CAPITOLO OTTAVO

Adesso dovevo dimostrare a me stesso che Cecilia era venale. Ricordavo tutte le volte che avevo dato del denaro a delle prostitute e mi dicevo che se Cecilia era davvero venale, alla fine avrei provato per lei lo stesso sentimento che provavo per quelle donne dopo che le avevo pagate: un senso di possesso scontato e sovrabbondante, di riduzione della persona che aveva ricevuto il denaro ad oggetto inanimato, di svalutazione completa dovuta, appunto, alla valutazione mercenaria. Da questo alla noia che mi avrebbe liberato di Cecilia e del mio amore per lei, non c’era che un passo. Era certamente una maniera avvilente di possedere, così per chi era posseduto come per chi possedeva; e avrei senza dubbio preferito un altro genere di possesso che mi avrebbe permesso di separarmi da Cecilia come da qualcuno che ormai conoscevo troppo bene, ma non disprezzavo; ma io dovevo ad ogni costo placare la mia angoscia. Sì, preferivo sapere Cecilia mercenaria piuttosto che misteriosa; poiché saperla mercenaria mi avrebbe dato un senso di possesso che il mistero mi negava.

Presi dunque l’abitudine, al primo momento dei nostri incontri, di spingere nella mano di Cecilia, senza dir niente, come avevo fatto la prima volta, una somma che, secondo i giorni, variava dalle cinque alle trentamila lire: in questo modo, pensavo, alla Cecilia inafferrabile e misteriosa, dalla quale non riuscivo a staccarmi, si sarebbe in breve tempo sostituita una Cecilia afferrabilissima e priva affatto di mistero. Ma questa trasmutazione non avvenne. Si verificò, semmai, il contrario: non fu il denaro a far cambiare il carattere a Cecilia, fu invece Cecilia, evidentemente la più forte tra i due, a far cambiare il carattere al denaro.

Cecilia, come le spingevo nella palma i fogli di banca piegati, stringeva subito il pugno, senza, però, dare a vedere altrimenti che li aveva ricevuti e accettati. Era veramente come se quel denaro e la mano che lo dava e la mano che lo riceveva, si fossero trovati in un mondo diverso da quello in cui ci trovavamo Cecilia ed io. Poi, mentre l’abbracciavo, Cecilia lasciava cadere i fogli di banca in terra, presso il divano, e lì restavano, piegati e spiegazzati, dove potevo scorgerli facilmente mentre facevamo l’amore, simbolo, ai miei occhi, di una maniera di possesso che mi illudevo fosse più completa e soddisfacente di quella a cui, in quel momento, mi dedicavo. Dopo l’amore, Cecilia, correndo in punta di piedi, nuda, al bagno, si chinava rapidamente e col gesto grazioso di un corridore che si curvi a raccogliere il fazzoletto lasciato cadere dal compagno, afferrava i biglietti con le punte delle dita e li gettava sulla tavola, presso la borsa. Più tardi, una volta vestita, Cecilia si avvicinava alla tavola, riprendeva i fogli e li metteva al sicuro nel portafogli che poi chiudeva nella borsa. Cecilia amava fare le cose sempre nello stesso modo, quasi ritualmente. Così, questo particolare del denaro si inserì nel solito rito dell’amore con molta naturalezza e persino con una certa grazia, senza, insomma, quei significati meretrici che avevo immaginato che dovesse avere, anzi, come tutto quello che faceva Cecilia, senza significato affatto.

Nei primi tempi, come ho già detto, le diedi dalle cinque alle trentamila lire, cercando, con queste variazioni di quantità, di vedere se Cecilia avrebbe in qualche modo reagito. Pensavo che, se lei mi avesse chiesto: “L’ultima volta mi hai dato ventimila lire, oggi me ne dai soltanto cinque, perché?” io avrei avuto un motivo più che sufficiente per considerarla venale. Ma Cecilia non mostrò di accorgersi che il foglio che le mettevo in mano era scempio o doppio, verde o rosso, come se il gesto di pagarla non avesse avuto un significato particolare e preciso ma fosse stato uno tra i tanti gesti che facevo quando stavo con lei, e che avrei potuto anche fare in modo diverso o non fare affatto, senza che, per questo, i nostri rapporti si modificassero. Allora, decisi di vedere che cosa sarebbe successo se avessi cessato del tutto di darle del denaro. Strano a dirsi, mi accinsi a questo esperimento con il batticuore. Non me lo confessavo apertamente; ma poiché ero quasi convinto che quei biglietti di banca che introducevo furtivamente nella mano di Cecilia costituissero ormai la principale giustificazione del nostro rapporto, temevo di perderla nel momento stesso in cui speravo di dimostrarmi che, perdendola, non avevo niente da perdere.

Così, uno di quei giorni, non le misi niente in mano. Con stupore, mi accorsi allora che Cecilia nonché mostrare disappunto, non pareva neppure avvedersi del cambiamento sopravvenuto nel solito rito amoroso. Nella stretta delle dita che ricevevano la mia mano vuota, non c’era alcun senso di sorpresa o di delusione; era la stessissima stretta con cui lei, dopo aver ricevuto il denaro, mi annunziava, gli altri giorni, che era pronta a darsi. Cecilia, dunque, fece quel giorno l’amore nello stesso modo dei giorni in cui la pagavo; e se ne andò senza alludere in alcuna maniera al fatto che non l’avevo pagata. Ripetei la cosa due o tre volte, ma Cecilia, infantilmente impenetrabile, mostrò di nuovo di non essersi accorta di niente. Così mi trovai di fronte a tre ipotesi: o Cecilia era venale, ma aveva la superiore ed elegante astuzia di non mostrarlo; oppure era distratta, di una distrazione, però, del tutto misteriosa, ossia era inafferrabile come prima e come sempre, nonostante il denaro; oppure era completamente disinteressata, e anche in questo caso mi sfuggiva e si sottraeva al mio possesso. Rigirai un pezzo questo problema e quindi, alla fine, decisi di metterla con le spalle al muro. Uno di quei giorni, le introdussi di nuovo due biglietti da diecimila lire nella mano e poi subito dopo le dissi: “Guarda, che t’ho dato ventimila lire.”

“Me ne sono accorta.”

“È la prima volta che lo faccio, dopo una settimana che non ti davo niente. Anche di questo ti eri accorta?”

“Certo.”

“E non ti seccava?”

“Ho pensato che non le avevi.”

Debbo dire, a questo punto, che Cecilia, priva affatto di curiosità com’era, non mi aveva mai interrogato sulla mia famiglia e ignorava che io fossi ricco. Mi vedeva come apparivo: un pittore vestito di un maglione e di un paio di pantaloni di velluto, con lo studio in gran disordine e un’automobile decrepita. Dunque, la risposta, al solito, era la sola che si potesse dare. Insistetti: “È vero, non li avevo, ma poteva seccarti di non riceverne più?”

Rispose ambiguamente: “A tutti può succedere di restare senza soldi.”

“Mettiamo che d’ora in poi non potessi più darti niente, che faresti?”

“Oggi me li hai dati, perché pensare al futuro?”

Era, questa, come sapevo, una delle risposte fondamentali di Cecilia: passato e futuro per lei non esistevano; soltanto il presente più immediato, anzi, addirittura il momento che fuggiva, le pareva degno di considerazione. Tuttavia insistetti: “Ma mettiamo che non ti dia più niente; continueresti a vedermi?”

