PROLOGO

Ricordo benissimo come fu che cessai di dipingere. Una sera, dopo essere stato otto ore di seguito nel mio studio, quando dipingendo per cinque, dieci minuti e quando gettandomi sul divano e restandoci disteso, con gli occhi al soffitto, una o due ore; tutto ad un tratto, come per un’ispirazione finalmente autentica dopo tanti fiacchi conati, schiacciai l’ultima sigaretta nel portacenere colmo di mozziconi spenti, spiccai un salto felino dalla poltrona nella quale mi ero accasciato, afferrai un coltellino radente di cui mi servivo qualche volta per raschiare i colori e, a colpi ripetuti, trinciai la tela che stavo dipingendo e non fui contento finché non l’ebbi ridotta a brandelli. Poi tolsi da un angolo una tela pulita della stessa grandezza, gettai via la tela lacerata e misi quella nuova sul cavalletto. Subito dopo, però, mi accorsi che tutta la mia energia, come dire? creatrice, si era completamente scaricata in quel furioso e, in fondo, razionale gesto di distruzione. Avevo lavorato a quella tela durante gli ultimi due mesi, senza tregua, con accanimento; lacerarla a colpi di coltello equivaleva, in fondo, ad averla compiuta, forse in maniera negativa quanto ai risultati esteriori che del resto mi interessavano poco, ma positivamente per quanto riguardava la mia ispirazione. Infatti: distruggere la tela voleva dire essere arrivato alla conclusione di un lungo discorso che tenevo con me stesso da chissà quanto tempo. Voleva dire aver messo finalmente il piede sul terreno solido. Così, la tela pulita che stava adesso sul cavalletto non era semplicemente una qualsiasi tela non ancora adoperata, bensì proprio quella particolare tela che avevo messo sul cavalletto al termine di un lungo travaglio. Insomma, come pensai cercando di consolarmi del senso di catastrofe che mi stringeva alla gola, a partire da quella tela, simile, apparentemente, a tante altre tele ma per me carica di significati e di risultati, adesso potevo ricominciare daccapo, liberamente; quasi che quei dieci anni di pittura non fossero passati ed io avessi ancora venticinque anni, come quando avevo lasciato la casa di mia madre ed ero andato a vivere nello studio di via Margutta, per dedicarmi appunto, a tutto mio agio, alla pittura. D’altra parte, però, poteva darsi, anzi era molto probabile che la tela pulita che adesso campeggiava sul cavalletto, stesse a significare uno sviluppo non meno intimo e necessario ma del tutto negativo, il quale, per trapassi insensibili, mi aveva portato all’impotenza completa. E che questa seconda ipotesi potesse essere quella vera, sembrava dimostrarlo il fatto che la noia aveva lentamente ma sicuramente accompagnato il mio lavoro durante gli ultimi sei mesi, fino a farlo cessare del tutto in quel pomeriggio in cui avevo lacerato la tela; un po’ come il deposito calcareo di certe sorgenti finisce per ostruire un tubo e far cessare completamente il flusso dell’acqua.

Penso che, a questo punto, sarà forse opportuno che io spenda qualche parola sulla noia, un sentimento di cui mi accadrà di parlare spesso in queste pagine. Dunque, per quanto io mi spinga indietro negli anni con la memoria, ricordo di aver sempre sofferto della noia. Ma bisogna intendersi su questa parola. Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lì i divani, più in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere.

Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, finché, cioè, sono in grado di rappresentarmi con convinzione il bicchiere, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia come un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.

