CAPITOLO TERZO

IL «PRIMO ITALIANO»

Proprio allo scadere del Mille, era sembrato che nel dialogo fra Papato e Impero dovesse inserirsi un terzo interlocutore: il Regno d’Italia.

Un Regno d’Italia esisteva, ma solo come titolo. Lo assumevano gl’Imperatori di Germania, quando andavano a farsi consacrare a Roma; o lo delegavano a persone di loro fiducia. Da Ottone I il Grande essi avevano preso l’abitudine di fermarsi a Pavia, dove il Vescovo gli metteva sulla testa la corona che avevano portato Teodorico e i suoi successori longobardi. Era un pesante e rozzo monile di ferro che si diceva costruito coi chiodi della croce di Gesù. Ma di quali poteri fosse simbolo non fu mai chiaro anche perché variavano secondo le persone e le circostanze. Quando l’Imperatore era autorevole e scortato da un forte seguito, i Signori della Penisola accorrevano a rendergli omaggio, e la cerimonia era solenne. Ma tutto finiva lì. Ripartito l’Imperatore per Roma, o rientrato in Germania, della sua presenza non restava traccia. Ogni Duca, Marchese o Conte restava sovrano assoluto del proprio feudo. E le cose non cambiarono nemmeno sullo scorcio del Novecento, quando a Pavia si insediò stabilmente Adelaide, la vedova di Ottone. Essa esercitò un certo ascendente morale sui Signori italiani. Ma solo grazie alle sue qualità di carattere. Istituzionalmente, non rappresentava nulla.

Questo Regno d’Italia non era nemmeno una espressione geografica perché anche i suoi confini erano incerti. Pressappoco andavano dalle Alpi alla Ciociaria. Di lì in giù non lo riconosceva nessuno: non i Saraceni, ormai padroni della Sicilia; non i Bizantini che tuttora occupavano le Puglie e molte città delle coste calabresi e campane; non il vecchio Ducato longobardo di Benevento, che al Re d’Italia e Imperatore di Germania rendeva omaggio e faceva appello quando aveva bisogno del suo aiuto; ma poi, passato il pericolo, riaffermava la propria completa autonomia. Gli stessi Stati della Chiesa si trovavano col Re Imperatore in un rapporto che non venne mai definito e che ognuna delle due parti interpretava a modo suo. L’Imperatore considerava il Papa, per le cose temporali, un suo vassallo. Il Papa considerava se stesso sovrano assoluto. Quanto alle masse italiane, esse non avevano voce. Ma se ne avessero avuta, non l’avrebbero certo usata per articolare la parola «patria». La patria per loro era il villaggio, se non addirittura il casolare. E il sovrano era il Conte o Marchese che vi esercitava il potere effettivo: la riscossione delle tasse, l’amministrazione della giustizia eccetera. Il concetto di patria si sviluppò più tardi, e non doveva mai superare, come nell’antica Grecia, le mura della città.

Gl’Italiani dell’Anno Mille dovettero quindi accogliere con un certo stupore la notizia che a Pavia era nato un Regno d’Italia con un Re italiano che non s’identificava più con l’Imperatore tedesco, né era da lui delegato.

Un Imperatore tedesco in quel momento non c’era. Ottone III era morto senza eredi. E solo dopo un bel pezzo i grandi feudatari della Germania riuscirono a mettersi d’accordo sulla persona del successore: Enrico II, ultimo della dinastia di Sassonia. Fu appunto in questo intervallo che un signorotto piemontese si collocò sulla testa, senza chiederne il permesso a nessuno, la corona di Re d’Italia e pretese darle un significato d’indipendenza.

Questo «primo italiano», come poi lo chiamarono alcuni storici malati di nazionalismo, era Arduino d’Ivrea, e d’italiano non aveva nemmeno il sangue: apparteneva a una dinastia tedesca calata in Italia forse coi longobardi, forse coi franchi, e impiantatavisi da padrona per diritto di conquista. Arduino aveva ereditato dai suoi guerrieri antenati il coraggio, la rozzezza, la prepotenza e l’ambizione. Nella lotta per il potere sul suo Marchesato, aveva dovuto vedersela col Vescovo di Vercelli. Lo ammazzò, ne bruciò il corpo, ne distrusse la cattedrale e ne incamerò le terre, che gli erano state donate da Adelaide.

