CAPITOLO OTTAVO

LA PRIMA CROCIATA

Nel 1088, riferisce una vecchia cronaca, un pellegrino di ritorno dalla Terrasanta, Pietro l’Eremita, portò al papa Urbano una lettera di Simeone, Patriarca di Gerusalemme. In termini drammatici, vi si descrivevano le persecuzioni dei Musulmani contro il gregge cristiano e s’invocava l’aiuto di Roma.

I Musulmani non erano gli Arabi. Erano i Turchi. Questa popolazione mongolica, di pastori nomadi e di guerrieri ferocissimi, si era lentamente spostata nei secoli, alla ricerca di pascoli e di preda, dalle steppe asiatiche al Caucaso. Qui si erano trovati in contatto con gli Arabi, allora in piena frenesia espansionistica. E alcuni di essi, convertitisi all’Islam, si erano arruolati sotto le sue bandiere come mercenari. Con le qualità militari che li distinguevano (e che ancora li distinguono), avevano fatto splendide carriere. Una loro dinastia, quella dei Selgiuchi, si era poi ribellata al Califfo di Bagdad, aveva fondato un Emirato indipendente in Asia Minore, e nel 1070 si era impadronita di Gerusalemme.

Gerusalemme, fino a quel momento, era stata trattata dagli Arabi come una specie di «città aperta». Essi si erano mostrati molto tolleranti verso le altre due religioni – quella ebraica e quella cristiana – che lì avevano la loro culla, e ne avevano rispettato le sinagoghe e le chiese. Ma i Selgiuchi erano neòfiti dell’Islam, vi portavano un fervore bigotto e uno zelo intransigente. La persecuzione incrudelì. E le vittime si rivolsero invano a Costantinopoli, cui la provincia aveva appartenuto prima della conquista araba.

Ridotto a un cantuccio di Asia Minore, l’Impero d’Oriente incontrava già parecchie difficoltà a mantenere la propria indipendenza. Bulgari e Russi erano dilagati nelle sue province europee. E i Selgiuchi, istallatisi da padroni a Edessa, Antiochia, Tarso e Nicea, si erano ormai affacciati sul Bosforo. L’esercito imperiale, mandato a sloggiarli, era stato annientato a Manzikert. Gerusalemme ormai era isolata dalla sua vecchia capitale. E il suo Patriarca, sebbene lo scisma avesse fatto di lui un eretico agli occhi di Roma, si rivolse al Papa.

L’idea di una spedizione in Terrasanta per la conquista della patria di Gesù aveva già tentato altri Pontefici. Silvestro II, che da buon tedesco amava programmare in grande, ne aveva anche bandita una che, mal preparata e diretta, era abortita in Siria subito dopo il Mille. Gregorio VII ne avrebbe certamente lanciata un’altra, se la lotta con Enrico IV glielo avesse consentito. «Preferirei rischiare la vita per la liberazione dei Luoghi Santi» aveva detto «che regnare sull’universo.» Insomma, il progetto non era nuovo. La lettera di Simeone gli ridiede attualità. Ma forse a rendere allettante l’appello ci furono anche altri motivi.

Il primo era di carattere strategico. Sebbene i suoi Califfi fossero ormai dediti più alle arti che alla guerra, l’Islam incombeva sempre dal Medio Oriente, dall’Africa e dalla Spagna, come una minaccia sull’Europa cristiana. Per quanto scarse fossero a quel tempo le nozioni di geografia, era abbastanza chiaro che se Costantinopoli cadeva, cadevano i Balcani, dove sarebbe stato più difficile fermare la mareggiata, ora che i Selgiuchi le avevano ridato mordente. Meglio quindi bloccarla sulle basi di partenza asiatiche, prendendo l’iniziativa.

