deciso a fare apposta le cose che lui aveva già fatto, quasi che farle di mia volontà e consapevolmente, fosse stato ormai la sola maniera di distinguermi da lui, che, invece, le aveva fatte suo malgrado e in una condizione di incoscienza molto vicina alla mania.

Così uno di quei giorni andai a cercare l’agenzia Falco in un tetro palazzo di via Nazionale, di fuori molto solenne, ornato e pieno di colonne, di statue e di scritte latine e dentro squallido e buio. Salii al quarto piano in un vecchio ascensore sgangherato e maleodorante, smontai su un pianerottolo tenebroso e mi avviai verso il chiarore di una porta dai vetri opachi, sui quali spiccava il nome dell’agenzia e un piccolo uccello simbolico che avrebbe dovuto essere, appunto, un falco. La porta a vetri si aprì scampanellando; entrai in un’anticamera quasi vuota, salvo poche seggiole di vimini. Due uomini uscivano in quel momento da una stanza, stringendosi le cinture degli impermeabili e calcandosi in testa i cappelli; dai modi e dai vestiti, giudicai che fossero due agenti investigativi, gli stessi, forse, ai quali sarebbe stata affidata la sorveglianza di Cecilia. La porta era rimasta aperta, mi affacciai: in fondo ad uno stanzone, dietro una scrivania, in atto di leggere un giornale, vidi un uomo bruno, calvo, magro, con le tempie schiacciate, il naso grande, le guance smunte. Domandai dove fosse il direttore. Rispose con premurosa autorità, come se avesse voluto rassicurarmi: “Sono io il direttore. Prego, si accomodi.”

Entrai e lui si levò in piedi tendendomi la mano e presentandosi: “Maggiore Mosconi.” Sedetti e per un momento guardai prima alla sua faccia sparuta, al liso vestito nero, alla cravatta attorcigliata e poi alle vecchie macchie di inchiostro che chiazzavano il piano della scrivania. Mi domandai che cosa potesse avere a che fare tutto questo con Cecilia e con me, e la risposta fu: niente. Dissi tuttavia: “Vorrei far sorvegliare una persona.”

Il maggiore rispose con voce pronta e vispa: “Siamo qui per questo. Si tratta di un uomo o di una donna?”

“Di una donna.”

“Questa donna è sua moglie?”

“No, non sono sposato. Si tratta di una persona alla quale sono legato da particolare affetto.”

“Allora investigazioni pre-matrimoniali?”

“Diciamo così.”

Il maggiore fece un gesto come per dire che non insisteva, che non era necessario che dicessi di più. Poi domandò: “E per quale motivo lei vorrebbe far sorvegliare questa persona?”

Guardai il maggiore. Per essere il direttore di una agenzia che si chiamava Falco, aveva una faccia che pareva contraddire in tutto e per tutto quel nome occhiuto. I suoi occhi infossati, piccoli e spenti, privi di sguardo, piuttosto che ad un falco facevano pensare ad un fringuello cieco. Dissi, con brutalità quasi compiaciuta: “Ho fondati motivi per credere che questa persona mi tradisca.”

Si vedeva benissimo che il maggiore non voleva arrivare subito al nocciolo della questione, per la verità molto semplice, più per sostenere il decoro dell’ufficio che perché non avesse capito di che cosa si trattava. Domandò: “Questa persona è sposata?”

“No, è nubile.”

“Lei è sposato?”

“Le ho già detto di no.”

“Mi perdoni, non ricordavo. Dunque lei ha l’impressione che questa signorina... si tratta di una signorina, no?”

Non potei fare a meno di confermare, con impazienza: “Evidentemente.”

“Mi scusi, non mi sono spiegato: volevo sapere se si tratta di una signorina di buona famiglia oppure di una donna che vive per conto suo e mena vita indipendente.”

“Di una signorina di buona famiglia.”

Confermò misteriosamente: “L’avrei giurato.” E questa volta non potei fare a meno di domandare:

“Ma perché lo avrebbe giurato?”

“Sono quelle che ci danno più da fare. Le ragazze molto giovani, di diciotto, vent’anni. Dunque, lei ha l’impressione che la signorina lo tradisca.”

“Eh, già.”

“È il solito motivo. Lei mi scuserà, ma il novanta per cento di coloro che si presentano qui dicono la stessa cosa. Purtroppo per almeno il settanta per cento dei casi, i sospetti si rivelano fondati.”

