AVVERTENZA

Il periodo che abbraccia questa Italia dei Comuni è quello compreso fra il 1000 e il 1250: un periodo molto più breve di quello incluso nel volume precedente, che va dalla caduta dell’Impero romano (476) al Mille. Ma il rallentamento della marcia ci è imposto dalle circostanze.

Anzitutto è in questi due secoli e mezzo che si decide il destino dell’Italia e si consuma il suo aborto come Stato nazionale. Abbiamo quindi sentito il bisogno di approfondire quanto più si poteva gli avvenimenti che condussero a questa fatale svolta. Eppoi la situazione si è fatta molto più complessa. L’Italia dei secoli bui era un oggetto, non un soggetto, di storia. Un invasore ne scacciava l’altro rimpiazzandone le effimere strutture con strutture altrettanto effimere. Solo il Papa acquista faticosamente una parte di protagonista, ma come condottiero di una Chiesa universale, non di un potere nazionale.

Col nuovo millennio invece un protagonista italiano nasce: il Comune. Ma questo Comune non è uguale e non si forma dappertutto nello stesso modo, anzi segue le vicende più diverse e assume le fisionomie più contraddittorie.

Noi non abbiamo preteso di rintracciarle tutte: avremmo ridotto questo libro a un’antologia di disarticolate cronache. Abbiamo cercato di ricostruirle secondo i nessi essenziali. Ma anche semplificando al massimo ci siamo trovati di fronte a una tale mole di avvenimenti, a una tale varietà di personaggi e a una tale ricchezza di informazioni da indurci a una limitazione del periodo, che a qualcuno sembrerà arbitraria. Ma poco importa, almeno per noi che non seguiamo nessuna classificazione scolastica di Evi, e che consideriamo questi volumi come altrettante «puntate» di un unico libro.

A L’Italia dei Comuni seguirà infatti L’Italia dei secoli d’oro, che comprenderà il Tre e il Quattrocento fino alla scoperta dell’America. Più che una promessa, è un impegno, cui c’induce la fedeltà dei nostri lettori. Essi si sono affezionati alla nostra Storia molto al di là delle nostre stesse speranze. Noi pensavamo che ci fossero nel nostro Paese alcune migliaia di persone desiderose di leggere una storia d’Italia, dalle origini a oggi, che non sia scritta da professori per professori o per allievi avviati a diventare professori.

I nostri calcoli erano sbagliati. Di queste persone ce ne sono non migliaia, ma centinaia di migliaia. E ciò dimostra la fondatezza dell’accusa che noi rivolgiamo alla nostra storiografia accademica. Essa annovera opere magistrali, come quelle, per restare al Medio Evo, di Gioacchino Volpe e di Pepe. Ma di solito presuppongono la conoscenza dei fatti perché si dimenticano di raccontarli, e trascurano i personaggi perché ritengono che i veri protagonisti della Storia non siano essi, ma le idee.

Noi riteniamo il contrario: cioè che i fatti vadano raccontati, perché nessuno è obbligato a saperli o a ricordarli, e che i loro protagonisti siano soprattutto gli uomini, i loro caratteri, le loro passioni, i loro interessi. Il «segreto» del nostro successo è tutto qui.

Questo successo, lo sappiamo, indigna parecchia gente: quella interessata al mantenimento del monopolio. Essa ci accusa di superficialità e faciloneria, ma non è mai riuscita a indicare, nei nostri libri, una inesattezza. Dobbiamo dire che alcuni degli stessi insegnanti specie di scuole medie, più spregiudicati e leali, ce ne hanno dato atto. E noi li ringraziamo perché si tratta, in un ambiente bigotto come quello nostro accademico, di un gesto di coraggio che può esporli a spiacevoli rappresaglie. Quanto agli studenti, ne conosciamo qualcuno che, avendo preparato l’esame di Storia sui nostri testi e avendolo detto, è stato bocciato. Ma ne conosciamo molti di più che, avendo preparato l’esame di Storia sui nostri testi, ma senza dirlo, sono stati brillantemente promossi.

Confessiamo che l’idea di essere gli «amici proibiti» di questi ragazzi, oltre a darci la misura della nostra riuscita, ci riempie di una specie di perfida soddisfazione e ci fa sentire quasi loro coetanei.

I.M.

Ottobre 1966