Nello stesso anno 1054, Leone morì. La Chiesa lo santificò, in tal modo avallandone l’operato. E la Storia lo adottò come «il Papa dello scisma».
In realtà il vero protagonista di quel grande avvenimento era stato un piccolo monaco toscano dell’ordine benedettino: Ildebrando da Soana. Pochi in quel momento sapevano di lui, che non occupava nessuna carica in vista. Ma quest’uomo di corporatura meschinella, resa fragile dai digiuni, già esercitava sulla Curia un immenso potere, dovuto soltanto al suo personale prestigio.
Aveva debuttato come cappellano di Gregorio VI, uno dei Papi che si erano disputati la tiara dopo la fuga dello scandaloso Benedetto IX nel 1044 e che poi era stato a sua volta deposto. Ildebrando gli era rimasto fedele e si era rifugiato con lui a Colonia. Dopo, se ne perdono le tracce. Ma pare che si fosse ritirato a Cluny, del cui spirito riformatore era impregnato. Comunque, è certo che ricomparve a Roma al seguito del Vescovo cluniacense Egisheim-Dagsburg, eletto Papa col nome di Leone IX.
Ildebrando fu nominato preposto del monastero di San Paolo fuori le mura. Ma il potere gli veniva dall’ascendente personale che esercitava sul Papa. Questi, da solo, non avrebbe osato la rottura col Patriarca di Costantinopoli. Era un sant’uomo, ma non molto risoluto. Ildebrando invece aveva l’intransigenza del guerriero della Fede, incapace di compromessi. Per lui la Chiesa era l’incarnazione di Cristo, e quindi non poteva essere che unica, sovrana e assoluta. Chi si ribellava al suo primato o lo metteva in dubbio era un eretico, e come tale da sconsacrare. Morto Leone, Ildebrando rimase l’eminenza grigia della Curia. Fu lui che senza apparire in primo piano ne resse il timone per venticinque anni in una situazione politica estremamente ingarbugliata, che noi cercheremo di semplificare per comodità del lettore.
Corrado il Salico era scomparso nel 1039, e a lui era successo Enrico III, detto «il Nero»: un giovanotto religiosissimo, che aveva subito fatto pace con l’arcivescovo Ariberto e cercava di servire al meglio gl’interessi della Chiesa. Era stato lui che nel 1046 aveva eliminato lo scandalo dei quattro Papi che si contendevano il Soglio facendovi eleggere Clemente II. Tornò in Italia nel 1055 su invito di papa Vittore II, il successore di Leone, spaventato dalle minacce normanne al confine meridionale dei suoi Stati. Ma di pericoli, sul Papa, ne incombeva anche uno a Nord. Beatrice, rimasta vedova del marchese Bonifacio di Toscana, aveva risposato un avventuriero tedesco, Goffredo di Lorena detto «il Barbuto». Costui voleva dare un significato effettivo al titolo portatogli in dote dalla moglie. Il Marchesato si era, come dovunque, spezzettato in feudi. Ogni signorotto e ogni città facevano per conto proprio. Firenze, sebbene fosse un borgo di due o tremila abitanti, cacciò addirittura il vescovo Mezzabarba appunto perché faceva troppo gl’interessi del Marchese.
Goffredo trattò i ribelli con mano pesante, si annesse con la violenza buona parte dell’Emilia e delle Marche e il Ducato di Spoleto. E in quel momento era diventato, almeno sulla carta, il più forte Signore d’Italia insieme ai Normanni. Con costoro si era accordato in vista di una spartizione della Penisola. E naturalmente il più minacciato di tutti era il Papa, i cui Stati facevano da cuscinetto fra queste due forze.
Enrico scese per trarre Vittore da quella morsa. E la comparsa del suo poderoso esercito bastò a mettere in fuga il Barbuto che rientrò precipitosamente in Lorena. Beatrice fece atto di vassallaggio a Enrico, riconoscendo la sovranità imperiale sul suo Marchesato e restituendo il mal tolto ai legittimi titolari emiliani, marchigiani e spoletani. Enrico risalì le Alpi giusto in tempo per morire in patria nel 1056. Lasciava un erede di sei anni, che fu proclamato ugualmente Imperatore con il nome di Enrico IV sotto la reggenza di sua madre, Agnese di Poitiers.
Alla Dieta che gli conferì il titolo parteciparono anche papa Vittore e il Barbuto. Ambedue rientrarono subito dopo in Italia, ma con opposte intenzioni: Vittore ben deciso a restar fedele all’Imperatore, suo puntello; il Barbuto intenzionato ad approfittare della sua minore età per condurre a termine i propri disegni. Gli se ne offrì subito il destro perché Vittore morì sulla strada del ritorno. Goffredo ne approfittò per imporre sul Soglio un proprio fratello, Stefano IX. Il piano era chiaro. Goffredo dava a Stefano la tiara di Papa. Stefano avrebbe dato a Goffredo la corona d’Italia. Ma non fece in tempo perché anche Stefano morì.