“Se i sospetti sono fondati, perché allora ricorrono alla sua agenzia?”

“Per avere la certezza matematica.”

“E voi, questa certezza, siete in grado di procurarla?”

Il maggiore accennò col capo un gesto di indulgente compatimento: “Guardi, lei potrebbe anche pensare che chiunque sia in grado di svolgere certe indagini. Magari anche l’interessato, ma non è così. Fra le indagini di un investigatore improvvisato e le nostre, passa la stessa differenza che tra le analisi di un dilettante privo di mezzi e di serietà e quelle di un laboratorio scientifico. Lei, per sapere se ha una determinata malattia, andrebbe per una analisi da un ciarlatano oppure si rivolgerebbe ad un laboratorio scientifico, serio, accreditato, riconosciuto dalla legge? Evidentemente, farebbe la seconda cosa. Ora l’agenzia Falco è il laboratorio serio, accreditato, riconosciuto dalla legge,” il maggiore qui s’interruppe e m’indicò un diploma incorniciato, appeso alla parete sopra la sua testa, “che è in grado di procurarle in maniera scientifica la certezza di cui lei ha bisogno.”

“In altri termini,” domandai per guadagnare tempo, “voi siete in grado di scoprire la verità?”

“Sempre. È rarissimo il caso di un’incertezza, anzi, pressoché inesistente. I nostri agenti sono bravi e fidati, tutti ex carabinieri ed ex agenti di pubblica sicurezza, ed è praticamente impossibile che non vengano in chiaro di qualche cosa.”

“E quanto dura la sorveglianza?”

Il maggiore fece un gesto proprio da ufficio: rimise a posto una matita che non era fuori posto, si prese il mento nella mano e mi fissò con i piccoli occhi neri e spenti: “Potrei dirle due o tre settimane. Potrei dirle anche di più. Ma non voglio portarle via il suo denaro. In capo ad una settimana sappiamo tutto. Quando una donna ama un uomo, non lo vede una volta la settimana. Lo vede tutti i giorni, anche più volte al giorno. Ora, se noi dimostriamo che la sorvegliata vede tutti i giorni o magari più volte al giorno un uomo, il cliente ha in mano tutte le prove di cui ha bisogno. Naturalmente, se il cliente non è convinto, possiamo fare un supplemento di indagini, magari andando più in fondo.”

“Che vuol dire: andando più in fondo?”

“Mi perdoni, ma non sono cose che si possono dire in anticipo. Bisogna conoscere il caso. Però, stia tranquillo, una settimana basterà. Il suo, non si offenda, è un caso comune.”

“Perché comune?”

“È il caso più semplice. Lei non ha idea delle complicazioni di fronte alle quali talvolta ci troviamo. Una settimana, dunque, come ho detto, è più che sufficiente.”

Dissi: “Ho capito;” e rimasi in silenzio per un poco. Pensavo che il maggiore era convinto, grazie alle sue indagini cosiddette scientifiche, di giungere alla verità; e pensavo pure che questa verità del maggiore non era la mia. Domandai alla fine: “Quali sono le condizioni di pagamento?”

“Diecimila lire al giorno. Con un supplemento da fissarsi se la persona che si vuol far sorvegliare si sposta in macchina, perché, in questo caso, i nostri agenti debbono anche loro fare uso della macchina.”

Dissi, meditabondo: “Non va in macchina, va a piedi.”

“Allora diecimila lire al giorno.”

“E quando si potrebbe incominciare?”

“Domani stesso. Lei mi fornisce i dati, io li studio e domani mattina l’agente inizia il pedinamento.”

Improvvisamente mi levai in piedi: “Cominceremo tra una settimana. Perché la persona attualmente non si trova a Roma e non ritorna che tra una settimana.”

“Come vuole lei.” Anche il maggiore Mosconi adesso si era levato in piedi. “Ma se per caso esita a causa del prezzo, s’informi e vedrà che le altre agenzie non le faranno spendere di meno.”

Risposi che non era una questione di prezzo e ripetendo che mi sarei fatto vedere tra una settimana me ne andai.