Ho detto che mi sono annoiato sempre; aggiungo che soltanto in tempi abbastanza recenti sono riuscito a capire con sufficiente chiarezza che cosa sia realmente la noia. Durante l’infanzia e poi anche durante l’adolescenza e la prima giovinezza, ho sofferto della noia senza spiegarmela, come coloro che soffrono di continui mal di testa ma non si decidono mai a interrogare un medico. Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; un po’ come il malumore dei bimbi più piccoli viene attribuito allo spuntare dei denti. Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”; spiegando così, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro. Mia madre, allora, prendendo sul serio la mia affermazione, si chinava ad abbracciarmi e poi mi prometteva di portarmi al cinema quel pomeriggio stesso, ossia mi proponeva un divertimento che, come sapevo ormai benissimo, non era il contrario della noia né il suo rimedio. E io, pur fingendo di accogliere con gioia la proposta, non potevo fare a meno di provare quello stesso sentimento di noia, che mia madre pretendeva fugare, per le sue labbra che si posavano sulla mia fronte, per le sue braccia che mi circondavano le spalle, nonché per il cinema che lei mi faceva balenare come un miraggio davanti agli occhi. Anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, infatti, io non avevo alcun rapporto in quel momento. Ma come avrei potuto spiegare a mia madre che il sentimento di noia di cui soffrivo non poteva essere alleviato in alcun modo? Ho già notato che la noia consiste principalmente nell’incomunicabilità. Ora, non potendo comunicare con mia madre dalla quale ero separato come da qualsiasi altro oggetto, in certo modo ero costretto ad accettare il malinteso e a mentirle.

Sorvolo sui disastri della noia durante la mia adolescenza. Allora, la mia pessima prova a scuola, fu attribuita a delle cosiddette “debolezze”, ossia congenite incapacità in questa o quest’altra materia di insegnamento; e io stesso accettavo questa spiegazione in mancanza di un’altra più valida. Adesso so di certo, invece, che i cattivi voti che mi fioccavano addosso ad ogni fine d’anno scolastico, erano dovuti ad un solo motivo: la noia. In realtà io sentivo acutamente, con il solito profondo malessere, che non avevo alcun rapporto con tutta quell’immensa farragine di re ateniesi e di imperatori romani, di fiumi dell’America meridionale e di montagne dell’Asia, di endecasillabi di Dante e di esametri di Virgilio, di operazioni algebriche e di formule chimiche. Tutta questa sterminata quantità di nozioni non mi riguardava, o mi riguardava soltanto per constatarne l’assurdità fondamentale. Ma, come ho già detto, non mi vantavo né con me stesso né con gli altri di questo mio sentimento puramente negativo; mi dicevo, anzi, che non avrei dovuto provarlo e ne soffrivo. Già allora questa sofferenza, ricordo, mi ispirò il desiderio di definirla e di spiegarla. Ma ero un ragazzo, con tutta la pedanteria e l’ambiziosità dei ragazzi. Il risultato, così, fu un progetto di storia universale secondo la noia, di cui, però, scrissi soltanto le prime pagine. La storia universale secondo la noia era basata sopra un’idea molto semplice: non il progresso, né l’evoluzione biologica, né il fatto economico, né alcun altro dei motivi che di solito si adducono da parte degli storici delle varie scuole, era la molla della storia, bensì la noia. Assai infervorato per questa magnifica scoperta, presi le cose alla radice. In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden; Caino, annoiato d’Abele, lo uccise; Noè, annoiandosi veramente un po’ troppo, inventò il vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusse il mondo con il diluvio; ma questo, a sua volta, l’annoiò a tal punto che Iddio fece tornare il bel tempo. E così via. I grandi imperi egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il cristianesimo; la noia del cattolicesimo, il protestantesimo; la noia dell’Europa faceva scoprire l’America; la noia del feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del capitalismo, la rivoluzione russa. Tutte queste belle trovate furono annotate in una specie di specchietto; quindi, con grande zelo, cominciai a scrivere la storia vera e propria. Non ricordo bene, ma non credo di avere oltrepassato la descrizione molto particolareggiata della noia atroce di cui soffrirono Adamo ed Eva nell’Eden, e come, a causa appunto di questa noia, commettessero il peccato mortale. Quindi, annoiato a mia volta del progetto, lo lasciai lì.