Successe uno dei soliti parapiglia. Goffredo fece eleggere un altro suo accolito col nome di Nicola II. I nobili romani, per riprendere il controllo della situazione, elessero uno dei loro col nome di Benedetto X. Vinse Nicola con la forza, cioè con le bande armate di Goffredo. E non governò male. Ma fece gl’interessi del suo protettore e dei suoi alleati normanni a detrimento del partito filoimperiale. Questo aveva il suo più autorevole esponente in Guido, Arcivescovo di Milano. Il Papa lo scomunicò. E non c’è dubbio che queste manovre furono suggerite o almeno avallate da Ildebrando.
Esse continuarono, anzi si fecero più vigorose, sotto il successore di Nicola, il Vescovo di Lucca Anselmo da Baggio, salito al Soglio col nome di Alessandro II e con l’appoggio di Goffredo. La Corte imperiale non fu nemmeno informata della elezione, e non la riconobbe. L’undicenne imperatore fu spinto da sua madre e dai suoi consiglieri a indire una Dieta a Basilea, che annullò la nomina di Alessandro, «eletto non dai Romani, ma dai Toscani e dai Normanni», cui contrappose il Vescovo di Parma, Cadalo, col nome di Onorio II. I due Papi si scomunicarono a vicenda, eppoi si affrontarono con la forza delle armi. Vinse Alessandro grazie ai lanzichenecchi di Goffredo.
L’Italia in quel momento era più che mai divisa. La minaccia di una spartizione fra il Barbuto e i Normanni che rappresentavano le due potenze più forti, aveva fatto rifiorire specialmente nel Nord delle simpatie per l’Impero. A covarne era soprattutto Milano, la città del «Carroccio», che si faceva gloria di aver sconfitto e ricacciato i tedeschi di Corrado. E ciò basta a farci capire quanto poco l’ideologia entrasse in questa lotta. Ogni potentato italiano, piccolo o grande che fosse, giuocava fra la Chiesa e l’Impero secondo l’opportunità del momento, ma senza mai rinunziare ai propri particolari interessi. Le comuni tendenze filoimperiali non impedirono a Milano e a Pavia di farsi tra loro una guerra fratricida per ragioni di primato commerciale.
E intanto si preparava il grande urto.
Nel 1073 Alessandro morì, e il popolo e il Clero romano acclamarono Papa il monaco Ildebrando. Questi, secondo alcuni cronisti, avrebbe cercato di sottrarsi all’elezione. Ma noi crediamo che, anche se lo fece, fu solo per finta. Era un uomo che aveva la vocazione del potere, e da una trentina d’anni teneva in allenamento le sue qualità carismatiche. Quando salì al Soglio col nome di Gregorio VII, aveva già compilato l’indice di un trattato che aveva intenzione di scrivere, ma soprattutto di applicare. In esso infatti è condensato tutto un programma di riforme, e basta leggerne i sottotitoli per capire di che cosa si tratta.
Eccone qualcuno: «Come solo il romano Pontefice sia giustamente detto universale. – Come egli solo possa deporre o riabilitare i Vescovi. – Come il suo Legato abbia la precedenza su tutti i Vescovi in Concilio, anche se è loro inferiore di grado, e come possa pronunciare contro di essi sentenza di deposizione. – Come solo al Papa spetti l’uso delle insegne imperiali. – Come soltanto al Papa tutti i Principi debbano baciare il piede. – Come solo il suo nome debba invocarsi in chiesa. – Come sia facoltà del Papa deporre gl’Imperatori. – Come nessuna decisione del Papa possa venir revocata, mentre Egli solo può revocare tutte quelle da altri pronunciate. – Come la Chiesa Romana mai abbia errato, né mai in perpetuo, per testimonianza delle Scritture, errerà. – Come il Papa può sciogliere dall’obbligo della fedeltà i sudditi dei Principi iniqui».
Era l’avvio a un regime totalitario e monolitico con tutti i suoi estremismi, compreso il culto della personalità. Come incarnazione di una Chiesa infallibile per divina investitura, il Papa era un sovrano assoluto, sottratto a ogni sindacato non solo del potere laico, ma anche di quello ecclesiastico. Gli stessi Vescovi suoi pari si riducevano a semplici comparse e la loro autorità non era più che un riflesso di quella del Pontefice. D’ora in poi, in tutti i campi, sia quello spirituale che quello temporale, non ci sarebbe stato posto che per delle «staffette» del Papa, suoi portavoce ed esecutori d’ordini.
