CAPITOLO NONO

WORMS

Mentre in Terrasanta si svolgeva la Crociata, in Occidente la lotta delle investiture aveva ripreso con più furore di prima.

Enrico V, che si era ribellato al padre perché – aveva detto – non poteva sopportare la scomunica, appena poté, ne ricalcò puntualmente le orme. E stavolta non aveva di fronte un uomo della tempra di Gregorio né la Deborah toscana che ne aveva sostenuto la causa con fanatico zelo. La grande Contessa viveva ancora, appollaiata nel suo castello di Canossa. Ma l’età e gli acciacchi non le consentivano più di salire a cavallo. E sulla cattedra di San Pietro sedeva un timido presule, Pasquale II.

Costui forse non avrebbe nemmeno osato riaprire la partita se non vi fosse stato provocato da Enrico che aveva riempito i Vescovati e gli Arcivescovati del suo Paese di uomini suoi senza chiederne a Roma l’autorizzazione: la Chiesa tedesca si avviava a diventare, cioè a ridiventare una Chiesa di Stato come quella orientale.

Pasquale non protestò direttamente. Ma, spintovi dal partito gregoriano tuttora fortissimo nella Curia, iniziò un giro di propaganda presso i grandi Signori laici dell’alta Italia per garantirsi il loro appoggio in caso di bisogno, e andò a Parigi a sollecitare anche quello del Re di Francia. Qui anzi tenne, a Chalons-sur-Marne e a Troyes, due Concili in cui perentoriamente si ribadiva l’esclusivo diritto del Papa all’investitura dei Vescovi: regola che un terzo Concilio, tenuto in Laterano nel 1110, dichiarò, come si direbbe oggi, «irrinunciabile».

Enrico rilevò il guanto di sfida, e nell’autunno di quello stesso anno calò in Italia con trentamila armati e un folto codazzo di amministratori e di giuristi destinati, nelle sue intenzioni, a governare in suo nome le città italiane. Le accoglienze furono quelle che l’Italia sempre riserba al padrone straniero, quando è forte. Vercelli lo ricevette come un sovrano. Novara, che accennò a fare qualche resistenza, fu privata per castigo delle sue mura, e l’esempio bastò a disarmare i recalcitranti. Secondo un versaiòlo del tempo, Donizone, Milano negò a Enrico onori e denaro. Ma nelle cronache si legge invece che l’accoglienza fu festosa, e fastosa la cerimonia dell’imposizione della ferrea corona di Re d’Italia sulla testa dell’Imperatore da parte dell’arcivescovo Crisolao.

Anche la terribile Contessa stavolta si mostrò ragionevole. Sentendosi invecchiare, essa aveva nel frattempo cercato di associarsi un uomo al potere. Dapprima si era comprato come marito un giovanissimo Duca, Guelfo, che aveva trent’anni meno di lei, già cinquantenne, e gli aveva dato il titolo di Marchese di Toscana. Ma naturalmente anche questo secondo matrimonio non era durato. Dopo un paio d’anni Guelfo aveva disertato quella moglie ingombrante per passare nel campo nemico. E c’è da compatirlo. Ora la Contessa aveva al fianco un altro uomo: Guido Guerra. Ma, invece di sposarlo, più saggiamente lo aveva adottato come figlio. E una volta tanto aveva scelto bene: Guido veniva da una famiglia della piccola nobiltà terriera e militare del Casentino, di origine longobarda o franca. Non sapevano fare che la guerra. Ma quella la facevano così bene che Guerra era diventato addirittura il loro cognome, mentre come pseudonimo portavano ancora quello di «Bevisangue» che si era guadagnato un loro antenato, per quali meriti è facile immaginare.

Guido, la cui casata d’allora in poi doveva svolgere una parte sempre più cospicua nella storia della Toscana, ebbe da Matilde il titolo di Margravio e probabilmente la promessa di conservarlo come feudatario del Papa quando, come disponeva il testamento della Contessa, la Toscana sarebbe diventata parte degli Stati della Chiesa. Ma il testamento, lo abbiamo già detto, non era valido, perché la Toscana era feudo dell’Impero, e all’Impero doveva tornare in caso di vacanza. È quindi molto probabile che Guido stesso inducesse Matilde ad annacquare la sua ostilità a Enrico, di cui domani egli poteva aver bisogno per farsi convalidare il titolo. Comunque è accertato che a Parma un’ambasceria di Canossa venne incontro all’Imperatore per assicurargli che la Toscana lo avrebbe accolto come un sovrano. Enrico reciprocò con fredda cortesia confermando i diritti di Matilde sulle sue terre, ma senza impegnarsi per il successore.