In realtà, soffrii di noia tra i dieci e i vent’anni forse in misura maggiore che in tutte le altre età della mia vita. Sono nato nel 1920, la mia adolescenza passò, dunque, sotto l’insegna nera del fascismo, ossia di un regime politico che aveva eretto a sistema l’incomunicabilità così del dittatore con le masse come dei singoli cittadini fra di loro e con il dittatore. La noia, che è mancanza di rapporti con le cose, durante tutto il fascismo era nell’aria stessa che si respirava; a questa noia sociale, bisogna aggiungere la noia dell’ottusa urgenza sessuale che, come avviene a quell’età, m’impediva di comunicare con quelle stesse donne con le quali credevo di sfogarla. Ma la noia mi salvò dalla guerra civile che poco dopo ebbe a devastare l’Italia per due anni; e precisamente in questo modo: mi trovavo sotto le armi in una divisione di stanza a Roma; appena fu proclamato l’armistizio, mi disfeci della divisa e tornai a casa. Quindi fu promulgato un bando con l’ingiunzione a tutti i militari di rientrare nei ranghi, pena la morte. Mia madre, con caratteristico ossequio alle autorità che in quel momento erano quelle fasciste e tedesche, mi consigliò di rimettermi la divisa e presentarmi al comando. Lei voleva la mia salvezza; in realtà mi spingeva verso la deportazione e probabilmente la morte in un campo di concentramento nazista, come avvenne a molti miei compagni d’armi. Fu la noia, e soltanto la noia, ossia l’impossibilità di stabilire un rapporto qualsiasi tra me e quel bando, tra me e la divisa, tra me e i fascisti, la noia di cui avevo sofferto durante vent’anni e che adesso rendeva ai miei occhi del tutto inesistente il grande impero del fascio e della croce uncinata, che mi salvò. Nonostante le preghiere di mia madre, mi rifugiai in campagna, nella villa di un amico, e lì trascorsi tutto il periodo della guerra civile, dipingendo, una maniera come un’altra di passare il tempo. Fu allora che diventai pittore; ossia che sperai di poter ristabilire una volta per tutte il rapporto con la realtà per mezzo dell’espressione artistica. Anzi, addirittura, nel primo sollievo provocato dall’entusiasmo per la pittura, quasi mi convinsi che la mia noia finora non era stata che la noia di un artista che ignorava di essere tale. M’ingannavo; ma per qualche tempo mi illusi di avere trovato il rimedio.

Alla fine della guerra, tornai da mia madre che, nel frattempo, aveva acquistato una grande villa sulla via Appia. Avevo sperato, come ho già detto, che la pittura avesse definitivamente debellato la noia; ma mi accorsi quasi subito che non era così. Ripresi, dunque, a soffrire di noia nonostante la pittura; anzi, poiché la noia interrompeva automaticamente la pittura, mi resi conto della intensità e frequenza del mio vecchio male con maggiore precisione di quando non dipingevo. Così il problema della noia si ripresentava immutato; e io allora presi a domandarmi quali ne potessero essere i motivi, e per via di esclusione, arrivai a concludere che forse mi annoiavo perché ero ricco e che se fossi stato povero non mi sarei annoiato. Quest’idea non era così chiara nella mia mente, allora, come adesso sulla carta; più che di un’idea, si trattava del sospetto quasi ossessivo che vi fosse un nesso indubitabile benché oscuro tra la noia e il denaro. Non voglio dilungarmi troppo su questo periodo oltremodo sgradevole della mia vita. Poiché mi annoiavo, e quando mi annoiavo non dipingevo, cominciai a odiare con tutta l’anima la villa di mia madre e gli agi di cui ci godevo; attribuivo alla villa la mia noia e la conseguente impossibilità di dipingere e anelavo ad andarmene. Ma poiché si trattava, come ho già detto, di un sospetto, non riuscivo a dire chiaramente a mia madre la sola cosa che avrei dovuto dirle: non voglio vivere con te perché sei ricca, e la ricchezza mi annoia e la noia m’impedisce di dipingere. Cercavo, invece, d’istinto, di rendermi insopportabile, in modo da suggerire e in certo modo imporre la mia partenza dalla villa. Ricordo quei giorni come giorni di eterno malumore, di pervicace ostilità, di ostinato rifiuto, di quasi morbosa antipatia. Non ho mai trattato mia madre peggio che in quel periodo; e così, alla noia che mi opprimeva, si aggiungeva, oltre tutto, la pietà per lei che non riusciva a spiegarsi la mia sgarberia. Ma soprattutto soffrivo di una specie di paralisi di tutte le mie facoltà, per cui, muto, apatico e ottuso, mi pareva di essere murato vivo dentro me stesso, come dentro una prigione ermetica e soffocante.