Mi guardava, rispose alla fine: “Non ci vedevamo forse quando, ancora, non mi davi niente?” La frase, come pensai, era perfetta. Ma il tono incerto, dubbioso e interrogativo, come se lei non fosse stata del tutto sicura di quanto diceva, pareva lasciar supporre che, nel caso io avessi cessato davvero di pagarla, lei, forse, avrebbe riconsiderato l’intera questione del nostro amore. E tuttavia, pensai, anche questo non era sicuro. In realtà, come mi accorsi. Cecilia non sapeva veramente quello che avrebbe fatto se avessi interrotto di pagarla; e questo per la buona ragione che, attaccata, come ho già detto, al presente e priva affatto di immaginazione, lei non poteva prevedere il sentimento che le avrebbe ispirato la mia inadempienza finanziaria, e soprattutto, in che misura, dopo che avessi smesso di pagarla, lei avrebbe provato desiderio di far l’amore con me, se meno o più o nello stesso modo o in un modo diverso o per niente affatto. Dissi: “Senti, vorrei farti una proposta. Invece di darti ora cinque, ora dieci, ora venti e ora trentamila lire, come faccio adesso, potremmo fissare d’accordo una certa somma che ti darei una volta al mese. Che ne dici?”

Protestò subito, come qualcuno a cui si proponga di sostituire una cara abitudine un po’ assurda ma poetica, con qualche cosa di più ragionevole ma prosaico: “No, no, continuiamo così, come abbiamo fatto fino adesso. Me li dai quando vuoi e quanti vuoi, ogni tanto, senza regola, almeno così tutte le volte è una sorpresa.”

Così, anche questa volta, non riuscii a spingere Cecilia nella trappola della venalità e, insomma, a trasformarla, da creatura misteriosa e inafferrabile, in donna mercenaria, comune e noiosa. In realtà, come pensai alla fine, il denaro che si dà alle prostitute ha un carattere possessivo perché non soltanto chi lo dà, ma anche chi lo riceve lo considera come un compenso per ben precise prestazioni. In altri termini, l’amante della prostituta sa che se non la paga, la donna lo respingerà; dal canto suo, la donna sa che se accetta il denaro, è tenuta poi a darsi. Ma io ero consapevole che Cecilia si dava a me per motivi che niente avevano a che fare col denaro; e che, dal canto suo, lei pareva ignorare che il denaro, una volta accettato, l’obbligava a darsi. Di questa sua ignoranza, ebbi la prova uno di quei giorni quando, dopo averle messo in mano i soliti biglietti di banca, mi vidi respingere con queste parole: “Senti, oggi non ho voglia, stiamo assieme come fratello e sorella;” parole nelle quali non si avvertiva alcuna specie di calcolo, bensì soltanto la più ingenua indifferenza. Intanto, però, i biglietti erano nella sua mano e subito dopo li mise nella borsa. Così, quello stesso denaro che, finché l’avevo in tasca, poteva sembrarmi il simbolo del possesso, appena passava nella borsa di Cecilia diventava, invece, il simbolo dell’impossibilità di quel medesimo possesso.

D’altra parte, sapere che ogni volta che mi avesse visitato, lei avrebbe ricevuto del denaro, non parve modificare il carattere malsicuro, saltuario, inatteso e problematico delle sue visite. Non soltanto Cecilia adesso mi visitava non più di due o tre volte la settimana, esattamente come quando non riceveva niente da me: ma anche, attraverso le esitazioni e le incertezze della sua voce, allorché al telefono mi fissava l’appuntamento, mi pareva di capire che i nostri incontri dipendevano, come in passato, da necessità e opportunità disinteressate e misteriose che niente avevano a che fare col denaro.

Il primo effetto di questa mia smania di possedere Cecilia attraverso la venalità fu che, per far fronte alle spese a cui mi costringeva l’esperimento, mi riaccostai a mia madre, alla quale finora non avevo chiesto se non lo stretto necessario per vivere. Adesso avrei preferito non essere stato così sprezzante del suo denaro; mi rendevo conto che l’avevo ormai abituata ad un disinteresse di cui mi sarei volentieri disfatto e che mi costringeva a fare con Cecilia la parte se non proprio dell’avaro, per lo meno del parsimonioso. Ma tant’era; avevo voluto essere povero senza prevedere che Cecilia mi avrebbe fatto desiderare di essere ricco e ormai era troppo tardi per cambiare le idee di mia madre su di me, tanto più che queste idee si accordavano troppo bene con la sua nativa vocazione al risparmio. Tuttavia sapevo che mia madre era disposta a darmi parecchio di più di quanto mi aveva dato sinora; ma sapevo pure che non era disposta a darmi niente senza contraccambio. Ora mia madre voleva, con tenacia, che tornassi a vivere con lei; e io non ignoravo che il denaro che mi aveva tante volte offerto invano nel passato e quello che adesso, in misura sempre maggiore, mi dava via via che glielo chiedevo, avevano sempre lo stesso fine, che era poi quello di mettersi in condizione di potermi imporre la sua volontà. Cercai, però, di rimandare lo scontro che sentivo inevitabile, contraccambiando ogni volta l’inattesa generosità di mia madre, con assiduità e affettuosità alle quali, certo, non l’avevo abituata in passato. Allora, vedendo che non soltanto non mi rifiutava il denaro ma anche pareva incoraggiarmi a chiederne sempre di più, capii ad un tratto che fra me e lei c’era, in fondo, quasi lo stesso rapporto che tra me e Cecilia: anche mia madre, cercava, per mezzo del denaro, di impadronirsi di me. Ma qui si fermava la somiglianza, perché io non ero simile a Cecilia; e soprattutto mia madre non era simile a me. Infatti, quello stesso denaro che fra me e Cecilia, a causa della nessuna importanza che ambedue gli attribuivamo, ciascuno per motivi diversi, pareva non essere più veramente denaro ma una parte del nostro rapporto amoroso, tra me e mia madre, appunto perché per mia madre non era né avrebbe potuto essere che denaro, conservava intatto il suo carattere originario. In altri termini mia madre certamente mi amava; ma non era affatto disposta a darmi del denaro a fondo perduto, cioè soltanto per il bene che mi voleva, ossia a fare la sola cosa che potesse togliere al denaro stesso il suo consueto significato.

Ebbi la conferma di questa differenza, un giorno che le chiesi una somma più ingente, con un pretesto, come si vedrà, assai infelice. Fu un dopopranzo; mia madre, al solito, si era distesa sul letto, in camera sua, un braccio sul viso e le gambe penzoloni di fuori; io, seduto in una poltrona ai piedi del letto, le muovevo, credo, delle domande su mio padre, uno dei pochi argomenti che avessimo in comune e che non cessava di interessarmi. Mia madre mi rispondeva sempre più brevemente e vagamente e pareva sul punto di addormentarsi. D’improvviso, senza alcuna preparazione, le dissi: “A proposito, senti, avrei bisogno di trecentomila lire.”

La vidi scostare lentissimamente il braccio da uno degli occhi e guardarmi un momento con quell’occhio solo. Disse, poi, con un principio di sgradevolezza nella voce assonnata: “Te ne ho dato cinquantamila sabato, e siamo a martedì, a che ti serve tutto questo denaro?”

Risposi, seguendo il piano che avevo premeditato: “Non è che la prima rata di una somma che dovrò pur spendere. Ho deciso di rimettere in ordine lo studio che è in condizioni vergognose.”

“E a quanto ammonterà la spesa complessiva?”