Tornai meccanicamente allo studio e mi accinsi ad aspettare Cecilia, perché quello era uno dei due o tre giorni della settimana in cui ci vedevamo. Da qualche tempo soffrivo d’insonnia a causa dell’angoscia che mi ispiravano i miei rapporti con Cecilia. Di solito mi addormentavo subito dopo essermi coricato, ma non era passata un’ora che mi svegliavo di soprassalto, come se qualcuno mi avesse dato uno scossone; allora, invincibilmente, cominciavo a pensare a Cecilia e non riprendevo sonno che sul far dell’alba, per risvegliarmi, poi, alla solita ora, cioè troppo presto. Mi accadeva, però, durante il giorno, vinto dalla stanchezza, di addormentarmi d’improvviso, là dove mi trovavo, e di dormire, di un sonno pesante, anche due o tre ore. Così avvenne quel giorno. La tenda del finestrone era abbassata, una luce riposante, gialla e calda, riempiva lo studio. Mi distesi sul divano e, piegato su un fianco, presi a guardare la tela bianca tuttora collocata sul cavalletto, presso il finestrone. Pensavo che la tela era vuota perché non riuscivo a prendere possesso di una realtà qualsiasi, allo stesso modo che era vuota la mia mente nei confronti di Cecilia che mi sfuggiva e non riuscivo a possedere. E il rapporto fisico con cui m’illudevo sovente di possedere Cecilia, equivaleva alla pittura pornografica di Balestrieri, cioè non era possesso, come quella non era pittura. E allo stesso modo che, con Cecilia, oscillavo tra la noia e la mania sessuale, così nell’arte oscillavo tra la cattiva pittura e la nessuna pittura. E adesso io mi ero rivolto all’agenzia Falco per sapere qualche cosa di sicuro su Cecilia; ma era come se, per dipingere, io mi fossi letto un trattato scientifico sulla natura e composizione della materia. La tela era vuota, pensai ancora confusamente, perché Cecilia mi sfuggiva; la mente era vuota perché la realtà mi sfuggiva. Realtà e Cecilia erano le due parole che sempre più fiocamente mi echeggiavano nella testa; evocando due operazioni diverse che, però, sentivo collegate da un nesso indubitabile. Mi pareva di capire che il nesso era la smania di possedere e che tutte e due le operazioni naufragavano nell’impossibilità del possesso. Pensando sempre più stancamente queste cose, finii per addormentarmi.

Mi ero appena addormentato che mi destai. Ma lo studio era quasi al buio e, come accesi la lampada, mi accorsi che in realtà avevo dormito circa un’ora: erano le cinque e mezzo ed ero tornato dall’agenzia verso le quattro e mezzo. Questo sonno così profondo da dare il senso di non aver dormito affatto, mi aveva riposato: mi sentivo insolitamente lucido e, come mi avveniva talvolta in passato quando mi apprestavo a dipingere, pieno di esatta e consapevole energia creativa. Levai gli occhi verso la tela e quasi involontariamente mi venne fatto di pensare che era un peccato che non dipingessi più: quello era lo stato d’animo che ci voleva per lavorare. Ma subito dopo, quasi automaticamente, saltai su dal divano e mi precipitai fuori dello studio. Ero sicuro che Cecilia si trovava in casa dell’attore e volevo sorprenderla nel momento in cui ne sarebbe uscita per venire da me.

Infatti: avevo finora sorvegliato Cecilia tutti i giorni salvo quelli in cui ci vedevamo, pensando, chissà per quale motivo, che lei non facesse l’amore con me e con l’attore nello stesso pomeriggio. Ma Cecilia, quella mattina, mi aveva detto al telefono che non poteva vedermi prima delle sei; adesso capivo perché mi aveva dato un appuntamento a quell’ora: prima che da me, doveva andare da Luciani. Così, mentre gli altri giorni io non potevo sapere a che ora Cecilia si recava da Luciani né a che ora lo lasciava, oggi sapevo di certo almeno a che ora lo lasciava, perché era l’ora in cui lei veniva da me. Stupii di non aver pensato prima una cosa tanto semplice e per giunta del tutto conforme alla psicologia innocentemente crudele di Cecilia. Era, infatti, proprio da lei di passare dalle braccia dell’attore alle mie, nello spazio di appena mezz’ora; di darsi a me con lo stesso lusinghiero abbandono con il quale s’era data a lui; di confondere nel proprio ventre, con avidità bestiale, i nostri due semi. Come mai non ci avevo pensato prima?