Che non si trattasse solo di enunciazioni teoriche, lo si vide dalla prima misura che Gregorio adottò: l’obbligo del celibato per tutti gli ecclesiastici. Altri Papi ne avevano già sostenuto la regola, ma senza forzarne l’applicazione anche perché gli avversari avevano dalla loro parte nientemeno che San Paolo. «Abbia ciascuno la propria moglie» aveva predicato l’Apostolo «…Siano i diaconi mariti di una sola moglie, educhino i figli bene e sorveglino la propria casa… Sceglierai per preti, come ti dissi, cristiani di buona condotta, con una sola moglie…»
Ma sebbene tutto questo stesse scritto nero su bianco, Gregorio non se ne curò. Le proteste furono violente. I preti romani sposati che si trovavano di fronte alla dura scelta: o la moglie o il «posto», aizzarono la folla che nella notte di Natale del 1075 aggredì Gregorio mentre celebrava la messa in Santa Maria Maggiore. Il Papa fu salvo a stento, ma nemmeno di questo si curò. In lui lo spirito puritano cluniacense aveva trovato il proprio Robespierre. Pier Damiani lo chiamò «vento aquilonare» e anche «Santo Satana». Aveva ragione. La Fede, quando si miscela col sangue toscano, sprigiona una fiamma che puzza di zolfo luciferino.
Mentre l’obbligo del celibato creava il marasma nei ranghi ecclesiastici, nei circoli laici si spargeva l’inquietudine per altri provvedimenti. Gregorio infatti aveva censurato cinque Principi della famiglia imperiale tedesca, minacciato di scomunica il Re di Francia, Filippo, e lanciato l’anatema contro Roberto il Guiscardo. Tutti per il medesimo motivo: perché si erano arrogati il diritto d’investire Vescovi e Arcivescovi, come del resto avevano sempre fatto. Cinque di questi alti prelati vennero da lui deposti. E siccome l’Imperatore non se ne diede per inteso, Gregorio gli mandò un’ambasceria segreta per avvertirlo in confidenza che, se non si fosse ravveduto, lo avrebbe scomunicato.
Enrico IV ora aveva venticinqu’anni, ed era cresciuto in una Corte dove aveva sentito sempre ripetere che il Papa stava scalzando il prestigio dell’Impero in Italia. In lui era maturato un sordo odio per Roma e la Curia. Impulsivamente, rese pubblica la comunicazione confidenziale di Gregorio, appellandosi ai suoi Vescovi e ai suoi sudditi, che infatti ne furono impressionati e indignati. Sfruttando questo stato d’animo, prima che il Papa potesse replicare, indisse due Diete, una a Worms, l’altra a Piacenza. Il verdetto fu stilato in una lettera al Pontefice che si apriva con questo indirizzo: «Enrico, Re non per usurpazione ma per volere di Dio, a Ildebrando, non Papa, ma monaco falso». La diplomazia, si vede, non era il forte di nessuno dei due contendenti.
Il messaggio fu recato a Roma e letto davanti a centodieci Vescovi italiani e francesi, che minacciarono di linciare il postino. Fu Gregorio che s’intromise di persona per sottrarlo alla loro furia. Egli rispose tuttavia con un Concilio che pronunciò la scomunica contro Enrico IV e la dispensa ai suoi sudditi dall’obbligo di fedeltà a un Imperatore «spergiuro, adultero e falso apostolo». La guerra fredda sboccava in quella calda.
Enrico vi si era disposto nella convinzione di avere dalla sua i Principi tedeschi. Ma costoro a quei tempi non erano molto diversi da quelli italiani e non avevano per la testa che un’idea: impedire al potere centrale, comunque e da chiunque incarnato, di diventare effettivo. Essi videro in quel conflitto col Papa un buon pretesto per ridimensionare Enrico e, invece di seguirlo, l’obbligarono a cercare un compromesso invitando il Papa a una Dieta che avrebbe dovuto tenersi ad Augusta.
Gregorio, che non aveva paura di nulla e di nessuno, si mise in viaggio. Ma per strada ricevette la notizia che il giovane Imperatore gli veniva incontro per raggiungere con lui un accordo che non gli facesse perdere la faccia di fronte ai suoi vassalli. Allora si fermò a Canossa, ospite della marchesa Matilde di Toscana, figlia di Beatrice e di Goffredo il Barbuto; e lì attese l’Imperatore.