“Almeno tre volte tanto. Oltre l’intonaco, debbo rifare completamente il bagno, mettere delle tende nuove, cambiare il pavimento, e così via.”

Mi era sembrato un buon piano. Lo studio aveva davvero bisogno di essere rimesso a nuovo; avevo così una buona giustificazione per spillare a mia madre un milione o anche un milione e mezzo. D’altra parte sapevo che mia madre, per la sua puntigliosa avversione contro lo studio, non si sarebbe mai decisa a venire a via Margutta, a controllare in che modo spendevo i suoi soldi.

Aspettai, dunque, fiducioso, la risposta. Mia madre, adesso, non si muoveva più: pareva davvero essersi assopita. Alla fine, però, da sotto il braccio con il quale si copriva il viso, mi arrivò la sua voce del tutto sveglia: “Io questa volta i soldi non te li do.”

“E perché?”

“Perché non vedo la necessità di regalare un milione di lire al padrone di casa quando si ha la possibilità di vivere in una villa sulla via Appia.”

Compresi dove andava a parare il colpo e mi accorsi, troppo tardi, che il pretesto prescelto per spillarle il denaro, era il solo che avrei dovuto evitare. Esclamai, tuttavia, fingendo sorpresa: “Ma che centra?”

“Mi avevi fatto capire che avevi intenzione di trasferirti qui,” disse mia madre con voce lenta, dura e monotona, “e io, come ti sarai forse accorto, ho avuto la discrezione di lasciarti tutto il tempo per decidere. Ma adesso mi chiedi del denaro per rimettere a nuovo lo studio. Debbo così dedurre che ti sei rimangiato la promessa.”

Dissi un po’ irritato: “Io non ti avevo promesso niente. Anzi, al contrario, non ti ho mai nascosto la mia ripugnanza a vivere con te.”

“E allora, caro Dino, non puoi meravigliarti se ti dico che i soldi questa volta non te li do.”

Ora io avevo dato a Cecilia, due giorni prima, le ultime trentamila lire che possedevo; e Cecilia doveva venire a trovarmi quel giorno stesso, nel pomeriggio. Naturalmente, avrei anche potuto non darle niente, come tante volte in passato; ma, d’improvviso, mi accorsi che ormai non ne sarei stato più capace. E questo non tanto perché, dandole del denaro, mi paresse di possederla, quanto per la ragione opposta; il denaro aggiungeva ormai all’inafferrabilità di Cecilia un nuovo aspetto che la confermava e la complicava: quello del disinteresse. E proprio perché lei non si lasciava possedere attraverso il denaro, io mi sentivo, adesso, spinto, irresistibilmente, a dargliene; così come, proprio perché non riuscivo a possederla attraverso l’atto sessuale, mi sentivo spinto a ripetere più e più volte l’atto medesimo. In realtà, così il denaro come l’atto sessuale mi davano per un istante l’illusione del possesso; e io non potevo più fare a meno, ormai, di quell’istante, benché sapessi che era sempre regolarmente seguito da un sentimento di profonda delusione. Guardai mia madre che giaceva tuttora supina, il braccio sul viso; poi pensai a Cecilia che nel momento stesso in cui chiudeva la mano sul mio denaro, apriva la bocca al mio bacio, e sentii che per avere i soldi di cui avevo bisogno sarei anche stato capace di un delitto. Attirò la mia attenzione, soprattutto, la mano che mia madre teneva sugli occhi; a ciascuna delle magre dita portava anelli massicci con pietre preziose; sarebbe bastato sfilare uno di quegli anelli e avrei potuto dare a Cecilia tutto il denaro che volevo, almeno per qualche mese. Poi, non so come, ricordai il contegno favorevole, benché interessato, tenuto da mia madre il giorno che mi ero lasciato andare a fare la corte alla cameriera Rita; e cambiai piano ad un tratto. Mi levai, andai a sedermi sul letto, e dissi con calcolata dolcezza: “Mamà, voglio esser sincero con te. Io non ho bisogno del denaro per rimettere a nuovo lo studio. Ne ho bisogno per un altro motivo.”

“E quale motivo?”

“Faresti meglio a darmi il denaro senza tante domande. Certe cose non è facile dirle.”

“Una madre ha il diritto di sapere in che modo il figlio spende il suo denaro.”

“Un figlio di sedici anni, magari; ma non un figlio di trentacinque.”

“La madre è la madre, a tutte le età.”

“Beh, questo denaro mi serve per una donna.” Dopo aver detto questa frase guardai mia madre. Stava tuttora immobile, pareva essersi di nuovo assopita. Poi, mi giunse la sua voce: “Qualche donnaccia, senza dubbio.”

“Ma, mamà, se fosse una donnaccia, ti pare che ti domanderei trecentomila lire?”

“Una donna perbene non si fa pagare.”

“Ma mettiamo che questa donna abbia realmente bisogno?”

“Sta’ attento, Dino, ci sono delle donne che per spillare denaro sono capaci di inventare dei veri e propri romanzi.”

“Non si tratta di romanzo, si tratta di cose di prima necessità: il cibo, l’affitto, i vestiti.”

“Insomma, tu devi mantenerla da capo a fondo?”

“Non proprio, soltanto aiutarla un poco, per qualche tempo.”

“Una stracciona,” disse mia madre. “Quanto sarebbe stato meglio, Dino, se tu avessi stretto una relazione con una donna sposata, una signora del tuo mondo, che non ti avrebbe chiesto niente e non ti avrebbe pesato addosso in alcun modo.”

Risposi senza ironia: “Il mio mondo non è quello nel quale si trovano questo genere di signore.”

“Il tuo mondo è il mio,” disse mia madre. “Oltre tutto, sta’ attento, Dino, c’è il caso di prendere delle malattie, con queste avventuriere che girano oggi.”

“Non ho preso niente sinora, non prenderò niente in futuro.”

“Che ne sai tu con chi va questa donna quando non ci sei? Sta’ attento Dino, te lo ripeto. Senza dubbio non ignori che in alcuni casi si possono, anzi si debbono prendere certe precauzioni.”

“Ora mi dirai come debbo regolarmi quando faccio l’amore.”

“No, ma voglio metterti in guardia, dopo tutto sei mio figlio e la tua salute mi preme.”

“Insomma, mamà, me li vuoi dare questi quattrini?”

Mia madre tolse la mano dagli occhi e mi guardò: “E chi è questa donna?”

Risposi, con una frase degna di Cecilia: “Questa donna è una donna.”

“Vedi, vuoi del denaro e poi non ti fidi di me.”

“Non è che non mi fido di te, ma che t’importa sapere se si chiama Maria, o Clara o Paola?”

“Non ti ho chiesto il nome, ti ho chiesto chi è, cioè se è una signorina o una signora, se lavora o non fa niente o studia, che età ha, come è fatta.”

“Quante cose vuoi per trecentomila miserabili lirette.”

“Tu dimentichi che se dovessimo fare i conti e ci mettessimo quelle che ti ho dato già, dovremmo moltiplicarle più volte quelle trecentomila lirette che disprezzi tanto.”

“Ah, le hai contate.”

“Si capisce.”

“Beh, mamà, io non me la sento di dirti niente, almeno per ora; ma tu rispondimi una buona volta se mi vuoi dare questi soldi, sì o no.”

Mia madre mi guardò, evidentemente dovetti sembrarle abbastanza risoluto e, anzi, disperato da non consentirle di tirare oltre la corda della sua indiscrezione. Disse fingendo di soffocare uno sbadiglio: “E sta bene. Ecco la chiave, va’ nel bagno, tu sai dov’è la cassetta e conosci il segreto; aprila, c’è una busta rossa, prendila e portala qui.”

