Un monaco dell’abbazia di Montecassino, scrivendo una cronaca degli anni a cavallo del Mille, raccontò che quaranta Normanni, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, passarono per caso da Salerno e la trovarono assediata dai Saraceni. Chiesero al principe Guaimaro, padrone della città, armi e cavalli, furono esauditi e ottennero una splendida vittoria. Il popolo li portò in trionfo, il Principe li colmò di doni e li pregò di restare al suo servizio. «Dicono i Normanni d’aver combattuto soltanto per amor di Dio e della Fede,» continua la cronaca «rifiutano i doni e vogliono ripartire. Allora il Principe, radunato il suo consiglio, fa accompagnare da ambasciatori gli ospiti che se ne tornano nella loro terra. E come Narsete aveva fatto coi Longobardi, spedisce in Normandia aranci, mandorle, noci candite, dorate armature equestri per allettare quella gente a venire nel paese dove si producevano tante squisitezze.»
Naturalmente le cose erano andate in maniera assai diversa. Ma non c’è da meravigliarsi che i cronisti del tempo le abbiano viste in una luce da chanson de geste perché l’impresa normanna, malgrado i suoi lati mercenari, fu effettivamente una chanson de geste, e anzi l’unica che si sia svolta in Italia. Ma i suoi protagonisti non erano italiani.
Normanni erano chiamati, genericamente, gli uomini del Nord, cioè gli scandinavi. Ma fra di loro essi si chiamavano Vichinghi, che vuol dire «guerrieri». Era una qualifica che meritavano. Pungolati dalla povertà delle loro terre, ne sciamavano in cerca di preda a bordo di esili navigli. Arrivarono dappertutto, in Inghilterra, in Francia, in Islanda, in Groenlandia, e perfino in America del Nord, dove precedettero di sei secoli Cristoforo Colombo, ma senza rendersi conto che avevano scoperto un continente e senza trarne nessuna lezione.
Analfabeti e pagani, furono fra gli ultimi, in Europa, a convertirsi al Cristianesimo. Ma nemmeno questo bastò a smorzare la loro sete di avventure, di guerra e di saccheggio. Nel nono secolo abbiamo già visto un loro gruppo istallarsi in quella provincia francese, che d’allora in poi doveva portare il loro nome: la Normandia. Forse non erano che poche centinaia, ma bastarono a istituirvi un potentato che tenne col fiato sospeso tutto il territorio e ne condizionò la storia. Fu infatti per i meriti acquisiti nella sanguinosa resistenza ai Normanni che Eudo Capeto diventò Duca dei Franchi, come abbiamo già detto, e il suo pronipote Ugo si sostituì all’ultimo Re carolingio sul trono di Parigi.
Ma nemmeno quando ebbero a disposizione le pingui campagne normanne e gli sbocchi della Senna, del Rodano e della Loira per rifugio delle loro flotte corsare, diventarono sedentari. La legge del maggiorascato che imponeva la trasmissione di titoli e patrimoni di primogenito in primogenito, creava a ogni nuova generazione una folla di diseredati cadetti, disponibili per qualsiasi avventura. Essi dovevano sbalordire il mondo per la loro forza conquistatrice, per la loro adattabilità a tutte le latitudini, e per la rapidità con cui si assimilarono ai popoli vinti e si persero in mezzo a essi. Uno andò in Inghilterra, la sottomise e ne divenne Re. Altri finirono in Russia e vi fondarono i primi e più forti potentati. Un gruppo, ai primi del Mille, scese in Italia, forse per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, o vi fece sosta tornandone. O forse vi furono chiamati come mercenari dal Papa, o da qualche principotto del Sud.