Giunsi in un quarto d’ora davanti alla casa dell’attore, trovai, quasi di fronte al portone, un posto per la macchina e rimasi dentro. Non valeva la pena che andassi ad appostarmi nel bar; secondo i miei calcoli Cecilia doveva uscire al massimo fra cinque minuti. Accesi, dunque, una sigaretta, pur tenendo gli occhi fissi sulle persiane illuminate del pianterreno. Erano le persiane di Luciani; probabilmente, in quello stesso momento, Cecilia si rivestiva in fretta, dicendo all’attore la stessa bugia infantile che di solito diceva a me: “Devo andare, mamma mi aspetta.” Mi accorsi, guardando a quelle persiane, che provavo un senso di nausea non tanto diverso da quello che, in passato, mi aveva ispirato talvolta la superficie bianca della tela nel momento in cui mi apprestavo a dipingere: da quel portone incorniciato di marmo nero, doveva presto scaturire qualche cosa che io desideravo al tempo stesso ignorare e conoscere, per cui provavo al tempo stesso appetito e ribrezzo: Cecilia, ossia la realtà. Sapevo che dovevo restare nella mia macchina, finché non avessi veduto Cecilia apparire sulla soglia, ma provavo al tempo stesso una gran voglia di andarmene. Una volta di più, alla luce di questo duplice e contraddittorio sentimento, capivo che quello che mi aveva fatto così spesso abbandonare la sorveglianza nei giorni passati non era, come avevo creduto, una ribellione della dignità, bensì la ripugnanza per Cecilia come era realmente, ossia, in una sola parola, per la realtà.

Al termine di cinque minuti, come avevo previsto, ecco, infatti, Cecilia e l’attore apparire insieme sulla soglia. Si tenevano per mano e mi parve che barcollassero ambedue un poco, come storditi. Notai che Cecilia stringeva la mano dell’attore in una maniera particolare, ossia con le dita fra le dita, quasi ripetendo inconsapevolmente l’intreccio recente dei corpi. Sempre tenendosi per mano, si allontanarono per il marciapiede nel senso della discesa.

Tutto si può prevedere, fuorché il sentimento che ci potrà ispirare ciò che prevediamo. Si può, per esempio, certamente prevedere che da sotto una roccia sbuchi un serpente; ma sarà difficile prevedere la qualità e intensità della paura che ci ispirerà la vista del rettile. Io avevo immaginato mille volte l’uscita di Cecilia dalla casa dell’attore, in compagnia di lui o sola; ma non avevo preveduto i sentimenti che avrei provato nel vedere davvero Cecilia uscire da quel portone incorniciato di marmo nero, nella strada, con la mano nella mano di Luciani. Così fui quasi meravigliato, quando, alla vista di Cecilia e dell’attore fermi, si sarebbe detto, per l’eternità, sulla soglia del portone, mi accorsi di provare un sentimento abbominevole, paragonabile ad uno svenimento. Soffrivo orribilmente e al tempo stesso stupivo di soffrire a tal punto e in un modo così nuovo, dopo la preparazione di tante esatte previsioni. L’immagine di quei due, lo sentivo, si stampava nella mia memoria in maniera indelebile; e io provavo un dolore bruciante, come se l’immagine fosse stata un ferro rovente e la mia memoria una carne sensibile che si ribellava sotto l’impronta.

Ho detto che la sofferenza era paragonabile a quella dello svenimento. In realtà io ero svenuto in tutta la persona salvo che nel punto in cui, come se la mia intera vitalità vi fosse accorsa, io non soltanto non ero svenuto ma presente a me stesso in maniera eccessiva. E di questo, appunto, soffrivo: di sentirmi mancare dappertutto, eccetto che in quel punto acerbo. Intanto avevo meccanicamente acceso il motore, ero uscito pian piano con la macchina dal parcheggio e mi ero avviato dietro Cecilia e Luciani.