Il soggiorno nella villa e il mio conseguente stato d’animo si sarebbero probabilmente prolungati molto di più se, per fortuna, mia madre non avesse creduto di riconoscere nella mia noia il sentimento analogo che aveva rovinato i suoi rapporti con mio padre. Così è giunto il momento di parlare anche di lui, sia pure di sfuggita, se non altro perché mi aveva preceduto sul cammino della noia.

Mio padre, dunque, era un vagabondo nato, a quanto ho potuto ricostruire, ossia uno di quegli uomini che, a casa, pian piano, ammutoliscono, perdono l’appetito e, insomma, si rifiutano di vivere, un po’ come certi uccelli che non tollerano di esser chiusi in gabbia; e che, invece, una volta sul ponte di una nave o nello scompartimento di un treno, riacquistano tutta la loro vitalità. Era alto, atletico, biondo e con gli occhi azzurri, come me; ma io non sono bello essendo precocemente calvo, con un volto per lo più fosco e grigio; lui, invece, sì, almeno a credere ai vanti di mia madre che aveva voluto sposarlo per forza, nonostante che lui le ripetesse tutto il tempo che non l’amava e che l’avrebbe lasciata al più presto. L’avevo visto poche volte, perché viaggiava sempre, e l’ultima volta che lo vidi i suoi capelli biondi erano quasi grigi e il suo viso di adolescente tutto tagliuzzato da rughe sottili e profonde; ma portava ancora le spensierate cravatte a farfalla e i vestiti a scacchi della sua gioventù. Andava e veniva, ossia fuggiva da mia madre con cui si annoiava e poi tornava da lei probabilmente a rifornirsi di denaro per una nuova fuga, perché non aveva un soldo, sebbene, in teoria, si occupasse di “importazioni e esportazioni”. Alla fine non tornò più. Una raffica di vento, nel mare interno del Giappone, capovolse un ferry-boat con un centinaio di passeggeri e mio padre annegò con loro. Che cosa facesse nel Giappone, se vi si trovasse per le “importazioni e esportazioni” o per altro motivo, non ho mai saputo. Secondo mia madre, che amava le definizioni scientifiche o che sembrassero tali, mio padre aveva la “dromomania”, ossia la mania del movimento. A questa mania, forse, ella commentava pensosamente, si doveva la sua passione per i francobolli, piccoli documenti colorati della varietà e vastità del mondo, di cui aveva accumulato una bella collezione che lei tuttora conservava, nonché la sua bravura in geografia, la sola materia che a scuola avesse veramente studiato. Come mi sembra di aver fatto capire, mia madre considerava la “dromomania” di mio padre come un carattere puramente individuale, e però, in fondo, insignificante; io, invece, non potevo fare a meno di provare una specie di fraterna pietà per quella figura patetica e sbiadita, sempre più sbiadita a misura che il tempo passava, nella quale mi pareva di ravvisare, almeno per quanto riguardava i suoi rapporti con mia madre, alcuni tratti in comune con me. Ma erano tratti esteriori, come mi rendevo conto, poi, riflettendoci: mio padre, è vero, aveva anche lui sofferto di noia; ma in lui questa sofferenza si era risolta in un vagabondaggio felice attraverso i paesi; la sua noia, in altri termini, era la noia volgare, come la si intende normalmente, che non chiedeva di meglio che essere alleviata da sensazioni nuove e rare. E infatti mio padre aveva creduto nel mondo, almeno quello della geografia; mentre io non riuscivo a credere neppure in un bicchiere.