Ottone III, ancora vivo in quel momento, lo ammonì. Papa Silvestro II lo minacciò di scomunica. Ma Arduino non si lasciò intimidire né dall’uno né dall’altro. Spogliò dei suoi possedimenti anche il Vescovo d’Ivrea. E quando quello di Brescia si rifiutò di rendergli omaggio, lo prese per i capelli, lo sbatté a terra e lo riempì di calci. Questi erano i costumi e gli umori del tempo anche nel mondo dei grandi Signori.

Arduino non era affatto un patriota e non pensava minimamente all’Italia, quando se ne fece audacemente acclamare Re da un’assemblea di feudatari piemontesi. Era soltanto un arrivista che badava a innalzare il proprio rango. Però non gli mancavano né l’audacia né l’accortezza. Per trovare proseliti, aizzò i piccoli vassalli contro i grandi feudatari, il basso Clero contro quello alto e i sentimenti xenofobi del popolino contro i tedeschi. In parte ci riuscì. Quella lotta su due fronti, contro i Vescovi da una parte e la nobiltà imperiale dall’altra, gli valse parecchie simpatie nel piccolo ceto medio di città e di campagna. Nel 1003 batté un contingente tedesco mandato da Enrico II a saggiare il terreno, e lo costrinse a ripassare le Alpi. Ma quando l’Imperatore calò di persona alla testa di un forte esercito, Arduino si trovò solo.

Enrico venne a riprendersi la corona a Pavia nel 1004. Però, una volta in città, le sue truppe furono assalite dalla popolazione e costrette a ritirarsi. Rientrarono in forze il giorno dopo, saccheggiarono, incendiarono e uccisero. Arduino, arroccatosi nel suo castellaccio sopra Ivrea, non rinunciò al suo titolo né alle sue pretese. Partito Enrico, tornò a Pavia e seminò il terrore con le sue spedizioni punitive contro Vercelli, Novara, Como. Solo la vecchiaia e gli acciacchi vennero a capo della sua ostinazione. Stanco e malato, l’irriducibile mangiapreti bussò alla porta dell’abbazia di Fruttuaria che lo accolse caritatevolmente. Morì nel 1015, senza neanche lontanamente immaginare quale mito avrebbe fatto di lui la storiografia nazionalista.

La sua avventura getta un po’ di luce sulla situazione italiana di quel periodo. Ma il panorama è estremamente complesso e confuso. Varia non da regione a regione, ma da chilometro a chilometro. E chiunque abbia tentato di ricostruirne le cosiddette «costanti», cioè i caratteri comuni a tutta la Penisola, è caduto nel generico e nell’astratto. È la sorte che aspetta anche noi. Ma lo sappiamo, e ne mettiamo in guardia il lettore. Quello che stiamo per fornire non è che un sommario grossolano abbozzo. Va preso con beneficio d’inventario. Cercheremo di ricostruirlo come dovette presentarsi agli occhi di Enrico II e del suo successore che, dopo essere calati in Italia, forse non ne seppero né ne capirono più di quanto ne sappiamo e ne capiamo noi a distanza di tanti secoli.

Enrico II era un Imperatore pio e sinceramente devoto. Riuscì a restarlo anche dopo aver visto di persona a cosa si era ridotta la Chiesa di Roma, dov’era venuto a farsi consacrare nel 1013. Il Papa che lo aveva coronato era quel Benedetto VIII della famiglia Crescenzi che esercitava una vera e propria satrapìa sull’Urbe e s’intendeva molto più di guerra e di rapine che di anime e di preghiere. Tuttavia Enrico rientrò in Germania abbastanza fiducioso. Lungo tutti gli itinerari della Penisola, Duchi, Marchesi, Conti e Vescovi erano venuti a rendergli omaggio. E l’unico che gli si era opposto, Arduino, era stato completamente debellato. L’autoritario e manesco Benedetto non gli era parso un Papa molto cristiano, ma in compenso si dimostrava buon Generale. E lì soprattutto di un Generale c’era bisogno, perché da Roma in giù era il caos.

I pirati saraceni non stavano tranquilli. Ogni poco le loro flotte partivano all’assalto delle coste calabre e campane, a volte spingendosi fin nel Lazio e a Pisa. Nel Sud non c’erano potentati locali che potessero rintuzzarle. Un pezzo di Puglia, la Terra d’Otranto e parte della Calabria erano tuttora presidiate da guarnigioni bizantine, ma fatiscenti. Le popolazioni sopportavano male il puntiglioso fiscalismo dei loro funzionari e non stimavano i loro soldati che un pugno di Saraceni spesso bastava a volgere in fuga.