Camminavano adagio, sempre tenendosi per mano, senza dubbio silenziosi e felici. Poi, alla bottega di un barbiere, l’attore si fermò, Cecilia gli parlò per un momento e gli tese la mano che Luciani baciò. Quindi lui entrò dal barbiere e Cecilia proseguì il suo cammino. Sempre guidando piano, gli occhi fissi su di lei che ora scompariva e ora appariva secondo le svolte del marciapiede, discesi un buon tratto di strada. La guardavo, specialmente guardavo il movimento dei suoi fianchi, nella veste corta e stretta, al tempo stesso goffo, pigro e forte, e mi accorgevo di avere tuttora desiderio di lei; come se non fossi stato ancora del tutto sicuro del suo tradimento. E capivo che se volevo veramente non desiderarla più, dovevo costringerla a confessare la verità, quella sola verità che l’avrebbe irreparabilmente definita ai miei occhi e me l’avrebbe fatta disamare. Cecilia, intanto, era andata alla fermata dell’autobus, poco più giù. Guardai l’orologio, mancavano dieci minuti all’appuntamento con me. Cecilia, puntuale come sempre, aveva calcolato bene il suo tempo: tra un quarto d’ora al massimo, l’autobus l’avrebbe deposta in piazza del Popolo, a pochi passi dal mio studio. Così, alle sei, come fissato, Cecilia avrebbe potuto gettarsi tra le mie braccia.

Fermai bruscamente la macchina davanti a lei che in quel momento frugava a testa bassa nella sua borsa, spalancai lo sportello e le dissi con voce normale: “Vuoi salire?” Cecilia alzò gli occhi, mi vide, parve sul punto di parlare, poi vi rinunziò e in silenzio salì. Ripartii e le domandai subito: “Come mai da queste parti?”

Rispose: “Sono andata da quel produttore.”

“Ma non ha l’ufficio in via Montebello?”

“Qui ha la sua abitazione privata.”

Le lanciai un’occhiata di sbieco e mi accorsi, nonostante il mio turbamento, che anche Cecilia era turbata, per quanto impropria possa sembrare questa parola adoperata per una persona così poco espressiva. Lo capii da una leggerissima contrazione delle sopracciglia, che, come sapevo, denotava in lei smarrimento e perplessità. Decisi di aggredirla con violenza razionale, proprio come in un interrogatorio poliziesco: “Come si chiama questo produttore, presto, nome e cognome.”

“Si chiama Mario Meloni.”

“Dove abita, presto, il numero del portone, il piano, il numero dell’appartamento.”

“Abita qui, in via Archimede,” rispose con voce strascicata, come una scolaretta che venga interrogata dal maestro, “al numero trentasei, interno sei; piano terzo.”

Era il numero di casa di Luciani, ma non il suo piano, né il numero del suo appartamento. Capii che Cecilia mi dava quel numero per premunirsi contro una mia contestazione, nel caso le avessi detto di averla veduta uscire. Ma come avrebbe spiegato la presenza dell’attore al suo fianco? Volli vedere come si giustificava: “Io ti ho visto uscire poco fa dal portone numero trentasei, ma non eri sola, eri con Luciani.”

“Era anche lui dal produttore. Ci siamo andati insieme.”

“A che fare?”

“Doveva parlarci di un lavoro.”

“Che lavoro?”

“Un film.”

“Che titolo ha questo film?”

“Non ce l’ha detto.”

“Meloni dove vi ha ricevuti?”

“Nel salotto.”

“Descrivimi il salotto, presto, a cominciare dai mobili e dalla loro disposizione.”

Ora io sapevo che Cecilia non vedeva le cose e in genere i luoghi dove si trovava. Pensai, dunque, che se lei, per rassicurarmi, mi avesse descritto con lusso di particolari l’arredamento del salotto di Meloni, quel salotto in cui non era mai stata perché non esisteva, avrei avuto una prova di più che mi mentiva. Ma non avevo fatto i conti con la sua invincibile, astratta pigrizia. Disse seccamente: “Un salotto come ce ne sono tanti.”

Insistetti sconcertato e quasi ammirato: “E cioè?”

“Un salotto con delle poltrone, dei divani, dei tavolini, delle seggiole.”

Erano le stesse parole che aveva adoperato per descrivere il salotto di casa sua. Insistetti di nuovo: “Di che colore erano le poltrone e i divani?”

“Non li ho guardati.”

“Di che colore erano le mutande di Luciani, quelle almeno le avrai guardate.”

“Ecco, lo sapevo che avresti cominciato con le insinuazioni.”

Eravamo, intanto, arrivati a via Margutta. Guidai l’automobile nel cortile, mi fermai, balzai fuori e, fedele al mio programma di sistematica intimidazione, afferrai per un braccio Cecilia e la strappai fuori con violenza: “Adesso vedremo.”

