EPILOGO

Proprio di fronte alla finestra della mia stanza, nella clinica in cui ero stato trasportato dopo lo scontro, si alzava nel giardino un grande albero, un cedro del Libano, dai lunghi rami spioventi di un verde quasi azzurro. Presi a guardarlo per ore, la testa girata sul guanciale, stando supino sul letto; tutte le ore, in realtà, che non dedicavo al sonno e ai pasti, perché ero quasi sempre solo, avendo fatto sapere fin dal primo giorno a mia madre e ai miei pochi amici, che non desideravo visite. Guardavo l’albero e provavo un sentimento di disperazione totale, ma calma, e per così dire, stabilizzata, quale appunto si può provare dopo essere passati attraverso una crisi, che, pur non essendo risolutiva, si suppone tuttavia che sia il massimo che si possa affrontare. Quello che in mancanza di termini più appropriati dovevo chiamare il mio suicidio, non aveva risolto niente; ma averlo tentato, se non altro, mi faceva pensare che avevo fatto quanto era in mio potere; più di questo non avrei potuto fare. In altri termini, il fatto che avessi tentato di uccidermi confermava la serietà del mio impegno. Non ero morto ma, almeno, avevo dimostrato a me stesso che piuttosto che continuare a vivere come ero vissuto finora, avevo preferito la morte e l’avevo preferita sul serio. Tutto questo non mitigava il sentimento di disperazione che mi occupava l’animo; ma v’introduceva una certa quale serenità funebre e rassegnata. Ero stato davvero fino alle regioni oscure della morte; ne ero tornato; ormai, sia pure senza speranza, non mi restava che vivere.

Come ho già detto, passavo delle ore a guardare l’albero, con grande meraviglia delle suore e delle cameriere della clinica, le quali dicevano di non aver mai visto un malato più quieto di me. In realtà non ero quieto, ero soltanto fortemente occupato dalla sola cosa che in quel momento mi interessasse davvero: la contemplazione dell’albero. Non pensavo niente, mi domandavo soltanto quando e in che modo avevo riconosciuto la realtà dell’albero, ossia ne avevo riconosciuta l’esistenza come di un oggetto che era diverso da me, non aveva rapporti con me e tuttavia c’era e non poteva essere ignorato. Evidentemente qualche cosa era avvenuto proprio nel momento in cui mi ero lanciato con la macchina fuori della strada; qualche cosa che, in parole povere, si poteva definire come il crollo di un’ambizione insostenibile. Adesso contemplavo l’albero con un compiacimento inesauribile, come se il sentirlo diverso e autonomo da me, fosse stato ciò che mi faceva maggiore piacere. Ma capivo che il caso soltanto aveva voluto che, dopo il mio trasporto nella clinica, l’ingessatura che mi costringeva a giacere supino, mi avesse obbligato a guardare all’albero, attraverso i vetri della finestra. Qualsiasi altro oggetto, come mi rendevo conto, mi avrebbe ispirato lo stesso genere di contemplazione, lo stesso sentimento di inesauribile compiacimento.

E infatti, appena cominciai a pensare di nuovo a Cecilia, mi accorsi che mi avveniva lo stesso di quando guardavo, attraverso la finestra, all’albero. Erano trascorsi dieci giorni dallo scontro e Cecilia si trovava certamente ancora a Ponza con Luciani; presi, dunque, a pensare a lei, prima di rado e con precauzione, quindi più spesso e con maggiore fiducia. Mi accorsi, allora, che immaginavo benissimo, come se fossi stato presente, tutto ciò che lei stava facendo mentre io giacevo nel letto, alla clinica. Immaginare è dir poco, io la vedevo. Come in fondo ad un cannocchiale rovesciato, io vedevo le figure piccole e remote, ma nitide di Cecilia e dell’attore muoversi, correre, abbracciarsi, camminare, giacere insieme, scomparire e riapparire in cento atteggiamenti sullo sfondo del mare azzurro e del cielo sereno e luminoso. Sapevo per esperienza che felicità sia trovarsi con la persona che si ama e che ci ama, in un luogo bello e calmo, ero sicuro che Cecilia, pur nella sua maniera economica ed inespressiva, era felice, e mi stupivo di accorgermi che ne ero contento. Sì, ero contento che fosse felice, ma soprattutto ero contento che lei esistesse, laggiù nell’isola di Ponza, in una maniera che era la sua e che era diversa dalla mia e in contrasto con la mia, con un uomo che non ero io, lontana da me. Io ero qui nella clinica, mi ripetevo ogni tanto, e lei era laggiù a Ponza, con l’attore; e noi eravamo due e lei non aveva niente a che fare con me e io non avevo niente a che fare con lei, e lei era fuori di me, come io ero fuori di lei. E, insomma, io non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com’era, cioè contemplarla, allo stesso modo che contemplavo l’albero attraverso i vetri della finestra. Questa contemplazione non avrebbe mai avuto fine appunto perché io non desideravo che finisse, cioè non desideravo che l’albero, o Cecilia, o qualsiasi altro oggetto al di fuori di me, mi annoiasse e di conseguenza cessasse per me di esistere. In realtà, come mi accorsi improvvisamente, con un senso quasi di meraviglia, io avevo definitivamente rinunciato a Cecilia; e, strano a dirsi, proprio a partire da questa rinunzia, Cecilia aveva cominciato ad esistere per me.

Mi domandai se per caso, rinunziando a Cecilia, avessi anche cessato di amarla, di provare cioè per lei quel sentimento sempre illuso e sempre deluso che avevo provato finora e che, in mancanza di termini più appropriati, dovevo pure chiamare amore. Mi accorsi che quel genere di amore era morto; ma che l’amavo lo stesso, però di un amore nuovo e diverso. Quest’amore poteva o non poteva accompagnarsi con il rapporto fisico, ma non ne dipendeva e, in certo modo, non ne aveva bisogno. Quando Cecilia fosse tornata, avremmo ripreso i nostri rapporti di un tempo oppure non li avremmo ripresi; ma io, in tutti i casi, non avrei cessato di amarla.

A questo punto debbo riconoscere che le mie idee si imbrogliavano. Ricordavo che fin dal principio mi era sembrato che la mia relazione con Cecilia non differisse in alcun modo dal mio rapporto con la realtà; in altri termini che io, in fondo, avevo cessato di dipingere per gli stessi motivi per cui avevo tentato di uccidermi. Ma ora? Mi dissi, alla fine, che per il momento dovevo rimanere a letto più di un mese, e che era troppo presto per decidere quel che sia. Una volta guarito, sarei tornato allo studio e avrei provato a riprendere la pittura. Dico: avrei provato, perché non era affatto sicuro che quel nesso che avevo veduto per tanto tempo tra Cecilia e la pittura, ci fosse davvero; e che amare in modo nuovo Cecilia volesse dire ricominciare a dipingere. Anche qui soltanto l’esperienza avrebbe potuto dare una risposta.

Così, alla fine, il solo risultato veramente sicuro era che avevo imparato ad amare Cecilia, o meglio, ad amare senza più. Ossia speravo di avere imparato. Perché anche per questo aspetto della mia vita, il dubbio non era escluso. E io dovevo aspettare, per esserne del tutto sicuro, che Cecilia fosse tornata dalla sua gita al mare.