Effettivamente la marcia dell’esercito tedesco incontrò pochi ostacoli. Pontremoli, un piccolo borgo, ebbe il coraggio di chiudersi a testuggine e procurò parecchi guai agl’imperiali. Ma costoro furono amichevolmente accolti da Pisa e Lucca, e la vigilia di Natale posero il campo sotto le mura di Firenze, dove lo spettacolo di quel mare di tende illuminate nel crepuscolo risuscitò il ricordo di un altro pacifico assedio natalizio: quello di Carlomagno, che tre secoli prima era passato di lì. «Con dimostrazioni straordinarie di gioia e con giubilo infinito» dice un cronista «Enrico solennizzò a Firenze la nascita di Nostro Signore. E i cittadini non avevano mai assistito a una festa di tanto splendore e così piena di onori.»

Resistenze, l’Imperatore non ne incontrò ancora che ad Arezzo, ma per motivi che non avevano nulla a che fare con le investiture. Gli aretini si erano ribellati al loro Vescovo che, arroccato nel castello di San Donato fuori delle mura, pretendeva tenere in soggezione la città e ostacolare lo sviluppo dei suoi liberi istituti comunali. Gli avevano distrutto la residenza e l’avevano obbligato a stabilirsi nel centro urbano. Avvicinandosi Enrico, gli mandarono un’ambasceria per chiedergli di riconoscere il fatto compiuto.

Enrico, che veniva a Roma per trattare col Papa, naturalmente rifiutò. Gli aretini decisero la resistenza a oltranza. E con ciò salvarono la loro dignità, ma non le loro vite e le loro case. Torri e mura vennero abbattute, il resto dato alle fiamme. L’esercito imperiale, riprendendo la sua marcia, si lasciò alle spalle un cumulo di fumanti macerie.

A Roma, l’Imperatore ebbe il tatto di non entrare. Si acquartierò a Sutri, e lì il Papa gli venne incontro per discutere l’accordo e il rituale dell’incoronazione. Fu una trattativa lunga e difficile. Alla fine fu stabilito che il rito si sarebbe svolto in San Pietro il 12 febbraio (1111), che l’Imperatore avrebbe rinunciato a nominare i Vescovi e che costoro, a loro volta, avrebbero rinunciato a tutti i privilegi temporali di cui l’Impero li aveva investiti e su cui si basava la loro potenza politica ed economica. In parole povere, il potere laico diceva a quello religioso: «I Vescovi sono tuoi, ma smettano d’interferire negli affari miei».

Naturalmente ai Vescovi tedeschi questa soluzione non piacque. E fu certo per le loro mene che il 12 febbraio, sul più bello del rito che si stava svolgendo in tutta la sua solennità, Enrico lo interruppe alla lettura dei patti già concordati e che ora dovevano essere firmati, dicendo che prima doveva interpellare i suoi dignitari. Costoro rifiutarono l’accordo. Il Papa a sua volta si rifiutò di continuare l’incoronazione. E la cerimonia finì in un parapiglia coi Duchi tedeschi che, sguainata la spada, arrestavano Pasquale, e i soldati e i popolani che fraternizzavano nel comune impegno di saccheggiare vasi e paramenti.

Il Papa restò prigioniero due mesi, durante i quali Roma fu teatro di zuffe e ruberie. Poi si arrese senza condizioni. Riconobbe all’Imperatore il diritto d’investire i Vescovi, e si rassegnò a incoronarlo il 3 aprile.

Enrico ripartì da trionfatore, ma in Laterano scoppiò il finimondo. I gregoriani parlarono di tradimento e di eresia. «Tu non hai concesso un privilegio. Hai commesso un privilegio!» gridarono al povero Pasquale, che fu costretto a ritrattarsi. Messi furono spediti in Germania, dove Enrico era frattanto tornato, per avvertirlo che l’accordo era invalido perché estorto con la violenza, e che le investiture imperiali sarebbero state considerate nulle.

