Dal diario del Duca di Lovingdon
La mattina del 2 febbraio 1872 io, Henry Sidney Stanford, settimo Duca di Lovingdon, Marchese di Ashleigh e Conte di Wyndmere, smisi di vivere.
Non che qualcuno si fosse accorto della mia dipartita, tranne me stesso.
Continuai infatti a respirare e ad andare in giro. Di tanto in tanto parlavo. Sorridevo di rado e non ridevo mai.
Poiché quella mattina, quella mattina orribile, mi furono strappati via il cuore e l'anima quando mia moglie e la mia adorata figlia morirono di tifo a poche ore di distanza l'una dall'altra; e io abbandonai questo mondo insieme a loro.
Tuttavia, dopo un certo tempo, rinacqui in una forma che la mia stessa madre stentava a riconoscere.
Per tutta la vita mi ero comportato nel modo più corretto. Non avevo mai frequentato case da gioco né bevuto fino a barcollare per l'ebbrezza. Mi ero innamorato a diciannove anni e sposato a ventuno. Facevo le cose giuste. Non ero andato a letto con mia moglie prima del matrimonio e, la notte delle nozze, non era stata soltanto lei a perdere la verginità tra le lenzuola.
Ero irreprensibile. Non avrei potuto essere più bravo e onorevole.
Sin da piccolo mi era stata inculcata la certezza che si veniva ripagati in base alle proprie azioni. Tuttavia il fato aveva cospirato per punirmi, per portarmi via i beni più preziosi, e io non accettavo una simile ingiustizia.
E quindi mandai al diavolo tutto quanto. Mi sarei dato alla pazza gioia, come non avevo fatto in gioventù. Avrei giocato d'azzardo, tracannato alcolici, frequentato innumerevoli donne.
Tuttavia sapevo, in fondo al mio cuore nero, che non avrei mai più amato. Che nessuno mi avrebbe mai convinto a tenere ad alcunché, oltre al piacere.