“Che cosa?”

“Vedremo se hai detto la verità.”

La stringevo forte per il braccio sottile di bambina e mi accorsi che correvo apposta per darle ogni tanto qualche strattone e così farla incespicare e quasi cadere. Disse una prima volta: “Che maniera;” e una seconda: “Ma si può sapere che hai?”; tuttavia non pareva né sorpresa, né irritata, né intimorita. Ficcai la chiave nella toppa, girai, spalancai la porta con un calcio, accesi la luce e quindi, con un’ultima e più violenta spinta, scaraventai Cecilia sul divano. Vi cadde a testa bassa; io corsi al telefono e presi a scartabellare furiosamente l’elenco per strade. Sfogliai, cercai, trovai, e quindi, col dito puntato sull’elenco, lo squadernai sotto il naso di Cecilia che, intanto, si era rialzata: “Qui al numero trentasei di via Archimede non c’è alcun Meloni.”

“Non ha il numero nell’elenco.”

“E perché?”

“Perché non vuole essere disturbato.”

“Ma al numero trentasei c’è Luciani, però.”

“Non è possibile, non è nell’elenco.”

“Non in quello per nomi, ma in quello per strade, sì, guarda qui, eccolo.”

Guardò schifiltosamente, ma non disse nulla. Commentai in tono sarcastico: “Che combinazione, Meloni e Luciani abitano nella stessa casa.”

“Sì, Luciani abita al pianterreno e Meloni abita al terzo piano.”

“Benissimo, allora adesso usciamo e andiamo insieme da Meloni.”

Seguì un lungo silenzio. Cecilia mi contemplava con quei suoi occhi così vaghi e poetici che in realtà non vedevano nulla, e taceva. Incalzai: “Andiamo, muoviti.”

La vidi arrossire improvvisamente, di un rossore ineguale, a chiazze, dal collo su per le guance. Disse: “Sì è vero.”

“È vero che cosa?”

“Che Luciani ed io ci vediamo.”

Anche questa volta, le parole della confessione erano prevedute da tempo; ma, tra prevederle con la mente e udirle davvero con le orecchie, c’è una grande differenza: di nuovo, come quando l’avevo vista uscire dalla casa di Luciani, provai un senso nauseante di mancamento. Balbettai stupidamente: “Che cosa vuole dire che vi vedete, lo so che vi vedete.”

“Che facciamo l’amore.”

“E lo dici in questo modo?”

“Come dovrei dirlo?”

Pensai che aveva ragione: non mi amava, mi tradiva, il suo tono così economico e così scolorito era quello giusto. Mi restava, tuttavia, l’insaziabile bisogno di chiuderla nella sua confessione come in una gabbia di vergogna dalla quale non le fosse più possibile sfuggire: “Ma perché l’hai fatto?”

Seria e scrupolosa, parve riflettere prima di rispondere. Disse, poi, con semplicità: “Perché mi faceva piacere.”

“Ma non ti rendi conto che non avresti dovuto farlo?”

“Perché non avrei dovuto farlo?”

“Perché non si tradisce un uomo al quale si vuole bene e tu mi hai detto tante volte che mi vuoi bene.”

“Sì, ti voglio bene, ma voglio bene anche a Luciani.”

“Così sei una di quelle donne che si danno a tutti, ieri a un pittore, oggi a un attore, domani magari all’elettricista.”

Mi guardò e non disse nulla. Insistetti: “Sei una donna da poco, che non vale niente.”

Anche questa volta tacque. Perché insistevo tanto? Perché avrei voluto convincere me stesso che, dopo la sua confessione, Cecilia si era svalutata, ridotta, annullata ai miei occhi e sentivo, invece, che non era così. Eppure questa svalutazione avrebbe dovuto verificarsi, non potevo fare a meno di pensare. C’erano state delle donne che erano crollate nella mia considerazione e nel mio sentimento soltanto per una frase, un gesto, un atteggiamento; a maggior ragione, dunque, Cecilia, che mi aveva volgarmente tradito. Conclusi con rabbia: “Te ne rendi conto tu che si è quello che si fa, e così quello che tu hai fatto ti fa essere una cosa molto diversa da quella che eri?”