Mi levai, andai al bagno, girai il solito uncino, aprii le solite mattonelle, quindi lo sportello del forziere. Sopra i rotoli di titoli, c’era, infatti, una busta color arancione. La presi e la soppesai: doveva, giudicando dal peso, contenere almeno mezzo milione di lire in biglietti da diecimila. Tornai e porsi la busta a mia madre, che adesso, tutta trafelata e assonnata, si era seduta sulla sponda del letto. La vidi aprire la busta e trarne con le punte delle dita, una, due, tre, quattro, cinque banconote da diecimila lire: “Ecco, prendi intanto queste.”

“Ma nella busta,” non potei fare a meno di esclamare, “ci sono almeno cinquecentomila lire.”

“Ce ne sono per questo anche di più. Ma per oggi è tutto quello che posso darti. Adesso va’ a riporre la busta, chiudi la cassetta, riportami la chiave e lasciami. Sono stanchissima e voglio riposare.”

Feci come mi era stato ordinato. Ma, pur rimettendo la busta nel forziere, non potei fare a meno di meravigliarmi per la fiducia che mi dimostrava mia madre, di solito molto diffidente. Dopo tutto, avrei potuto benissimo riaprire la busta e prendere dell’altro denaro. Subito dopo, capii che mia madre si fidava di me perché io avevo fatto in modo di ispirarle fiducia, per così dire, fin dalla mia nascita, con il mio disinteresse e anzi il mio disprezzo del denaro, quasi ostentato e comunque sincerissimo; e capii che non già mia madre era cambiata bensì io, sentendomi adesso capacissimo di rubarle il denaro che mi serviva per pagare Cecilia, e presentendo che se lei non me ne avesse dato abbastanza, avrei finito per rubarlo davvero. Sì, ero cambiato; ma mia madre non s’era ancora destata alla scoperta di questo cambiamento e continuava a fidarsi di me come in passato. Chiusi lo sportello, rimisi a posto le mattonelle e tornai nella camera. Mia madre giaceva adesso di nuovo sul dorso, di traverso al letto, il braccio sugli occhi.

Mi chinai, le misi la chiave dentro la mano, ma le dita non la strinsero, e la chiave cadde sul guanciale. Sfiorai allora con le labbra la magra guancia imbellettata dicendo: “Arrivederci, mamà.” Rispose con un leggero gemito: questa volta si era addormentata davvero. Uscii in punta di piedi

Quelle cinquantamila lire decisi di dividerle in due parti: ventimila lire per me e trentamila per Cecilia, in modo da fornire alla sua prossima visita la giustificazione ormai indispensabile della venalità. Ma, come ho detto, io sentivo che Cecilia mi sfuggiva nella misura stessa in cui la pagavo; e più la pagavo, meno mi pareva che fosse mia. D’altra parte, adesso, all’angoscia di non possederla, si aggiungeva l’angoscia di sospettare che, forse, lei si lasciava possedere dal mio rivale. Sempre più, infatti, mi tormentava il pensiero che Luciani riuscisse a possedere sul serio Cecilia e proprio attraverso quel semplice atto sessuale che per me si era rivelato tanto insufficiente. Temevo, insomma, che l’attore, meno intellettuale e più istintivo di me, fosse riuscito là dove invece io ero fallito. E pensando che il possesso non stesse tanto nell’atto sessuale, quanto nell’effetto dell’atto medesimo su chi ne era l’oggetto, non mi stancavo di interrogare Cecilia intorno ai suoi rapporti con Luciani. Ecco, per esempio, uno di questi interrogatori: “Ieri hai visto Luciani?”

“Sì.”

“L’hai visto oppure hai fatto l’amore con lui?”

“Lo sai che quando dico di averlo visto, voglio dire che ho fatto l’amore.”

“L’avete fatto molto?”

“Come il solito.”

“Di solito lo fate molto?”

“Secondo i giorni.”

“Ti piace di più di farlo con me o con lui?”

“Siete due cose diverse.”

“E cioè?”

“Diverse.”

“Ma insomma in che cosa consiste questa diversità?”

“Lui è più gentile di te.”

“E ti fa piacere che sia gentile?”

“È la sua maniera di fare.”

“Ma ti fa piacere o non ti fa piacere?”

“Se non mi facesse piacere, non ci starei.”

“Non ci sono altre differenze fra me e lui?”

“Sì, lui parla mentre facciamo l’amore.”

“E che ti dice?”

“Le cose che si dicono quando si vuole bene.”

“Anch’io te le ho dette, qualche volta.”

“No, tu stai zitto, la sola volta che hai parlato, mi hai detto: ‘troia’.”

“Ti è dispiaciuto?”

“No, non mi è dispiaciuto.”

“Ma preferisci le cose che ti dice lui?”

“Quando sto con lui mi piacciono le cose che mi dice lui, e quando sto con te, mi piace il tuo silenzio.”

“Ma, insomma, che cosa provi quando lui ti prende?”

“Sono cose che non si possono spiegare.”

“Provi un sentimento più forte che con me?”

“Non lo so.”

“Come, non lo sai?”

“Non ci ho mai pensato.”

“Pensaci adesso, allora.”

“Beh, sento che lui mi ama.”

“Ti fa piacere?”

“A tutte le donne fa piacere sentire che sono amate.”

“Questo sentimento, dunque, è più forte di quello che provi con me.”

“Anche con te sento che tu mi ami.”

“E ti fa piacere?”

“Certo, mi fa piacere.”

“Più piacere o meno piacere che con Luciani?”

“Sono due cose diverse.”

“Ho capito. Adesso dimmi: se per qualche motivo tu non potessi più vedere Luciani, ti dispiacerebbe, ne sentiresti la mancanza?”

“Non è ancora successo, come faccio a saperlo?”

“Ma se succedesse?”

“Allora vedrei. Credo di sì.”

“E se tu non potessi più vedere me?”

“Anche questo non è successo.”

“Ebbene, immaginalo.”

“Quando ti dissi che dovevamo lasciarci, ricordo che mi dispiaceva.”

“Molto?”

“Come si fa a misurare queste cose? Mi dispiaceva.”

“Ma insomma, vuoi più bene a me o a lui?”

“Siete due cose diverse.”

Oppure, visto che non ero riuscito a stringere da presso Cecilia sul tema dei suoi sentimenti durante l’amore fisico, cercavo di sottoporre alla mia indagine un rapporto più innocente: “Ieri sera sei uscita con Luciani?”

“Sì, siamo andati a cena insieme.”

“Dove?”

“In una trattoria di Trastevere.”

“Con me non sei mai voluta uscire la sera.”

“Non avevo scuse. La lezione di disegno si può prendere soltanto di giorno. Invece, per Luciani, posso sempre dire che vuole presentarmi a un produttore.”

“Ma come puoi farmi credere che i tuoi genitori si sarebbero opposti. Li ho conosciuti i tuoi genitori.”

“Mamma, no, che non si sarebbe opposta. Ma papà sì. Era così malato, non potevo contrariarlo.”

“Beh, lasciamo stare. Dunque, siete andati in un ristorante di Trastevere?”

“Sì.”

“Di che cosa avete parlato?”

“Di tante cose.”

“Chi ha parlato di più, lui o te?”

“Lo sai che a me piace ascoltare.”

“Beh, di che cosa ha parlato?”

“Non ricordo più.”