Un secondo motivo fu probabilmente di concorrenza con la Chiesa greco-ortodossa. Questa sarebbe stata discreditata agli occhi di tutti i Cristiani, se i Luoghi Santi, che pure le appartenevano, fossero stati liberati in nome di quella cattolica. Nelle guerre di religioni, lo scismatico, si sa, è più odiato dell’infedele. E in questo caso, combattendo l’uno, si debellava l’altro.

Un terzo motivo erano le ambizioni delle Repubbliche Marinare italiane, Genova, Pisa, Amalfi, ma soprattutto Venezia che, già padrone del Mediterraneo occidentale, volevano diventarlo anche di quello orientale, tuttora dominato dalle flotte musulmane. Erano in giuoco i commerci fra l’Est e l’Ovest: la più ghiotta delle poste.

Ma naturalmente nessuna di queste sollecitazioni fece capolino nell’infiammata oratoria di Urbano. Quel Papa francese era un grandissimo tribuno e conosceva i suoi polli. Sapeva che l’impresa era rischiosa e che un suo fallimento sarebbe stato un duro colpo per il prestigio della Chiesa. Bisognava quindi presentarla come voluta da Dio e senz’altro obbiettivo che di rendere servizio a Lui.

Nel 1095, a un Concilio di Vescovi a Piacenza, i messi di Bisanzio chiesero a nome dell’Imperatore Alessio l’aiuto dell’Occidente contro i Selgiuchi. Era già un trionfo morale per il cattolicesimo. Urbano sostenne vigorosamente la richiesta e se ne fece il portavoce. Per tutto l’anno, instancabilmente, batté l’Italia e la Francia predicando la Crociata dai pulpiti di tutte le chiese. L’entusiasmo si propagò di città in città. Quando il Concilio ecumenico si riunì a Clermont Ferrand per le decisioni definitive, migliaia di persone accorsero da ogni parte, piantarono le tende, e attesero. Urbano diede il grande annuncio a una vasta folla inginocchiata. Descrisse a tinte apocalittiche le persecuzioni musulmane contro i fratelli cristiani di Gerusalemme. Ricordò ai francesi, stuzzicandone l’orgoglio, che essi erano i figli prediletti del Signore. Rammentò loro l’antica epica lotta contro l’Islam di Spagna, Carlomagno, Rolando, il sangue di Roncisvalle che tuttora aspettava un vendicatore. Li invitò a dimenticare il resto: le loro inutili vanità e discordie, i loro meschini interessi, le loro proprietà, perfino le loro famiglie. Qualcosa di più grande, disse, vi aspetta: la liberazione del Santo Sepolcro e insieme quella delle vostre coscienze dai peccati che le macchiano. Chiunque si arruoli per questa impresa, concluse, si è guadagnato il Regno dei Cieli.

La folla inginocchiata rispose: «Dieu li volt», Dio lo vuole. E i nobili lì presenti, prosternandosi ai piedi del Papa, fecero solenne rinuncia ai propri beni per consacrarsi unicamente al servizio di Dio.

Urbano seguitò a predicare per mesi e mesi, suscitando proprio una febbre da Crociata. Essa snidò dai loro conventi monaci ed eremiti che accorsero per rivestire l’uniforme dettata da Urbano, e d’altronde molto somigliante al loro saio: una specie di sacco con cappuccio e una croce disegnata sul petto. Perfino Roma, di solito così renitente a questi fervori e suggestioni, stavolta ne fu contagiata e accolse Urbano, al suo ritorno, con oceaniche e deliranti manifestazioni.