Abbiamo già detto del caos che regnava laggiù per il solito giuoco dei satrapi in lotta per una impossibile supremazia. Pandolfo di Capua si allea ora con Bisanzio, ora con l’Impero, e li tradisce entrambi. La stessa tecnica seguono il Duca di Napoli, Sergio, e Guaimaro di Salerno. Nemmeno i raid musulmani riescono a mettere d’accordo questi turbolenti signorotti. E lo scompiglio dischiude le più allettanti prospettive a uomini di ventura come i Normanni che non combattevano affatto – come diceva l’ingenuo cronista di Montecassino – per amor di Dio e della Fede, ma per cupidigia di terre, castelli e titoli nobiliari.
Essi si istallarono nel Sud, come oggi i meridionali si istallano nel Nord, il fratello chiamandovi il fratello, e questi il cugino e il cognato. Il loro primo capo fu Rainulfo Drengot che, dopo aver combattuto contro Pandolfo, ottenne in ricompensa da Sergio le terre e la Contea di Aversa. Fu il focolaio dell’infezione. Ora che ci avevano impiantato un’accreditata succursale, quei morti di fame cominciarono a piovere sempre più numerosi nel Sud. Ma – intendiamoci – non fu un’alluvione. Fu uno stillicidio. Muovevano dal natio paesello in piccole bande che arrivavano decimate perché per strada si dovevano guadagnare il pane arruolandosi nelle guerricciole che trovavano sul loro itinerario. In compenso, li aspettava un titolo e un podere perché Rainulfo li promuoveva subito Baroni e col loro aiuto slargava i confini del proprio feudo. Infatti, di lì a poco, la Contea dei Drengot diventò Principato, e il villaggio di Aversa un piccola vivacissima capitale.
La metastasi fu rapida anche perché i Normanni italiani restarono fedeli al principio del maggiorascato che, concentrando titoli e patrimonio sul primogenito, imponeva ai cadetti di costruirsi la propria fortuna. Uno di loro s’impadronì di Capua scacciandone i Pandolfo, un altro di Gaeta, un terzo diventò Signore di Acerenza, un quarto di Genzano. Dal Lazio al Gargano fu un fiorire di castelli normanni, un brulichìo di compagnie di ventura agli ordini di quegli spericolati capitani pronti a battersi contro qualunque nemico per una fattoria.
Un giorno arrivarono, tutt’insieme, sei fratelli che, dal loro villaggio di origine, si chiamarono Hauteville, in italiano Altavilla. Erano figli di un nobile spiantato che, provvedutili di uno scudo e di una lancia, gli aveva detto: «E ora arrangiatevi». Si arrangiarono così bene che dopo pochi anni Guglielmo, detto Braccio di Ferro, era già Signore di Melfi e di Ascoli Piceno, Drogone di Venosa, Ulfredo di Mottola e Castellaneta. Ma la carriera più brillante la fecero gli ultimi due, Roberto e Ruggero che, oltre alle doti militari, mostrarono anche un autentico genio politico.
Roberto detto il Guiscardo debuttò come un capo brigante al servizio dei signorotti pugliesi tuttora in rivolta contro i Bizantini. Per dodici anni, con le sue sparute bande, egli non diede tregua alle guarnigioni di Costantinopoli e le ridusse a concentrarsi e a rinchiudersi in Bari. Poi le sloggiò anche di lì, espellendo definitivamente Bisanzio dalle residue sue teste di ponte in Italia. Era l’ultimo legame che ancora vincolava, sia pure stancamente, la nostra Penisola a Costantinopoli, e teneva in piedi la finzione del vecchio Impero di Costantino. Oriente e Occidente che lo scisma stava già per dividere sul piano religioso, divorziavano su quello politico.
A Roma, il papa Leone IX aveva seguito dapprima con favore le brillanti imprese di Roberto perché ai suoi occhi ormai i Bizantini rappresentavano gli «eretici». Ma il Guiscardo dimostrò quanti pochi scrupoli di ortodossia si facesse, impadronendosi anche di alcuni territori pontifici. Egli teneva il Papa nello stesso conto in cui teneva i Signori pugliesi e calabresi che lo avevano assoldato e ch’egli spodestò uno dopo l’altro, compreso Gisulfo di Salerno che, per propiziarselo, gli aveva dato in moglie la figlia. Roberto si prese la ragazza, ma come dote reclamò e incamerò tutto il patrimonio. Così, salvo Napoli, rimase padrone di Calabria, Puglia e Campania.