“Sforzati di ricordare, dopo tutto è avvenuto ieri sera.”

“Ma io non ho memoria, lo sai. Non ricordo neppure le cose che tu mi hai detto cinque minuti fa.”

“E va bene: pazienza. Com’era il ristorante?”

“Una trattoria, come ce ne sono tante.”

“Come si chiama?”

“Non lo so.”

“Era grande o piccola, affollata o vuota, con una sola stanza o più stanze, elegante o rustica?”

“Non saprei, non l’ho guardata.”

“Mentre parlavate, vi tenevate la mano nella mano, sulla tavola?”

“Sì, come hai fatto a indovinarlo?”

“Ti faceva piacere che lui ti stringesse la mano?”

“Sì.”

“Molto o poco?”

“Mi faceva piacere, non saprei dir quanto.”

“Sotto la tavola, le vostre ginocchia si toccavano?”

“No, perché eravamo seduti l’uno accanto all’altro.”

“Luciani, oltre a stringerti la mano, ti ha fatto delle carezze?”

“Sì, mi ha accarezzato il viso e mi ha baciato sul collo.”

“I discorsi non te li ricordi, ma le carezze sì.”

“Me le ricordo perché io non volevo.”

“Vi siete bisticciati?”

“No, ma lui vuole sempre che faccia delle cose che io non voglio fare.”

“Per esempio?”

“Beh, non te lo dico, se te lo dico poi ti arrabbi.”

“No, non mi arrabbio, dillo pure.”

“Beh, lui voleva che io gli tenessi la mano... lo sai dove. Hai capito?”

“Sì, ho capito, e tu?”

“Io per un poco l’ho fatto, poi non potevo mangiare con una mano sola e ho smesso. Ma che hai?”

“Niente. Ma tu, mentre lo facevi, ti faceva piacere?”

“Mi faceva piacere che facesse piacere a lui.”

“E se io, mettiamo, ti chiedessi di fare la stessa cosa a me, ti farebbe piacere di farmi piacere?”

“Credo di sì. Tante cose si fanno con piacere perché si sa che fanno piacere a un altro.”

“Un altro? Allora chiunque?”

“No, dico un altro, per dire Luciani o te.”

“Ho capito. E poi che cosa è successo?”

“Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto, in trattoria si mangia e si beve, no?”

“Che cosa hai mangiato?”

“Non ricordo, non guardo mai a quello che mangio. Le solite cose.”

“Altro?”

“Luciani ha fatto venire l’orchestrina e ci hanno cantato delle canzonette napoletane.”

“Quali?”

“Non ricordo.”

“Ti piacciono le canzonette napoletane?”

“Credo di sì.”

“Ma, insomma, ti piacciono o non ti piacciono?”

“Beh, dipende. In trattoria, sì. Se venissero a suonarmele mentre dormo, no.”

“E poi che cosa avete fatto?”

“Che abbiamo fatto? Nient’altro.”

“Scommetto che Luciani ti ha comprato una rosa con il gambo incartato d’argento, da una di quelle ragazze che girano per i ristoranti?”

“Ah, sì, è vero, come fai a saperlo?”

“So tante cose, io. So anche che tu l’hai portata al naso, non è vero?”

“Si fa così quando si riceve un fiore, no?”

“Ti ha fatto piacere che Luciani ti abbia dato una rosa?”

“Sì.”

“E dopo cena dove siete andati?”

“Al cinema.”

“Che titolo aveva il film che hai visto?”

“Non lo so.”

“Che attori c’erano?”

“Non saprei, non so i nomi.”

“Ma almeno, che succedeva in questo film?”

“Mi pare che fosse un film americano, sai di quelli con la gente a cavallo, che spara.”

“Un western. Al cinema vi siete tenuti per mano?”

“Sì.”

“Vi siete baciati?”

“Sì.”

“Avete fatto l’amore?”

“Sì.”

“Come? Avete fatto l’amore al cinema?”

“Eravamo nei posti in fondo, dietro una colonna, il cinema era mezzo vuoto.”

“E in che modo avete fatto l’amore?”

“Gli sono salita sulle ginocchia.”

“E ti è piaciuto?”

“No, avevo tanta paura. E poi non mi piace fare le cose nei luoghi pubblici.”

“E perché l’hai fatto allora?”

“Perché ne avevo voglia.”

“Allora ti è piaciuto.”

“No, ne avevo voglia, ma non mi è piaciuto.”

“E che altro avete fatto ieri sera?”

“Siamo andati in un locale notturno.”

“Quale?”

“Non so come si chiama. Dietro via Veneto.”

“Com’era?”

“Era molto affollato.”

“No, volevo dire com’era la sala, com’era arredata, decorata?”

“Non l’ho guardata.”

“Avete ballato?”

“Sì.”

“Molto?”

“Sì.”

“Ballando ti sei stretta a lui?”

“No.”

“Perché no?”

“Abbiamo ballato dei balli che richiedono di stare separati.”

“Che cosa avete fatto ancora?”

“Nient’altro. Verso le tre lui mi ha accompagnato a casa.”

“Ha la macchina?”

“Ce l’aveva ma l’ha venduta.”

“Non ha molti soldi, allora?”

“Adesso no, perché è disoccupato.”

“Tu gli dai dei soldi, qualche volta?”

“Sì, qualche volta glieli do.”

“I miei soldi?”

“Sì, quelli che tu mi dai.”

“Così i soldi che ti do, non li spendi mai per te stessa?”

“No, qualche cosa ci compero. Ma per lo più li spendo con lui.”

“Ieri sera ha pagato lui o hai pagato tu?”

“Abbiamo fatto un po’ per uno, lui ha pagato il cinema, il resto l’ho pagato io.”

“Insomma hai pagato quasi tutto te?”

“Lui ha pagato tante altre volte.”

“Come gliel’hai dati i soldi?”

“In trattoria gliel’ho dati sotto la tavola. Nel locale li ha presi lui, dalla mia borsa.”

“E poi ti ha riaccompagnato a casa in taxi?”

“Sì.”

“È entrato con te nel cortile?”

“Sì.”

“Avete salito le scale insieme?”

“Sì.”

“Avete fatto l’amore sulle scale?”

“L’abbiamo fatto un poco, sul mio pianerottolo.”

“Che vuol dire: un poco?”

“Senza andare fino in fondo.”

“Ti è piaciuto?”

“Più che al cinema perché avevo meno paura.”

“E poi?”

“E poi ci siamo lasciati.”

“Sei andata a letto?”

“Sì.”

“E hai pensato a lui prima di addormentarti?”

“No, ho pensato a te.”

“A me?”

“Sì, a te, ti ho pensato finché non mi sono addormentata.”

“Che cosa hai pensato?”

“Non ricordo. Ti ho pensato, ecco tutto.”