Avrei voluto che domandasse: “Che cos’ero, e che cosa sono ora?” E così le avrei risposto: “Eri una brava ragazza, adesso sei una puttana.” Al tempo stesso la sua domanda avrebbe indicato un suo bisogno di essere considerata, stimata, apprezzata da me. Ma fui deluso nella mia speranza: Cecilia non aprì bocca; e io capii che il silenzio era la sola risposta che potessi aspettarmi da lei. Quel silenzio voleva dire che mentire e tradire erano per lei parole prive di significato e questo non tanto perché non le intendesse, quanto perché nella sua vita non c’era niente che potessero designare. Sentii che mi sfuggiva di nuovo e gridai con furore scuotendola per le due braccia: “Ma perché non parli, di’ qualche cosa, perché non rispondi?”

Pronunciò con sincerità: “Non ho niente da dire.”

“Ed io,” urlai fuori di me, “ho invece qualcosa da dire. Ed è che sei una volgare puttanella.”

Mi guardò e non disse niente. La scossi di nuovo: “Così ti lasci dare della puttana e non protesti.”

La vidi levarsi in piedi: “Dino, io me ne vado.”

Tra le tante cose che non avevo preveduto, c’era anche questa, che lei se ne andasse. Domandai, assalito da un’ansietà improvvisa: “Ma dove vai?”

“Vado via. È meglio che non ci vediamo più.”

“Ma perché? Un momento. Aspetta. Dobbiamo parlare.”

“A che servirebbe parlare? Tanto non andiamo d’accordo. Siamo due caratteri troppo diversi.”

Così Cecilia mi sfuggiva di nuovo e in due maniere: la prima svalutando la propria confessione: tra me e lei, secondo lei, c’era soltanto una diversità di carattere, come se tradire fosse una questione di temperamento individuale e non di norma morale; la seconda, lasciandomi prima ancora che la lasciassi. Con subitaneo passaggio dal morale al fisico, mi venne ad un tratto il desiderio di lei; come se, prendendola in quel momento, potessi illudermi, dopo che era fallito il possesso psicologico, di possederla attraverso il rapporto fisico. L’afferrai per la vita, quasi a volo, mentre si avviava verso la porta e le dissi in un orecchio: “Però dobbiamo fare l’amore un’ultima volta.”

“No, no, no,” rispose cercando di svincolarsi, “è finita.”

“Vieni qui.”

“No, lasciami.”

Lottava con tenacia ma senza ostilità, come se si fosse rifiutata soltanto perché non sapevo proporle il mio amore in una maniera più efficace. C’era, anzi, nei suoi occhi incerti e immobili, quasi la ambiguità di un richiamo; e nel suo corpo, al di sotto della vita, un’arrendevolezza che non avvertivo nella parte superiore, infantile e gracile. Lottava, però; e come riuscii a farla sedere di nuovo sul divano, si tirò un po’ indietro, fuori della portata delle mie labbra. Allora mi venne un’idea, o meglio un impulso. Avevo preso quel mattino nel mio cassetto ventimila lire in due biglietti da diecimila e me li ero messi in tasca. Attirai Cecilia a me con violenza; e nello stesso tempo, mentre lei stornava un poco il viso e il mio bacio si perdeva nel collo, le introdussi i due fogli nella mano. La vidi, distintamente, abbassare gli occhi in un rapido sguardo all’oggetto insolito che le stava nella palma, come per riconoscerlo; poi la mano si chiuse, sentii che il suo corpo non resisteva più, e vidi che Cecilia aveva abbassato le palpebre come chi si prepari a dormire, che era la sua maniera di farmi capire che accettava il mio amore e si disponeva a goderne.

Così la presi, senza che si spogliasse; con una rabbia e una violenza maggiore del solito, parendomi che il suo corpo fosse diventato una specie di palestra nella quale io dovevo gareggiare di vigoria e di resistenza con l’attore. La presi in silenzio; ma nel momento dell’orgasmo, le soffiai in faccia: “Troia.” Mi parve, o m’ingannavo, che un tenuissimo sorriso le sfiorasse le labbra; ma non potei capire se avesse sorriso per il piacere che stava provando o della mia ingiuria.