Il primo pericolo che minacciò la Crociata fu l’entusiasmo dei suoi zelatori. Urbano ne aveva rimandato all’anno dopo la partenza per dar tempo ai capi di elaborare un piano. Ma bande di impazienti mossero per conto proprio, e mezza Europa ne fu messa a soqquadro. Fra di essi c’erano di certo gli infervorati di Dio. Ma forse più numerosi erano quelli sospinti da più terrestri moventi. C’erano i servi cui era stata promessa la libertà. C’erano i contribuenti che stavano per perderla per via delle tasse, da cui l’arruolamento li esentava. C’erano i criminali cui si consentiva di commutare la condanna, anche di morte, nel servizio a vita in Palestina. C’erano i mercanti attirati dalla prospettiva di qualche buon affare. C’erano i fannulloni e gli spostati in cerca di una «cinquina». Ma c’erano soprattutto gli uomini cui sorrideva l’avventura: cadetti di famiglie nobili, specialmente normanne, smaniosi di conquistare un titolo e di diventare a loro volta capostipiti, e cavalieri senza impiego ora che specialmente in Francia l’anarchia feudale stava per cedere il posto all’ordinamento statale che sottraeva la guerra alla libera iniziativa.

Una turba di dodicimila persone prese avvio nel marzo sotto la guida di Gualtiero Senzadenaro (e il nome dice tutto) e di Pietro l’Eremita, colui che aveva portato la lettera di Simeone a Urbano. Un’altra di cinquemila partì dalla Germania al comando del prete Gottschalk. Una terza scese dalla Renania, sotto i vessilli del Conte di Leiningen. Non avevano servizi logistici, né oro, né idee chiare sugl’itinerari da percorrere. Alla vista di Praga, chiesero se quella era Costantinopoli. La risposta negativa li deluse e irritò, anche perché non avevano più nulla da mangiare. Trattarono ugualmente la città come se fosse stata preda bellica, e per giustificarsene di fronte a Dio gl’immolarono le comunità ebraiche: tanto, erano «infedeli» anche quelli. Le popolazioni reagirono chiudendo le porte dei borghi. E i Crociati se ne rivalsero saccheggiando il contado. Non era un esercito. Erano delle orde. Vi erano intruppate anche le mogli e i bambini perché le donne avevano saputo che, vestite da Crociati, c’erano anche molte prostitute cui non volevano lasciare il campo.

Come Dio volle, questa nuvola di cavallette raggiunse Costantinopoli. Alessio si mise le mani nei capelli, e per disfarsene mobilitò la flotta per traghettare oltre il Bosforo gl’incomodi alleati. Raccomandò loro tuttavia di aspettare rinforzi, prima di prendere iniziative. Ma quei disperati, forse a corto di vettovaglie, marciarono ugualmente su Nicea. La guarnigione turca non ebbe difficoltà ad aggirarli e annientarli. Gualtiero fu ucciso. Fra i pochi scampati ci fu Pietro l’Eremita che, deluso e disgustato, piantò tutto e tornò a casa.

Frattanto l’esercito vero si era ammassato. Fra i suoi capi non c’era nessuno dei grandi Sovrani d’Europa, né Filippo I di Francia, né Guglielmo II d’Inghilterra, né l’imperatore Enrico IV, anche perché tutti per una ragione o per l’altra scomunicati. In compenso c’era il fior fiore della cavalleria francese, perché francese era la Crociata a cominciare dal Papa che l’aveva predicata. Non per nulla nel vicino Oriente ancor oggi gli europei sono chiamati «i Franchi». C’era il duca Goffredo di Buglione, c’era il conte Boemondo di Taranto, figlio di Roberto il Guiscardo, c’era suo nipote Tancredi d’Altavilla, c’era il conte Raimondo di Tolosa.

Nemmeno costoro somigliavano molto ai puri e disinteressati eroi che più tardi il Tasso doveva celebrare nella Gerusalemme Liberata. Tuttavia erano esperti e prodi condottieri. E il loro fervore religioso era sincero, anche se coabitava con altri moventi e ambizioni. Mezzo monaco e mezzo soldato, Goffredo era convinto che l’unico modo di guadagnarsi il Paradiso fosse quello di spedire all’inferno quanti più infedeli si poteva. E questo fanatismo fece di lui un capo crudele e in molti casi ottuso. Boemondo non aveva, quanto a coraggio e sagacia militare, nulla da invidiare a suo padre Roberto. Ma, più che a liberare il Santo Sepolcro, pensava da buon normanno a procurarsi un Reame in Palestina. Tancredi era forse il meno calcolatore. A lui piaceva l’avventura per l’avventura e aveva tutto per diventarne il protagonista: l’atletica bellezza, la spavalderia, la generosità, la teatralità. È giusto che il Tasso ne abbia fatto l’Eroe del suo poema. Quanto a Raimondo, che aveva già combattuto contro i Musulmani in Spagna, la sua pietà era in continua lotta con l’avarizia, e non sempre ne usciva trionfante. Forse era questa contraddizione che lo rendeva così spigoloso e irascibile.