Per mettere ordine in questa confusione, cioè per profittarne, Enrico scese laggiù con un esercito di cinquantamila uomini, più che sufficienti ad accendere nei cuori dei feudatari italiani il sentimento della fedeltà all’Impero. Tutti infatti gli s’inchinarono e gli resero omaggio: anche i Duchi di Benevento, che sempre lo avevano rifiutato agl’Imperatori.

Enrico mosse contro i Bizantini per sloggiarli definitivamente dalla Penisola e unificarla sotto il suo scettro. Mise assedio a Troia in Capitanata, dove il grosso delle loro forze si era asserragliato, e l’espugnò dopo tre mesi. La popolazione evitò il castigo accogliendo il vincitore con un coro di bambini che intonavano il Kyrie eleison, e si vendicò di lui col colera.

Alla testa della sua truppa falcidiata, Enrico prese la via del ritorno lasciando a mezzo l’impresa. Fu un viaggio disastroso. I suoi uomini cadevano per strada. Egli stesso era afflitto dai calcoli renali che gli procuravano terribili coliche. Fece appena in tempo ad arrivare a Gottinga, dove morì. Era stato un curioso miscuglio di pietà, di castità e di ferocia. Aveva ucciso con lo stesso zelo con cui aveva pregato. La Chiesa dimenticò gli assassinî, ricordò le preghiere, e una ventina d’anni dopo lo canonizzò.

Appena la notizia della sua scomparsa giunse in Italia, Pavia si ribellò alla piccola guarnigione imperiale che c’era rimasta, e la folla assaltò il palazzo reale, convinta di trovarci chissà chi o chissà cosa. Non c’era nulla e nessuno. Gli insorti se la ripresero con l’edificio appiccandovi il fuoco e radendolo al suolo. Commisero un delitto perché si trattava dello storico palazzo di Teodorico. Ma il gesto era significativo. Dimostrava l’insofferenza delle popolazioni italiane verso ogni vassallaggio all’Impero tedesco, e nello stesso tempo la fragilità di questo giogo. Ma forse le popolazioni si ribellavano appunto perché il giogo era fragile.

L’esempio di Pavia comunque non era affatto indicativo dello stato d’animo nazionale, perché proprio mentre il palazzo di Teodorico si consumava tra le fiamme, una delegazione milanese si recava in Germania per offrire al successore di Enrico la corona d’Italia e invitarlo a scendervi. Il successore era Corrado II il Salico, che inaugurava una nuova dinastia: quella di Franconia. E il capo della delegazione milanese era l’arcivescovo Ariberto, un prelato in tono coi suoi tempi: ambizioso, autoritario e più esperto di armi che di preghiere.

Corrado scese in Italia nel 1026, e vi trovò le accoglienze più contraddittorie. Pavia gli chiuse le porte, ed egli dovette lasciarvi mezzo esercito per assediarla. Milano invece lo accolse con grandi feste e reclamò l’onore di coronarlo in Sant’Ambrogio. A Ravenna dove fece sosta, i popolani aggredirono i soldati tedeschi, e lo stesso Imperatore dovette intervenire di persona per sedare il tumulto. A Roma, lo attendevano pompose cerimonie protocollari da parte di papa Giovanni XIX che lo incoronò, e l’ostilità del popolino che attaccò i suoi soldati ammazzandone a grappoli. La rappresaglia fu sanguinosa. Molti Romani furono decapitati e gettati nel Tevere. I sopravvissuti, per penitenza, dovettero sfilare a piedi nudi e con una corda al collo davanti a Corrado chiedendogli mercé.

Ma quanto poco il sentimento nazionale entrasse in questi episodi di ribellione, lo dimostra quello del famoso Carroccio, che la retorica patriottica ha completamente svisato.

L’arcivescovo Ariberto, lo abbiamo visto, era stato il più zelante sostenitore di Corrado e della causa imperiale tedesca. Non contento di averlo sollecitato a scendere in Italia, era tornato in Germania alla testa di un piccolo esercito lombardo per sostenerlo nella lotta contro un feudatario riottoso. Anzi, si era distinto sul campo di battaglia guadagnandosi gli elogi dei cronisti di lassù. Quando Corrado venne in Italia per la seconda volta, trovò Ariberto in guerra coi ceti medi che si erano ribellati al suo totalitarismo e reclamavano riforme sociali. Essi erano usciti dalla città, avevano formato la lega della Motta, e Ariberto n’era venuto a capo solo dopo una sanguinosa battaglia.