Si ricominciava.

Telecomandati da Roma, i monaci e il basso Clero tedeschi, ch’erano a diretto contatto delle masse, vi seminarono la ribellione. Enrico ebbe il suo daffare a domarla. Ma appena vi fu riuscito, riprese la via delle Alpi alla testa di un altro esercito, la cui robustezza lo esentò dal farvi ricorso. Ricevette l’omaggio delle città lombarde, deviò per una puntata diplomatica a Venezia, dove il Doge lo accolse con molti onori. E fece sosta in Toscana per raccogliere e regolare, non certo in conformità al suo testamento, la successione di Matilde morta l’anno prima. Egli trattò quella Contea o Marchesato (i documenti la qualificano nell’uno e nell’altro modo) come feudo imperiale, e ne investì Margravio un tedesco del suo seguito, un certo Rabodo. Costui morì poco dopo, e fu rimpiazzato da un altro tedesco, Corrado, probabilmente della famiglia bavarese degli Scheier. Insomma era chiaro che Enrico considerava l’Impero una cosa seria e l’Italia una sua legittima provincia.

Roma, donde il Papa era fuggito per rifugiarsi a Benevento, lo salutò festosamente. L’Imperatore ne percorse le strade a cavallo, con l’Imperatrice al fianco, a cavallo anche lei, fra gli applausi del popolino. E autoritariamente s’intromise nelle risse delle famiglie aristocratiche romane che, come al solito, si disputavano la successione al Soglio. Ma non poté condurre a termine la manovra perché fra i suoi soldati scoppiò un’epidemia che lo indusse a riprendere precipitosamente la via del Nord.

Altrettanto precipitosamente Pasquale tornò: in tempo per impedire l’elezione di un Antipapa e per morire con la tiara addosso. Essa si era appena trasferita sulle spalle del successore, Gelasio II della famiglia Caetani, che Enrico, invertita la marcia, ripiombava su Roma. Gelasio fuggì prima a Pisa, poi a Cluny, rimasta sempre la roccaforte del puritanesimo e dell’assolutismo teocratico. Enrico gli contrappose un Antipapa che prese il nome di Gregorio VIII. E fu la solita guerra di reciproci anatemi e scomuniche fino a quando Gelasio morì, lì in Francia, dove elessero come suo successore, col nome di Calisto II, l’arcivescovo Guido di Borgogna.

Era un uomo solido, coraggioso e pieno di buon senso. Comprese che non poteva trattare con l’Imperatore se non a Roma. Vi tornò scacciandone Gregorio. Alla meglio vi mise un certo ordine. E riallacciò buoni rapporti con l’alto Clero tedesco, che in fondo rappresentava la posta del giuoco. Esso voleva salvare i suoi privilegi. Calisto glieli garantì in cambio della collaborazione al raggiungimento di un concordato.

Una intesa preliminare fu raggiunta a Würzburg nel 1121. L’anno dopo il Papa e l’Imperatore s’incontrarono a Worms dove i patti vennero siglati. L’Imperatore rinunciava all’investitura diretta. La Chiesa dal canto suo consentiva che in Germania Vescovi, Arcivescovi e abati fossero eletti dal Clero locale, ma in presenza di un delegato imperiale cui, in caso di dissensi, spettava la scelta definitiva. L’Imperatore poi si riservava la facoltà di dare al prescelto un’investitura laica con la concessione di beni e dei diritti connessi.

Era, per la Chiesa, una ritirata dalle posizioni estreme di Gregorio. Con qualche giro di parole per salvare la faccia, essa riconosceva sostanzialmente la dipendenza dell’alto Clero dal buon volere imperiale. Ma solo per la Germania. Calisto aveva compreso che la situazione non consentiva di vincere. Permetteva solo di limitare la sconfitta in attesa che la situazione cambiasse e il tempo si mettesse al meglio per la Chiesa e al peggio per l’Impero.

Enrico non sopravvisse che tre anni al trattato di Worms. Nel 1125 morì a Utrecht e volle essere sepolto a Spira accanto al padre, di cui aveva tradito l’affetto e continuato la politica.