Più tardi, come giacqui accanto a lei che si era assopita, feci la consueta riflessione che il possesso fisico non mi aveva affatto appagato. Se non altro, il sorriso ambiguo, fuggevole, forse ironico, con il quale aveva risposto al mio insulto, confermava l’inanità del rapporto carnale. Ma l’avevo vista stringere in pugno i biglietti di banca; e durante l’amore, poiché si era coperta la fronte con la mano, i biglietti erano stati tutto il tempo davanti ai miei occhi. Mi dissi, ad un tratto che, dopo il fallimento dei miei precedenti tentativi di possesso, il denaro poteva forse essere la trappola in cui avrei potuto rinchiuderla. Si era rifiutata a me sino al momento in cui le avevo messo in mano il denaro; dunque, contrariamente a quanto avevo pensato sinora, era venale. Si trattava adesso di dimostrare che lo era davvero, ossia di ridurre il mistero della sua autonomia ad una questione di tornaconto.

Cecilia dormì un poco accanto a me, il solito tempo e nel solito modo; poi si destò, mi scoccò un bacio sulla guancia con la solita meccanica tenerezza, e, alla fine, si levò in piedi, rassettandosi con le due mani la veste gualcita. I due biglietti, piegati in quattro, stavano adesso sul pavimento, dove lei li aveva lasciati cadere dopo l’amore. Cecilia li raccolse, aprì la borsa e, con molta cura, li introdusse nel portafoglio. Domandai: “Allora vuoi ancora che ci lasciamo?”

Non parve afferrare l’allusione contenuta in quell’“ancora”; rispose con indifferenza: “Come vuoi tu. Se vuoi che continuiamo, ci sto. Se vuoi che ci lasciamo, lasciamoci.”

Così, pensai non senza stupore, il denaro ricevuto e accettato non era servito che una sola volta; e non aveva suggerito alla sua pigra immaginazione la prospettiva allettante di poterne guadagnare dell’altro, in futuro, nella stessa maniera. Domandai: “Ma se tu continuerai a stare con me, perché lo farai?”

“Perché ti voglio bene.”

“Se ti chiedessi di lasciare Luciani, lo faresti?”

“Ah, questo no.”

Rimasi ferito, mio malgrado, dalla risolutezza del rifiuto. “Potresti rispondermi con meno vivacità.”

“Scusami.”

“Così io dovrei d’ora in poi fare a metà con Luciani?”

Parve animarsi, come se finalmente avessi toccato un punto sensibile: “Ma che ti fa? Perché ti dà tanto fastidio? Verrò a trovarti come sempre, niente sarà cambiato.”

Ripetei dentro di me: “Niente sarà cambiato,” dicendomi che, almeno per lei, era la verità. Adesso mi contemplava curiosamente, quasi con rammarico. Disse alla fine: “Lo sai che mi dispiacerebbe lasciarti?”

Non potei fare a meno di restare colpito dalla sincerità indubbia di queste parole. Domandai: “Veramente ti dispiacerebbe?”

“Sì, mi sono abituata a te.”

“Ma ti dispiacerebbe ugualmente di lasciare Luciani, non è vero?”

“Sì, molto.”

“Ti sei abituata anche a lui?”

“Siete due cose diverse.”

Rimasi un momento silenzioso. Come facevamo ad essere due cose diverse, dal momento che Cecilia chiedeva ad ambedue la stessa cosa, che era poi il semplice rapporto fisico? Domandai: “Così vorresti averci tutti e due?”

La vidi accennare di sì in un silenzio misterioso, pieno di proterva e infantile avidità. Disse poi: “Che colpa ne ho io se mi trovo bene con tutti e due? Ciascuno di voi mi dà una cosa diversa.”

Provai la tentazione di domandarle: “Io ti do il denaro e Luciani l’amore, non è così?” Ma mi trattenni, comprendendo che era ancora troppo presto per una simile domanda. Per muoverla, io dovevo andare fino in fondo a questa novità della venalità. Il fatto che avesse accettato del denaro, una volta tanto, poteva anche non significare niente. Dissi alla fine, con un sentimento misto di rabbia e di stanchezza: “E va bene, ci avrai tutti e due, facciamo la prova. Ma vedrai tu stessa che è impossibile voler bene a due uomini nello stesso tempo.”

“E invece io ti dico che è possibilissimo.” Assai lieta, come pareva, di aver risolto il problema della nostra relazione, si chinò, mi sfiorò la guancia con le labbra e si avviò verso la porta, dicendomi che, come tutti i giorni, mi avrebbe telefonato la mattina seguente.

Mi voltai verso la parete e chiusi gli occhi.