Corrado indisse una Dieta a Pavia per ascoltare i rappresentanti dell’una e dell’altra parte. Dal dibattito capì che avevano ragione gl’insorti, e ordinò l’arresto dell’Arcivescovo. Ma costui riuscì a fuggire e, riparato a Milano, organizzò i popolani intorno al Carroccio, presentandolo come simbolo delle libertà municipali minacciate dall’invasore barbaro. In realtà si trattava di ben altro. Ariberto era un aristocratico di sangue tedesco anche lui, che voleva semplicemente salvare i propri immensi latifondi dalla riforma agraria che gl’insorti reclamavano. Era insomma una lotta non d’idealità nazionali ma d’interessi, e Ariberto era il campione di quelli più retrivi. Tuttavia riuscì a fanatizzare le masse, e Milano si dimostrò imprendibile, fornendo così buoni pretesti ai successivi esaltatori del sentimento nazionale.

Corrado se ne tornò in Germania piuttosto discreditato dall’insuccesso. Ma si lasciò dietro una legge rivoluzionaria, che scompaginò tutta l’impalcatura feudale della Penisola: la Constitutio de feudis. Essa stabiliva che le terre concesse ai feudatari minori – valvassori e valvassini –, quando costoro morivano, non tornavano ai grandi feudatari concedenti, ma andavano agli eredi maschi dei defunti; e che le concessioni già fatte non potevano essere revocate senza un valido motivo: quello che oggi chiameremmo la «giusta causa». Era un colpo mortale ai latifondi e quindi alla potenza della grande aristocrazia che li monopolizzava. D’ora in poi valvassori e valvassini diventavano di fatto piccoli proprietari indipendenti. La società, fin qui divisa in una casta magnatizia e in una massa proletaria, si arricchiva di una classe media.

Questi contraddittori episodi ci fanno intravedere una situazione politica caotica e discorde che non si presta a nessun tentativo di ricostruzione unitaria. Non si può nemmeno dire che v’imperversa una lotta fra potere religioso e potere laico perché molti Signori laici si fanno paladini della Chiesa per battersi contro l’Impero che vorrebbe asservirli, mentre molti Vescovi e Arcivescovi si fanno paladini dell’Impero per trovarvi un sostegno ai propri privilegi.

Quella che divampava in Italia, nei primi decenni del Mille, era una sfrenata lotta d’interessi particolari, e basta. Inutile cercarvi un nesso. Tuttavia c’è un carattere che differenzia la Penisola da tutto il resto d’Europa: il fatto che il feudalesimo non vi ha mai completamente attecchito e non è riuscito a ruralizzare del tutto il Paese.

Anche nel periodo più buio, le città non sono scomparse. Sono decadute, si sono svuotate, hanno sonnecchiato, ma sono rimaste. Per il momento non sono che villaggetti in posizione subalterna nei confronti dei castellacci che li dominano dalle alture circostanti, roccheforti dell’aristocrazia terriera e guerriera, tutta di sangue tedesco, che vi si è impiantata da padrona con le invasioni. Ma stanno lentamente conquistando un’autonomia sempre più larga ed elaborando degli ordinamenti che rozzamente si avvicinano a quelli democratici.

Il fenomeno è appena agl’inizi. Ma lo si comincia a intravedere specialmente là dove le circostanze lo consentono, o addirittura lo sollecitano. È il caso delle città marinare, all’avanguardia di questo processo per due motivi. Anzitutto perché si trovano fuori dai grandi itinerari degli eserciti tedeschi che calano in Italia al seguito degl’Imperatori: il che toglie ogni appoggio all’aristocrazia feudale. Eppoi perché queste città sono obbligate dalla minaccia dei corsari saraceni a una lotta che fa più rapidamente maturare nelle popolazioni una coscienza civica. Esse non possono sperare aiuto da nessuno: né l’Imperatore né il Papa possiedono flotte. L’unica garanzia di salvezza sta nella disciplina degli equipaggi. E questa presuppone la concordia dei cittadini e facilita l’uguaglianza fra di essi.

Anche qui la retorica nazionalista altera molto la realtà delle cose rappresentandoci Venezia, Genova, Pisa e Amalfi come sorelle unite nel nome di Cristo per la lotta contro l’infedele. Non furono unite mai, o quasi mai. Al contrario, ognuna di esse godeva degl’insuccessi dell’altra, e in varie occasioni vi collaborò dando una mano ai Saraceni. Genova osteggiò Pisa mentre questa combatteva il comune nemico in Sardegna. Pisa distrusse la flotta di Amalfi. Venezia non pensava che a se stessa. Ma queste città, più avanzate economicamente per via dei traffici marittimi, lo erano anche politicamente. In esse si stava formando qualcosa che somigliava a uno Stato di diritto.

La vita urbana dell’Italia ricominciava a palpitare lì.