La concordia di questi uomini, da cui dipendeva l’esito della spedizione, fu subito messa a dura prova dalla proposta di Boemondo di cominciare la guerra da Costantinopoli, impadronendosene. Goffredo, che godeva autorità di capo, rifiutò. Ma l’idea rimase nell’aria, e l’imperatore Alessio dovette averne qualche sentore. La raffinata e imbelle società bizantina accolse senza simpatia quei cavalieri dal grande nome ma semianalfabeti e di modi rozzi. Costoro rimasero stupefatti, ma anche scandalizzati dal lusso di quelle case, di quelle chiese, di quella gente ai loro occhi effeminata. Ognuna delle due parti sospettava l’altra di duplicità. Probabilmente c’era anche un grosso malinteso. Alessio si era rivolto all’Occidente per chiedere solo dei rinforzi. E si vedeva piovere addosso un esercito, di cui ora si sentiva prigioniero. Più che a liberare Gerusalemme, badò a liberare se stesso, e lo fece con bizantina diplomazia. Offrì generosamente provviste, sussidi, mezzi di trasporto alle truppe, e versò laute mance nelle tasche dei quattro comandanti, esigendone in cambio l’impegno a riconoscere la sua sovranità su tutte le terre che essi avrebbero liberato. Addolciti dall’oro, i quattro comandanti giurarono. E ai primi del 1097 presero il via fra acclamazioni, crediamo, molto più sincere di quelle che li avevano accolti all’arrivo.

Non erano più di trentamila uomini, ma trovarono un valido aiuto nelle rivalità che dividevano il campo nemico. La vecchia dinastia araba dei Fatimidi, ch’era stata rovesciata dai Selgiuchi, fece il giuoco dei Crociati, e l’Armenia si ribellò alleandosi con loro. Nicea si arrese dopo breve assedio, e di lì la marcia riprese su Antiochia. Un esercito turco fu battuto in una sanguinosa battaglia. Ma il nemico più duro non era quello. Erano il caldo e la sete che gli europei incontrarono sulle petraie dell’Asia Minore. Era luglio, e bisognava battere cinquecento miglia in quel deserto, su cui furono seminati molti cadaveri di uomini, di donne e di cavalli.

Sul Tauro sembrò che l’impresa dovesse arenarsi per dissoluzione. Raimondo, Boemondo e Goffredo si spartirono l’Armenia, ognuno badando a occupare la propria fetta e a fondarvi un Reame. Baldovino, fratello di Goffredo, si appropriò Edessa e vi fondò il primo Principato Latino dell’Est. Ma la truppa mostrò tale malcontento verso i suoi capi, che costoro ricomposero i ranghi e ripresero la marcia.

Chiusa nelle sue mura, Antiochia resistette per otto mesi. E a salvare gli assedianti affamati fu lo zucchero, ch’essi allora conobbero per la prima volta. Tuttavia i disagi avevano abbattuto il morale. Sicché, quando giunse notizia dell’imminente arrivo di un’armata turca, molti Crociati disertarono. L’imperatore Alessio, che accorreva di rinforzo col suo esercito, incontrò questi sbandati, credette che fossero i resti di una battaglia già persa, e tornò indietro per difendere l’Asia Minore. I Crociati non credettero all’equivoco, lo presero per un tradimento, e non glielo perdonarono.