Uno di quei giorni, quasi a confermare il sentimento di inafferrabilità che Cecilia mi ispirava, avvenne un fatto che voglio riferire. Spesso, soprattutto quando sapevo che Cecilia non sarebbe venuta a trovarmi, andavo nello studio di Balestrieri che era tuttora nelle condizioni in cui si trovava il giorno che il vecchio pittore era morto. La vedova non si era curata di riaffittarlo o, com’era più probabile, non aveva ancora trovato un subinquilino. Penetravo nello studio grazie alla chiave che Balestrieri aveva dato a Cecilia e che io le avevo sottratto, e prendevo a girare tra quei mobili ormai velati di polvere, in quell’odore di roba vecchia e poco pulita, cercando non sapevo neppur io che cosa. Provavo, indugiando nel tetro stanzone pieno di mobili nerastri e di tappezzerie rossicce che avevano assistito agli amori di Cecilia e di Balestrieri, un sentimento funebre, come se io fossi non già nello studio di Balestrieri ma nel mio, e io fossi morto, e in forma di fantasma tornassi, come usano appunto i fantasmi, sul luogo dei miei amori. Questo sentimento funebre, del resto, oltre che dalla somiglianza ripugnante del rapporto tra me e Cecilia con quello tra Cecilia e Balestrieri, mi veniva dalla convinzione che, in certo modo, ero morto anch’io e in maniera forse più definitiva del vecchio pittore il quale, lui almeno, non aveva mai avuto dubbi sulla propria arte e aveva dipinto, per così dire, fino all’ultimo respiro. Io, invece, come pensavo guardando ai nudi enormi e agitati di Cecilia che ricoprivano le pareti dal pavimento fino al soffitto, ero già morto alla pittura prima ancora di incontrare Cecilia; e se fossi morto, come Balestrieri, a causa di Cecilia, non avrei fatto che confermare nella vita ciò che mi era già avvenuto nell’arte. Così, come sempre, sentivo che c’era un nesso tra la crisi della mia pittura e la relazione con Cecilia; tra l’impossibilità di dipingere la tela sul cavalletto e quella di possedere Cecilia sui cuscini del divano; come c’era stato un nesso tra la qualità esecrabile della pittura di Balestrieri e il carattere del suo rapporto con Cecilia. Era un nesso oscuro e minaccioso; allo stesso modo, nel mezzo di un deserto, sono significativi, per il viaggiatore che si sia smarrito, gli ossami bianchi sparsi sulla sabbia.

Ora, un pomeriggio che contemplavo i laidi nudi di Balestrieri come si contemplano i segni misteriosi di un linguaggio indecifrato, la porta che avevo lasciato socchiusa, si disserrò un poco e, per la fessura, si affacciò una testa di donna. Quindi la donna, dopo essersi assicurata che c’ero, entrò e mi venne incontro. La riconobbi quasi subito, era la vedova di Balestrieri che il giorno del funerale aveva avuto il volto completamente nascosto da un fitto velo nero, di quelli che si vedono alle processioni funebri nei paesi, ma che in seguito mi era avvenuto di incontrare qualche volta. Era una donna grande e formosa che era stata bella e che, adesso, a cinquant’anni, conservava ancora i colori della gioventù ma come stemperati e disciolti sulla carne disfatta: la bianchezza lucida della pelle, la limpida nerezza degli occhi un po’ bovini, il rosso acceso, come di ciliegia matura, delle labbra tumide. Era stata modella, in gioventù; forse la sola donna, prima di Cecilia, che Balestrieri avesse amato o si fosse illuso di amare: infatti l’aveva sposata ed era vissuto con lei vent’anni. Nativa di un paese del Lazio, famoso per fornire tradizionalmente le modelle ai pittori romani, aveva serbato intatte la rusticità e semplicità originarie.

Notai subito che non pareva sorpresa e neppure scontenta di trovarmi nello studio del marito. Si presentò, dicendo con voce calda e bassa, proprio di contadina: “Sono la signora Balestrieri.”

Mi affrettai a scusarmi: “Mi perdoni, ho trovato la porta aperta e sono entrato per dare un’occhiata ai quadri.”

Rispose con sollecitudine: “Per carità, professore, lei può entrare qui ogni volta che vuole. Lo so, che il mio povero marito era tanto amico suo.”

Non osai contraddirla. Adesso mi guardava e mi sorrideva; nel sorriso pareva esserci quasi un’affettuosa indulgenza che non capivo. Disse: “Io ero venuta a cercarla nel suo studio, professore, perché dovrei parlarle di una cosa che può interessarla. Ho trovato la sua porta aperta, ho visto che lei non c’era e allora ho pensato che lei era qui.”

“Perché ha pensato che ero qui?”

“Perché sapevo che lei ha la chiave dello studio di mio marito.”

“Chi gliel’ha detto?”

“Ma la portiera dello stabile, professore.”

“E lei voleva parlarmi?”

Disse tranquillamente: “Sì. L’ho cercata anche l’altro giorno, ma lei non c’era.” Quindi cambiando argomento, con goffa e rustica disinvoltura: “Le piacciono questi quadri eh, professore?”

Risposi imbarazzato: “Suo marito era un pittore pieno di qualità.”

“Sono belli, no?” riprese incominciando a passeggiare per lo studio e guardando alle tele appese alle pareti. “Lo sa, professore, che sono stati tutti fatti con la stessa modella?”

Non dissi niente. Lei riprese dopo un momento, sempre con quel suo tono rusticamente allusivo e ironico: “Che bella ragazza, eh, professore, guardi che petto, che gambe, che spalle, che fianchi. Veramente quello che si dice di una bella ragazza, professore.”

“Ma lei,” domandai cercando di sviare il discorso: “lei, suo marito non l’ha mai dipinta?”

“A suo tempo, tante volte. Ma io qui non ci sono. Mio marito, quando ci separammo, tolse dalle pareti le tele in cui mi aveva dipinta e me le mandò a casa. Le ho tutte io. Però io non ero così bella come questa ragazza. La mia era una bellezza classica, ero fatta come una statua. Questa, invece, è una bellezza moderna, un po’ bambina e un po’ donna, di quelle che piacciono adesso. Sì,” ribadì con un sospiro: “proprio una bella ragazza. Peccato che non sia buona quanto è bella.”

Non potei fare a meno di domandare, non del tutto ingenuamente: “Ma lei la conosce?”

“E come se la conosco. Come potrei non conoscerla? Il mio povero marito, si può dire, è morto a causa sua.”

“Così hanno detto.”

Corresse con dignità: “Sì, lo so quello che hanno detto. Le solite porcherie. E magari sarà anche successo, ma avrebbe potuto succedere con qualsiasi altra donna. No, io non ho voluto dire questo. Ho voluto dire che lui è morto a causa di quella ragazza per il crepacuore che lei gli ha fatto venire.”

“In che modo?”

“Con la sua cattiveria.”

“È tanto cattiva questa ragazza?”

Rispose con ragionevole moderazione: “Non dico che sia cattiva. Le donne, si sa, sono cattive o buone secondo che amano o no. Fu cattiva, in tutti i casi, con mio marito. Con lei, magari, sarà buona.”

Finalmente capii l’oscura allusività dei suoi sguardi e delle sue parole; sapeva che Cecilia era la mia amante. Dissi, fingendo stupore: “Che c’entro io?”

Levò la mano e me la batté sulla spalla, con gesto di compassione campagnuola: “Povero professore, eh, eh, povero professore.” Si allontanò, poi, da me e, indicando la parete, domandò improvvisamente: “Le piace questo quadro, professore?”

Mi avvicinai e guardai. Era un quadro singolare, in quanto Balestrieri che, di solito, si limitava a ritrarre Cecilia sola, in diversi atteggiamenti, vi aveva abbozzato una specie di composizione. Vi si vedeva, sul consueto sfondo sporco e bituminoso, Cecilia nuda, investita da una luce spettrale, a cavallo di una oscura forma umana tratteggiata carponi. Era un quadro tra i più brutti: Balestrieri, per dare un’idea del trionfo di Cecilia, non aveva trovato di meglio che farle alzare in aria una mano vittoriosa, mentre con l’altra stringeva la collottola dell’informe calibano che le serviva da cavalcatura. Dissi, asciutto: “Sì, non c’è male.”