Comunque, mia madre non andò tanto per il sottile e credette di riconoscere senz’altro, nella mia noia, il tedio superficiale che aveva già reso difficili i suoi rapporti con il marito: “Purtroppo tu hai preso più da tuo padre che da me,” mi disse alla fine, un giorno, in maniera sbrigativa. “Io so che, quando vi prende, l’unico rimedio è mandarvi via. Dunque parti, va’ dove ti pare, e quando ti è passata, ritorna.”

Risposi subito, con sollievo, che non era mia intenzione partire: viaggiare non mi interessava affatto. Desideravo soltanto andarmene di casa, mettermi per conto mio. Mia madre obiettò che era assurdo che io andassi a vivere per conto mio quando potevo disporre di una grande villa come quella in cui abitavamo, dove, per giunta, facevo quello che volevo. Ma io, ormai deciso ad approfittare dell’occasione, risposi con violenza che me ne sarei andato via il giorno dopo, non un’ora di più. Così mia madre capì che facevo sul serio. Si limitò allora a ripetere con esperta amarezza che riconosceva nella mia risposta perfino il tono della voce di mio padre: facessi dunque quello che più mi piaceva, andassi pure ad abitare dove volevo.

Restava la questione del denaro. Eravamo ricchi, come ho già detto, e fino allora io avevo disposto di un credito, per così dire, illimitato: attingevo dal conto in banca di mia madre ogni volta che ne avevo bisogno. Ma mia madre che prevedeva di dover ripetere con me l’esperienza già fatta col marito, al quale aveva sempre dato abbastanza denaro per fuggire ma mai abbastanza per restar lontano da lei, mi avvertì seccamente che d’ora in poi mi avrebbe corrisposto un mensile. Le risposi che non chiedevo di meglio; e quando lei mi annunziò, quasi con una specie di indispettito rimorso, la somma che aveva intenzione di assegnarmi, l’avvertii subito che mi sarei contentato della metà. Mia madre che si era preparata ad una discussione del genere di quelle che aveva un tempo sostenuto con mio padre, al quale il denaro non bastava mai, fu molto meravigliata di questo mio imprevisto disinteresse. “Ma con così poco non potrai vivere, Dino,” esclamò quasi involontariamente. Risposi che era affar mio; e per non darmi delle arie di asceta, aggiunsi che speravo comunque di riuscire molto presto a guadagnarmi da vivere con la pittura. Mi parve che mia madre mi guardasse con incredulità; come sapevo, non credeva alle mie capacità artistiche. Pochi giorni dopo trovai uno studio a via Margutta e mi trasferii là con la mia roba.

Naturalmente, il mutamento di domicilio non portò alcuna modificazione al mio stato d’animo. Voglio dire che, svanito il primo sollievo proprio a qualsiasi mutamento, ripresi ad annoiarmi ad intervalli come in passato. Ho detto “naturalmente”; e questo perché avrei dovuto prevedere che la noia non sarebbe scomparsa per un semplice cambiamento di casa: se non altro io ero ricco non perché abitassi nella via Appia, ma perché disponevo di una certa quantità di denaro. Che io, poi, non volessi farne uso, non importava in fondo gran che; anche certi ricchi che sono avari spendono una piccolissima parte delle loro rendite e vivono poveramente; nessuno penserebbe per questo di considerarli poveri. Così, alla prima idea, o meglio alla prima ossessione che la mia noia e la conseguente sterilità nell’arte fossero dovute al fatto che abitavo con mia madre, venne pian piano sostituendosi una seconda e più grave ossessione: non si poteva rinunziare alla propria ricchezza; essere ricchi era come avere gli occhi azzurri o il naso aquilino; una sottile determinazione legava il ricco al denaro, e dava il colore del denaro perfino alla sua decisione di non farne uso. Insomma, io non ero un povero che era stato ricco, ero soltanto un ricco che fingeva, con se stesso e con gli altri, di essere povero.