Spaventato, Leone gli mosse guerra mettendosi egli stesso alla testa dell’esercito. Ma aveva la stoffa del Santo, non del Generale. Fu battuto e catturato. Roberto, invece, oltre che del Generale, aveva la stoffa dell’uomo politico. Trattò il prigioniero come ospite, se ne accattivò le simpatie, e lo rimandò a morire a Roma. Il nuovo pontefice Nicola II riconobbe il fatto compiuto, e nominò Roberto Duca di Calabria.
Nel frattempo Ruggero, visto che suo fratello non aveva bisogno di lui per assicurare alla famiglia tutto lo stivale dalla Ciociaria in giù, aveva imboccato la strada della Sicilia.
Qui l’osso era più duro perché a presidiare l’isola non c’erano le stanche guarnigioni bizantine, ma i poderosi eserciti saraceni. Essi non tenevano più la Sicilia come terra di conquista. L’isola era ormai una provincia musulmana di pieno diritto, governata da una dinastia arabosicula, i Kalbiti, saggi e illuminati amministratori. Ma proprio in quegli anni l’unità che essi avevano instaurato si era rotta e anche lì lo Stato era stato sopraffatto dalle stesse forze centrifughe che nell’Europa cristiana avevano provocato il feudalesimo. Bentumne, Signore di Siracusa, in lotta contro l’emiro di Agrigento, chiamò i Normanni, e Ruggero scese alla loro testa, ben deciso a ripetere coi Saraceni il giuoco che suo fratello aveva fatto coi Duchi pugliesi. Non si sa quanti uomini avesse al seguito. C’è chi dice una trentina soltanto. Forse erano qualche centinaio, ma non di più.
I Saraceni però capirono subito che sproposito avevano fatto ad assoldare quei mercenari. E cercarono di porvi rimedio facendo un fronte unico che tuttavia funzionò fino a un certo punto. Il «teatro dei pupi» siciliano rievoca ancora, infantilmente mitizzandole, le gesta dei conquistatori normanni. Ma l’epopea ha in realtà qualcosa di prodigioso, che l’avvicina a quella delle Crociate. La conquista di Messina, la «lunga marcia» su Castrogiovanni, le battaglie del Dittàino e di Cerami sono davvero altrettante chansons de geste.
L’impresa fu lunga. Anche dopo la capitolazione di Palermo nel 1072, gli Arabi seguitarono a resistere nel montagnoso cuore dell’isola, dove probabilmente gettarono e lasciarono il seme della «mafia». Ci vollero altri vent’anni di rastrellamenti e d’imboscate prima che Ruggero, con la presa di Noto e Butera, si sentisse definitivamente padrone. Ma poteva contentarsi. Nello spazio di una generazione, gli squattrinati Altavilla, venuti in Italia a fare i soldati di ventura, avevano messo insieme un Regno, destinato a restare per ottocento anni la più stabile potenza italiana.
Il racconto della loro avventura ci ha obbligati ancora una volta a un anticipo sul nostro orario di marcia. Interrompiamone dunque il filo per riprendere quello degli altri avvenimenti della Penisola. Ma non senza trarne una conclusione piuttosto amara. I Normanni furono i primi mercenari che fecero capolino in Italia. E il loro folgorante successo dimostrò a che basso livello fossero scese le nostre qualità militari. Da allora l’Italia diventò la Mecca del mercenarismo europeo, e da allora prese il vizio di chiamare un invasore a liberarla da un altro invasore.
Abbiamo seguitato a farlo fino ai nostri giorni, nostri giorni compresi.