“Lo sa lei chi è l’uomo che sta a quattro zampe,” domandò la vedova avvicinandosi al quadro e guardandolo con un’attenzione vendicativa, “non si capisce perché la faccia non si vede bene; ma io lo so. Lui stesso, mio marito. Lei forse crederà che dipingendosi in questo modo abbia voluto, per così dire, far capire che quella ragazza gli teneva un piede sulla testa? Niente affatto. Lo faceva sul serio.”

“Ma che cosa?”

“Lui si metteva a quattro zampe, lei gli saliva sulla schiena e lui saltava di qua e di là, per lo studio. Come i ragazzini quando giocano al cavallo. Poi lui, magari, le dava una sgroppata e la mandava per terra, a gambe per aria. Li ho visti io, con questi miei occhi, un giorno, dal finestrone. Eh, si divertivano.” Tacque un momento continuando a guardare al quadro. Quindi soggiunse: “Se questo quadro le piace, professore, io glielo vendo.”

Mi ero così poco aspettato una proposta simile che per un momento non seppi cosa dire; poi compresi: la vedova sapeva della mia passione per Cecilia e voleva specularci sopra. Provai, ad un tratto, un senso di vergogna come chi, avendo un vizio che crede segreto, si veda offrire per la strada un pacco di fotografie oscene riguardanti, appunto, questo vizio. Domandai irritato: “Ma perché diavolo dovrei comprare questo quadro?”

Mi rispose serenamente: “Glielo dico per il caso che la interessasse. Tra pochi giorni debbo portar via i quadri perché ho trovato da subaffittare lo studio e l’inquilino nuovo non li vuole. Dice che sono troppo arditi. Allora ho pensato che lei poteva volerne uno come ricordo.”

“Ma ricordo di che cosa? Di chi? Di suo marito? Ci conoscevamo appena.”

Di nuovo ebbe un gesto di furbesca compassione, battendomi una mano sulla spalla e scuotendo il capo: “Professore, professore, cerchiamo di capirci. Perché non vuole essere sincero con me, ho i capelli bianchi, ormai,” e indicò i capelli neri corvini, pettinati in due bande lisce, con la crocchia sulla nuca, nei quali, tuttavia, si potevano distinguere alcuni fili bianchi, “potrei benissimo esser la madre di quella ragazza, perché non vuole esser sincero con me?”

Questa volta sedetti alla tavola sulla quale era il telefono; feci cenno alla vedova di sedere; e fingendo di non aver udito il suo appello alla sincerità, le dissi con una serietà un po’ minacciosa: “Signora Balestrieri, la prego di dirmi con esattezza di che cosa si tratta. Lei ha fatto alcune allusioni che non ho capito. Vorrei che lei me le spiegasse.”

Un po’ intimidita, ripiegò, da contadina, su un tono lamentoso: “Mio marito, purtroppo, non mi ha lasciato in buone condizioni finanziarie. Avevo pensato che lei, come pittore, potesse capire meglio i quadri di mio marito, e potesse comprarne almeno uno. Ho cercato di venderli ma non li capiscono.”

Dissi: “Ma io non ho un soldo. Sono soltanto un pittore, e per giunta un pittore che non dipinge.”

Si meravigliò sinceramente: “Strano, mi avevano detto che sua madre è tanto ricca.”

“Mia madre sì, ma io no.”

“Allora sia come non detto, professore, sia come non detto.”

“Un momento,” insistetti, “lei ha fatto un’allusione poco fa. Perché, insomma, dovrei acquistare questo quadro come ricordo? Intanto, ricordo di chi?”

Mi guardò spalancando i begli occhi neri: “Ma di quella modella.”

“E perché?”

“Professore, il perché lei lo sa.”

“Signora Balestrieri, non la capisco.”

“Beh, insomma, lo sa professore che dicono? che quella ragazza è la sua amante.”

“Ma chi lo dice?”

“Tutti... a cominciare dalla portiera dello stabile.”

Finsi di rimanere sconcertato. Quindi pronunziai con fermezza, lentamente: “Ah, dunque è per questo. Ma allora lei si sbaglia. Quella ragazza non è niente per me.”

Abbozzò una risata di complice indulgenza: “Ah, professore, ah, professore;” ma l’interruppi alzando la voce in maniera convenzionale: “Se le dico una cosa, è quella.”

Di nuovo si ritrasse nel guscio, proprio come una lumaca spaventata. Per farne, però, subito dopo, capolino osservando: “La credo, professore. Beh, sa che cosa le dico? mi fa piacere per lei.”

“Perché?”

“Gliel’ho già detto: quella ragazza è bella ma non è buona.”

“In che senso?”

Sospirò: “Mio marito avrebbe potuto dirglielo meglio di me. Ma mio marito è morto. Io non so niente di preciso, intendiamoci. So soltanto una cosa: mio marito aveva un appartamento di cinque stanze, nei pressi di piazza Bologna, del valore di alcuni milioni. Ma quando è morto, si è scoperto che l’appartamento, lui, l’aveva venduto. Però i milioni non si sono trovati. È stato invece trovato un taccuino dove mio marito, che era un uomo ordinato, annotava le spese. Quasi ad ogni pagina c’era scritto: Cecilia, tanto e tanto.”

“Lei vorrebbe dire che quella ragazza sfruttava suo marito?”

“Esatto, professore.”

Sospirò di nuovo e quindi soggiunse a bassa voce, in fretta e in furia: “È un’acqua cheta, quella ragazza, professore. Senza cuore, falsa, interessata. E per giunta lo tradiva, prendeva i soldi da lui e li dava a un altro.”

Non potei fare a meno di esclamare: “Dava i soldi a un altro?”

“Sicuro, un morto di fame col quale si trovava ogni sera dopo essere stata durante il giorno con mio marito.”

“Ma chi era quest’uomo?”

“Un suonatore di saxofono. Suonava in un locale notturno. Spendevano insieme i soldi di mio marito. Lui si era fatto anche la macchina.”

“Ma allora suo marito le dava molti soldi, a quella ragazza?”

“Milioni professore. Sono tutti segnati sul taccuino delle spese. Ma lo sa, professore?”

“Che cosa?”

“Benché separati, mio marito ed io eravamo rimasti amici, per così dire. Beh, lui veniva da me qualche volta e sempre mi parlava di quella ragazza. Era più forte di lui, non poteva farne a meno, mi aveva presa come confidente. E lo sa lei? Un uomo come lui, che di donne ne aveva avute tante, un uomo con la sua esperienza e la sua intelligenza, piangeva.”

Dissi, ricordando che anche Cecilia mi aveva parlato del pianto di Balestrieri: “Ma aveva il pianto facile, suo marito.”

“Macché facile. Siamo stati insieme anni e non l’ho mai visto versare una lacrima. Piangeva perché quella ragazza lo aveva ridotto alla disperazione. Sa cosa diceva? Che quella ragazza sarebbe stata la sua morte. Eh, ci aveva il presentimento.”

“Come si chiamava il suonatore di saxofono a cui Cec... a cui la ragazza dava i soldi?”

Capì che la cosa mi interessava e volle farmi capire che aveva capito. Si raddrizzò con dignità: “La chiami pure col suo nome, professore, la chiami pure Cecilia. Quel suonatore di saxofono si chiamava Tony Proietti. Suona al Canarino, un locale dalle parti di via Veneto. Beh, io me ne vado professore. Mi scusi ancora una volta. Se, però, i quadri la interessano, potrà sempre trovarmi a casa mia. Sono nell’elenco telefonico: Assunta Balestrieri. O magari potrebbe farne comprare uno a sua madre, eh, professore. Lei rimane, oppure viene via con me?”