Che questo fosse vero, me lo dimostravo, poi, nel modo seguente: “Che fa un povero vero, se non ha soldi? Muore di fame. Che farei io in un caso simile? Andrei a chiedere aiuto a mia madre. E se anche non lo chiedessi, non per questo sarei considerato povero; sarei, invece, soltanto considerato pazzo.” Ma, come pensavo subito dopo, il mio non era un caso estremo. Era un caso medio, tanto è vero che accettavo di essere mantenuto da mia madre, sia pure limitando il mantenimento allo stretto necessario. Così, nei confronti dei poveri veri, io venivo a trovarmi nella situazione privilegiata e sleale del giocatore ricco nei confronti del giocatore povero: il primo può perdere illimitatamente, il secondo no. Ma, soprattutto, il primo può, appunto, “giocare” ossia divertirsi; mentre il secondo non può che cercare di vincere.

È difficile dire quel che provassi quando pensavo queste cose. Come un senso di stregoneria meschina contro la quale non potevo far niente, perché non potevo sapere quando né come né dove fosse stata praticata la magia che mi irretiva. Qualche volta pensavo al detto evangelico: È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno di Dio; e mi domandavo che cosa volesse dire essere ricco. Si era ricchi perché si disponeva di molto denaro? O perché si era nati in una famiglia ricca? O perché si era vissuti e tuttora si viveva in una società che metteva la ricchezza al di sopra di qualsiasi altro bene? O perché si credeva alla ricchezza, desiderando diventar ricchi o rimpiangendo di esserlo stato? O perché, come era il mio caso, non si voleva esser ricchi? Più ci pensavo e più mi pareva difficile precisare a me stesso il senso di determinazione e di predestinazione che mi ispirava la ricchezza. S’intende che questo sentimento non ci sarebbe stato, se fossi riuscito a liberarmi della mia originaria ossessione che la noia dipendeva dalla ricchezza, e la sterilità dell’arte dalla noia. Ma tutte le nostre riflessioni, anche le più razionali, sono originate da un dato oscuro del sentimento. E dei sentimenti non è così facile liberarsi come delle idee: queste vanno e vengono, ma i sentimenti rimangono.

Si obietterà, a questo punto, che, in fin dei conti, non ero che un pittore fallito il quale, caso forse insolito, era consapevole del proprio fallimento: ecco tutto. Giusto; ma fino ad un certo segno. Io ero certamente fallito, ma non già perché non sapessi dipingere dei quadri che piacevano agli altri; bensì perché sentivo che i miei quadri non mi consentivano di esprimermi, ossia di illudermi di avere un rapporto con le cose, cioè, in una parola sola, non mi impedivano di annoiarmi. Ora, in fondo, io avevo cominciato a dipingere proprio per sfuggire alla noia. Se continuavo ad annoiarmi, perché allora dipingere?