Essi frattanto erano rimasti vincitori grazie a due miracoli, uno vero e uno finto. Il primo fu la resa di Antiochia pochi giorni prima che l’armata turca arrivasse. Il secondo fu quello inscenato da un prete di Marsiglia, Bartolomeo, che per ridare fiducia ai suoi disse di aver trovato la lancia che aveva trafitto Gesù. Alla vista di quella reliquia, i Crociati ritrovarono il loro impeto aggressivo e riportarono una vittoria decisiva. Solo dopo ci ripensarono e accusarono di frode Bartolomeo, che chiese la prova del fuoco per dimostrare la sua innocenza. Si gettò correndo dentro una pira e ne riemerse apparentemente salvo. Ma l’indomani mattina lo trovarono stecchito nel suo giaciglio.

Antiochia diventò la capitale di un secondo Principato Latino che venne assegnato a Boemondo. Secondo il giuramento questi dapprima lo governò in nome dell’Imperatore. Ma poi si dichiarò, come Baldovino, esentato da ogni impegno di vassallaggio.

Non erano più di dodicimila i Crociati che nel luglio del 1099, dopo tre anni di campagna, si accamparono sotto le mura di Gerusalemme. La loro commozione alla vista della sacra città si trasformò in stupore quando la guarnigione musulmana si dichiarò pronta a trattare un armistizio. Quella guarnigione non era turca, ma araba, perché l’anno prima Gerusalemme era stata ritolta ai Selgiuchi dai Fatimidi, che non avevano mai avversato i Franchi. Ma costoro non intesero ragioni forse perché pensarono che un finale negoziato e incruento avrebbe rovinato l’epopea. E chiesero la resa senza condizioni.

I difensori – un migliaio d’uomini in tutto – resistettero quaranta giorni. Poi capitolarono. «E allora» riferisce un testimone oculare, Raimondo di Agiles, famoso per il suo zelo e la sua pietà «si videro cose meravigliose. I Musulmani furono decapitati, o trafitti di frecce, o gettati giù dalle torri. Altri furono torturati per giorni e giorni, e poi bruciati. Le strade erano lastricate di teste, di mani e di piedi mozzi.»

Queste cose meravigliose durarono fino a consumazione completa dei settantamila abitanti di Gerusalemme, ivi compresi gli Ebrei. Costoro furono ammassati e arrostiti dentro le sinagoghe. Poi i Crociati si riunirono nella grotta del Santo Sepolcro che aveva ospitato i resti del Signore venuto al mondo per predicare la misericordia, e lì piansero di gioia sentendosi finalmente degni di Lui.

Goffredo di Buglione, che di quei masnadieri era certamente il migliore, diventò in pratica il padrone di Gerusalemme in qualità di «difensore del Santo Sepolcro». Onorò il suo titolo battendo un’armata araba venuta alla riscossa, e lo lasciò al fratello Baldovino che gli preferì quello di Re.

Questo «Regno Latino di Gerusalemme» durò fino al 1143, diviso in quattro Principati: Gerusalemme, Antiochia, Edessa e Tripoli, che si resero sempre più autonomi sino a farsi delle piccole guerre tra loro. Il Clero grecoortodosso fu cacciato e sostituito con quello cattolico reclutato in speciali ordini allo stesso tempo religiosi e guerrieri: i Cavalieri Teutonici, i Templari e gli Ospitalieri. Ma questa è una vicenda che esula dal nostro tema. Quelli che a noi interessano sono soprattutto gli effetti che la Crociata ebbe sulla politica, sulla società e sul costume dell’Occidente, e specialmente dell’Italia. Cerchiamo di riassumerli rapidamente.

Il primo e più immediato fu l’apertura del Mediterraneo orientale alle flotte e ai traffici di Venezia e di Genova. Con uno scarso contributo di navi per i servizi logistici della Crociata, le due Repubbliche avevano fatto un grosso affare. Poterono compilare eccellenti carte geografiche di quei mari e di quelle coste, istallare fondachi sul Bosforo, e in Mar Nero, e avviare traffici.