Questi giunse il 25 gennaio, con poco e inerme seguito. Era un inverno rigidissimo. Malgrado il freddo, Enrico «si presentò alla porta del castello scalzo e con abiti dimessi, umilmente impetrando perdono. Seguitò a farlo per tre giorni muovendo a compassione tutti quelli che stavano intorno a noi. Si fecero costoro a intercedere per lui con molte preghiere e lacrime, stupiti della insolita durezza dei nostri intendimenti, dicendo che c’erano in noi non l’austerità dell’apostolico zelo, ma quasi la crudeltà del tirannico rigore. Alla fine, vinti dalla costanza del suo pentimento e dalle suppliche di tutti i presenti, sciolto il vincolo dell’anatema, l’accogliemmo nella grazia della comunione e nel grembo di Santa Madre Chiesa, ricevendo da lui le assicurazioni qui riportate per iscritto, con garanzie di mano dell’abate di Cluny, delle nostre figlie Matilde e contessa Adelaide, d’altri Principi, Vescovi, abati e altri la cui sottoscrizione ci parve opportuna».
Questo comunicò Gregorio in una lettera ai Principi tedeschi per significar loro che Enrico era perdonato, ma anche debitamente ridimensionato. Enrico, da parte sua, scrisse: «Io, Enrico Re, impartirò il castigo o il perdono ad Arcivescovi, Vescovi, Duchi, Conti e altri Principi del Regno teutonico che mi sono stati ostili, secondo la decisione e il consiglio del papa Gregorio. Inoltre, se il signor Papa vorrà andare oltre le Alpi o altrove, potrà farlo senza pericolo da parte mia e di tutti coloro che mi devono obbedienza».
Ci fu evidentemente un voluto malinteso. Gregorio interpretò Canossa come una resa senza condizioni. Enrico la interpretò come un compromesso che lo impegnava ad accettare l’arbitrato del Papa nei conflitti interni del suo Regno e a portarsi garante della sua libertà di movimento; ma niente altro. I nodi dell’equivoco vennero subito al pettine. L’inchiostro era ancora fresco sul documento che la lotta riprendeva più violenta di prima.
Timorosi delle rappresaglie, i Principi ribelli rifiutarono la riconsacrazione di Enrico, lo deposero e nominarono suo successore Rodolfo di Svevia. Enrico mosse guerra all’usurpatore. L’esito della battaglia di Merseburg fu incerto, ma Rodolfo vi perse la vita, proprio mentre da Roma gli giungeva il riconoscimento del Papa.
Assetato di vendetta contro quel Pontefice che lo aveva umiliato a Canossa e ora si era schierato col suo rivale, Enrico indisse tre Concili di Vescovi tedeschi. Costoro proclamarono che la vittoria di Merseburg doveva essere interpretata come il giudizio di Dio contro Gregorio «eretico, esecrando perturbatore delle leggi divine e umane, vero serpente il cui soffio velenoso ha contaminato la Chiesa e l’Impero».
In forza di questo verdetto, Enrico scese in Italia alla testa di un forte esercito per deporre il Papa e insediare al suo posto l’Arcivescovo di Ravenna col nome di Clemente III. Giacché passava di lì, volle dare una lezione a Matilde. Ma i castelli di Canossa resistettero. L’Imperatore puntò su Firenze che gli chiuse le porte. E allora dirottò su Lucca che invece gliele aprì con molto entusiasmo appunto perché Firenze gliele aveva chiuse. Roma imitò Firenze solidarizzando col Papa. Enrico vi pose assedio, ma non volle attaccarla e si ritirò a Pavia. Solo due anni dopo, nel 1084, l’Urbe si arrese. Ma non si arrese l’intrepido Gregorio, che si chiuse in Castel Sant’Angelo dopo aver lanciato un appello a Roberto il Guiscardo.
Nel giorno di Pasqua Clemente pose la corona imperiale sulla testa di Enrico, che subito dopo levò le tende e si rimise in marcia per la Germania. Roberto stava per sopraggiungere con un esercito molto più forte di quello imperiale. Esso trovò le porte aperte, ma ciò non valse a disarmare l’ùzzolo di saccheggio di quelle soldataglie. Ci furono, pare, migliaia di morti, interi quartieri distrutti, donne violentate, uomini deportati e venduti come schiavi. Non c’è da meravigliarsene perché la truppa era composta prevalentemente da Saraceni, assoldati dal Guiscardo in Sicilia.
L’indignazione della città si volse contro Gregorio che aveva chiamato quei feroci mozzateste. Liberato da loro, il Papa dovette seguirli per sfuggire alla furia del popolino. Così si chiudeva il primo capitolo di quel conflitto: coi due protagonisti entrambi in fuga da Roma, l’uno verso Nord, l’altro verso Sud.
Gregorio non resse a quell’ultima terribile prova. Abbandonato a Salerno dal suo micidiale alleato, vi morì solo e disperato, con la convinzione di aver perso la partita. Spirando, si dice che mormorasse: «Muoio in esilio perché amai la giustizia e odiai l’iniquità». Più che la giustizia, aveva amato la Chiesa. L’aveva amata fino all’iniquità.