Andai via, se ben ricordo, dalla villa di mia madre nel marzo del 1947; poco più di dieci anni dopo presi a coltellate, come ho raccontato, il mio ultimo quadro, e decisi di non dipingere più. Subito, la noia, che l’esercizio della pittura aveva fino allora in certo modo tenuto a bada, mi riassalì con violenza inaudita. Ho già notato come la noia fosse in fondo mancanza di rapporti con le cose; in quei giorni, oltre che con le cose, mi parve che fosse anche mancanza di rapporti con me stesso. So che sono cose difficili a spiegarsi; mi limiterò ad alludervi con una metafora: durante le giornate che seguirono la mia decisione di abbandonare la pittura, io fui per me stesso qualche cosa di molto simile ad un individuo per varie ragioni insopportabile, che un viaggiatore trovi nel suo scompartimento all’inizio di un lungo viaggio. Lo scompartimento è di quelli all’antica, senza comunicazioni con gli altri scompartimenti; il treno non si fermerà che alla fine del viaggio; il viaggiatore è dunque costretto a stare con l’odioso compagno fino alla fine del percorso. In realtà e fuori di metafora, la noia, durante quegli anni, pur sotto la superficie del mio mestiere di pittore, aveva corroso a fondo la mia vita, non lasciandovi niente in piedi; così che, una volta abbandonata la pittura, io sentii che, senza accorgermene, mi ero trasformato in una specie di rottame o moncone informe. Ora, come ho detto, l’aspetto principale della noia era l’impossibilità pratica di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d’altra parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo.

Dunque, in quei giorni, una impazienza, straordinaria dominava la mia vita. Niente di quello che facevo mi piaceva ossia mi sembrava degno di essere fatto; d’altra parte, non sapevo immaginare niente che potesse piacermi, ossia che potesse occuparmi in maniera durevole. Non facevo che entrare e uscire dallo studio per qualsiasi futile pretesto che davo a me stesso, appunto, per non restarci: comprare sigarette di cui non avevo bisogno, prendere un caffè di cui non avevo voglia, acquistare un giornale che non mi interessava, visitare una mostra di pittura per la quale non provavo la minima curiosità, e così via. Sentivo, d’altra parte, che queste occupazioni non erano che smaniosi travestimenti della noia, così bene che talvolta non andavo fino in fondo alle cose che intraprendevo, e invece di comprare il giornale o sorbire il caffè o visitare la mostra, fatti pochi passi, me ne tornavo allo studio dal quale ero uscito qualche minuto prima con tanta fretta. Ma nello studio, naturalmente, la noia mi aspettava e tutto ricominciava.

Prendevo un libro, avevo una piccola biblioteca, sono sempre stato un buon lettore; ma ben presto lo lasciavo cadere: romanzi, saggi, poesia, teatro, tutta la letteratura del mondo, non c’era una sola pagina che riuscisse a trattenere la mia attenzione. E d’altronde, perché avrebbe dovuto farlo? Le parole sono simboli di oggetti, e con gli oggetti, come ho già detto, nei momenti di noia, io non avevo rapporti. Lasciavo dunque cadere il libro, oppure in un impulso di furore lo scagliavo in un angolo e ricorrevo alla musica. Avevo un ottimo giradischi, dono di mia madre, nonché un centinaio di dischi. Ma chi mai disse che la musica agisce in qualsiasi modo, cioè si fa ascoltare, per così dire, per forza, anche dalla persona più distratta? Colui che disse una cosa simile disse una cosa inesatta. In realtà le mie orecchie rifiutavano non soltanto di ascoltare ma anche di udire. E poi, sul punto di scegliere il disco, questo pensiero mi paralizzava: qual è la musica che può essere ascoltata nei momenti di noia? Così, chiudevo il giradischi, mi gettavo sul divano e cominciavo a pensare a quello che avrei potuto fare.

Ciò che mi colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa. Qualsiasi cosa volessi fare mi si presentava accoppiata come un fratello siamese al suo fratello, al suo contrario che, parimenti, non volevo fare. Dunque, io sentivo che non volevo vedere gente ma neppure rimanere solo; che non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non dipingere; che non volevo stare sveglio ma neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non farlo; e così via. Dico sentivo, ma dovrei dire piuttosto che provavo ripugnanza, ribrezzo, orrore.

Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole, visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire, Così, le alternative accoppiate che, come in un funesto balletto, mi sfilavano nella mente, non si fermavano neppure di fronte alla scelta estrema fra la vita e la morte. In realtà, come pensavo qualche volta, io non volevo tanto morire quanto non continuare a vivere in questo modo.