Non rimasi, e, dopo averla salutata, tornai al mio studio, mi gettai sul divano e caddi in una profonda riflessione. Le prove che Cecilia era venale si moltiplicavano, ma, stranamente, queste prove non provavano nulla. Infatti, appena dimostrata la venalità di Cecilia, subito si profilava qualche cosa che la smentiva: I soldi di Balestrieri, secondo la vedova, lei li passava al suo amante, a Tony Proietti. E che questo doveva esser vero, sembravano dimostrarlo la povertà del guardaroba di Cecilia e il fatto che non possedesse neppure il più piccolo gioiello. Se non li aveva dati a Proietti, dove erano andati a finire i soldi di Balestrieri?

Il giorno dopo questa visita della vedova Balestrieri, appena Cecilia si fu presentata al mio studio, le domandai a bruciapelo: “Chi è Tony Proietti?”

Rispose, senza esitare: “Un suonatore di saxofono che suona al Canarino.”

“Sì, ma che cosa è stato per te?”

“Il mio fidanzato.”

“Siete stati fidanzati?”

“Sì.”

“E poi?”

“Poi che cosa?”

“Poi che cosa è successo?”

Rispose con riluttanza: “Mi ha lasciato.”

“Perché?”

“Gli piaceva un’altra.”

“Balestrieri lo sapeva che eravate fidanzati?”

“Si capisce che lo sapeva; io ero fidanzata con Tony già a quattordici anni, un anno prima di conoscere Balestrieri.”

Rimasi stupito e balbettai: “Ma tu mi avevi detto che Balestrieri non sapeva niente ed era geloso e per questo si rivolse ad una agenzia di investigazioni private.”

Rispose, con semplicità: “Balestrieri non era geloso di Tony, perché lui era venuto dopo Tony e lo seppe subito che ero fidanzata con Tony. Fu geloso quando pensò che lo tradissi con qualcun altro.”

“Ma ci fu veramente questo qualcun altro?”

“Sì, ma fu una cosa che durò poco.”

“Ci fu nello stesso tempo di Tony?”

“No, subito dopo che Tony ed io ci lasciammo.”

“Ma Tony sapeva di Balestrieri?”

“Ma ti pare? Se lo avesse saputo, mi avrebbe ammazzata.”

“Ma, insomma, chi fu il primo con te?”

“Come sarebbe a dire il primo?”

“Il primo col quale facesti l’amore.”

“Tony.”

“A che età?”

“Te l’ho già detto, avevo quattordici anni.”

“E adesso lo vedi mai Tony?”

“Qualche volta c’incontriamo e ci salutiamo.”

“Dimmi un’altra cosa: Balestrieri ti dava dei soldi?”

Mi guardò per un momento e poi rispose con la solita misteriosa riluttanza: “Sì, me ne dava.”

“Molti o pochi?”

“Secondo.”

“Secondo che cosa?”

Tacque di nuovo e quindi disse: “Io non li volevo ma lui volle darmeli per forza.”

“E cioè?”

“Per forza. Aveva saputo che Tony non aveva una lira, e che la sera, quando Tony ed io uscivamo insieme, non potevamo neppure andare al cinema e volle per forza che io accettassi quei soldi e li dessi a Tony.”

“Fu lui a importi di darli a Tony?”

“Sì.”

“Come fece la prima volta?”

“Gli dissi che siccome non avevamo soldi, passavamo le serate per strada. Lui allora prese un biglietto da diecimila lire e me lo mise in mano dicendo: prendi questo, così potrete andare al cinema.”

“E tu?”

“Io non li volevo, ma lui mi impose di prenderli. Mi minacciò, se non li prendevo, di dire a Tony che io facevo l’amore con lui, allora li presi.”

“E poi continuò a darteli?”

“Sì.”

“Ti diede anche delle somme più forti?”

“Siccome sapeva che Tony ed io dovevamo sposarci e dovevamo metter su casa, volle per forza che comprassi col suo denaro i mobili per l’appartamento.”

“Che fine hanno fatto questi mobili?”

“Ce li ha Tony a casa sua, glieli ho lasciati.”

“E la macchina?”

“Quale macchina?”

“Balestrieri non pagò anche la macchina di Tony?”

“Sì, gliela pagò, un’utilitaria. Chi te lo ha detto?”

“La vedova di Balestrieri.”

“Ah, quella lì.”

“La conosci?”

“Sì. Venne da me, voleva indietro i soldi.”

“E tu cosa le dicesti?”

“Le dissi la verità. Che suo marito me li aveva fatti accettare per forza e che io non avevo niente, perché li avevo dati tutti a Tony, come suo marito voleva.”

“Per quanto tempo Balestrieri ti diede i soldi?”

“Quasi due anni.”

“E con Tony come giustificavi il denaro che gli davi?”

“Gli dicevo che avevo uno zio ricco che mi voleva bene.”

“E dopo che Tony ti ebbe lasciato, Balestrieri continuò a darti il denaro?”

“Sì, ogni tanto, quando glielo chiedevo.”

“Ma quell’altro che venne dopo e di cui Balestrieri sospettava, a lui i soldi non glieli davi?”

“Quello non ne aveva bisogno. Era figlio di un industriale.”

“Anche quello ti lasciò?”

“No, fui io a lasciarlo perché non gli volevo più bene.”

“A chi volevi bene?”

“A te. Ricordi quando t’incontravo nel corridoio e ti guardavo? Beh, fu allora che lo lasciai.”

“Balestrieri si accorse mai che tu volevi bene a me?”

“No.”

“Hai mai parlato di me con Balestrieri?”

“Sì, una volta. Non ti poteva soffrire.”

“Che diceva di me?”

“Che eri un presuntuoso.”

“Un presuntuoso?”

“Sì, odiava la tua pittura. Diceva che non sapevi dipingere.”

Mi restò da questa conversazione, la convinzione che anche il tentativo di dimostrare a me stesso che Cecilia era venale, poteva ormai dirsi fallito: Cecilia non era venale; ossia la sua persona non poteva essere ridotta al solo tornaconto. Era chiaro, infatti, che Balestrieri aveva cercato di affermare la propria superiorità su Tony mantenendo quest’ultimo attraverso Cecilia, senza che il suonatore di saxofono se ne accorgesse; e che Cecilia, dal canto suo, si era prestata alla manovra psicologica di Balestrieri senza parteciparvi né comprenderla. Come con me, insomma, Cecilia, era riuscita, d’istinto, a tener separati i due mondi del denaro e dell’amore. Balestrieri ed io avremmo potuto certo affermare che le avevamo dato del denaro; ma lei, dal canto suo, avrebbe potuto sempre dimostrare che non era stata pagata. E la mia condotta con Cecilia tendeva sempre più ad assomigliare a quella di Balestrieri; con questa differenza, però, che il vecchio pittore era andato più in fondo di me. In compenso, la mia follia era maggiore della sua; perché lui non aveva avuto alcun predecessore a fargli da specchio, e così, si poteva quasi capire che non si fosse fermato. Io, invece, avevo lui ad avvertirmi ad ogni passo di quello che rischiavo, e ciononostante ripetevo i suoi stessi errori, e, anzi, quasi mi compiacevo di commetterli.