Ma molto più importanti furono le conseguenze indirette sul piano politico, sociale e del costume. Anzitutto, l’impalcatura feudale ne usciva dovunque indebolita. Per finanziare la spedizione, l’aristocrazia, che n’era stata la vera protagonista, aveva venduto i propri possedimenti o li aveva ipotecati a profitto di una nascente borghesia di banchieri. La terra aveva dovuto essere barattata in denaro. E il denaro era l’arma dei ceti urbani e mercantili contro la nobiltà terriera. Per di più molti coloni, già ridotti allo stato di servi della gleba, per arruolarsi sotto la bandiera del loro Signore, ne avevano ottenuto in cambio l’affrancamento del podere. E molti feudi si erano così sgretolati.

Ma del feudalesimo si era sovvertita anche l’etica. Il cavaliere sin allora non aveva riconosciuto altro impegno di vassallaggio che al suo Signore. Con l’arruolamento nella Crociata, aveva contratto un altro obbligo, ancora più alto: quello verso Dio. Nell’alto Medio Evo non ci poteva essere incompatibilità fra il vassallaggio temporale e quello spirituale: la Chiesa non era mai diventata un ufficio di reclutamento militare, non aveva mai bandito «guerre sante», non ne aveva mai combattute materialmente. Il primo a fare eccezione a questa regola millenaria era stato Leone IX, che aveva guidato un proprio esercito contro i Normanni, e ciononostante era stato santificato. Fu il primo caso di «Crociata», ma contro dei Cristiani. E finì male perché i Normanni sconfissero il Papa e lo presero prigioniero. Ma fu la Crociata vera che istaurò la nuova regola. I cavalieri che partirono per la Terrasanta si erano arruolati sotto le bandiere di Cristo, un Cristo per la prima volta militare e conquistatore. La loro lealtà andava prima di tutto a Lui e a chi lo rappresentava in terra, cioè si spostava dall’autorità laica a quella ecclesiastica.

Un secondo vantaggio la Chiesa lo trasse sul piano economico. Essa si era assunta il compito di reclutare l’esercito e di organizzare i servizi. Per procurarsene i mezzi, il Clero aveva reclamato e ottenuto dalle autorità temporali il diritto di tassare la popolazione. Non ci andò con mano leggera. Le esazioni furono così esose che provocarono forti risentimenti da parte delle vittime. Fu il primo seme di quell’odio contro la Curia romana che qualche secolo dopo doveva contribuire alla Riforma protestante. Ma per allora quel rastrellamento di oboli fece della Chiesa la più forte potenza economica d’Europa. Gli oboli non andarono tutti alla Crociata. La maggior parte rimasero nelle tasche degli esattori. Arcivescovati e monasteri se ne impinguarono.

Lo spirito di Crociata sopravvisse anche dopo la fine dell’impresa. D’allora in poi tutt’i pretesti furono buoni per lanciarne, non solo contro i Musulmani, ma anche contro i Cristiani eretici. Ci fu quella contro gli Slavi nella Germania orientale, quella contro gli Albigesi, e perfino, come vedremo, quella contro i tedeschi Hohenstaufen. Da questo momento infatti gli specialisti di diritto canonico cominciano a elaborare la teoria della «guerra giusta». Per essere giusta, una guerra bastava che fosse dichiarata o sostenuta dal Papa.

La Crociata fu insomma un grosso trauma. I reduci ne tornarono con un concetto della civiltà musulmana assai diverso da quello con cui erano partiti. In molte cose l’avevano trovata superiore e più tollerante di quella cristiana e ne importarono in Europa le testimonianze: il compasso, l’arte della stampa e del vetro, i tappeti, le spezie, nonché il costume, che molti di loro avevano adottato, di radersi. Attraverso i loro racconti, molte parole arabe e le favole orientali giunsero all’orecchio dell’Occidente.

Non era che un seme. Ma fiorì.