L’economia feudale era imperniata sulla «Corte», ch’era il complesso degli edifici e dei latifondi gravitanti sul castello o sull’abbazia, e perciò si chiamava «curtense». Alla Corte era estraneo ogni concetto di profitto o di scambio, poiché ciò che si produceva era destinato quasi esclusivamente al fabbisogno interno. L’Italia era una sterminata costellazione di «corti» autarchiche, immobili e inalienabili, in mano a Conti, Vescovi e abati, coltivate da schiavi e da servi della gleba.
La Constitutio de feudis, concedendo l’ereditarietà del feudo ai valvassori, o vassalli minori, frantumò la grande proprietà in un pulviscolo di minifondi. Ma la piccola proprietà era improduttiva perché la rudimentale tecnica di allora non consentiva colture intensive. Perciò molti proprietari preferirono affittare le terre ai coloni, inurbarsi e dedicarsi al commercio. Così la società feudale entrò in crisi.
L’esodo dalla campagna accelerò lo sviluppo della città, che dovette ampliare la cinta delle sue mura e adeguare i servizi alle nuove esigenze. Villaggi di mille anime si trasformarono in metropoli di trentamila, che diventavano vieppiù popolose nei giorni di mercato quando dal contado affluivano in città derrate alimentari, richiamandovi in massa gli abitanti dei borghi vicini. I mercanti diventarono il ceto cittadino dominante. Sul principio del dodicesimo secolo, con le corporazioni di arti e mestieri, associazioni libere sul tipo dei nostri sindacati di categoria, essi si diedero una struttura e uno statuto. Le corporazioni comprendevano i maestri di ciascuna arte, i lavoratori veri e propri e gli apprendisti, che avevano la bottega sulla strada. Di qui l’origine della toponomastica medievale: via degli Orefici, via dei Coronari, via degli Spadari, via dei Fabbri. Era la corporazione (o guilda, come si chiamava nel Nord), che fissava i salari e gli orari di lavoro, disciplinava la produzione, regolava l’acquisto e l’impiego delle materie prime, dettava i prezzi e stabiliva le modalità di vendita.
Il mondo era affamato di beni di consumo. L’industria tessile assunse fin dall’inizio una struttura semicapitalistica. I mercanti, che disponevano di liquido, acquistavano la materia prima, la distribuivano a lavoranti a domicilio e poi rivendevano i manufatti. L’opificio o stabilimento in senso moderno nacque più tardi anche perché l’angusta topografia urbana non ne consentiva l’istallazione entro le mura. Anche l’industria edilizia prese rapidamente l’aire e le città pullularono di cantieri. La prima cartiera fu importata dalla Spagna, e a Venezia spuntarono le prime vetrerie. A Genova, a Venezia, e a Pisa si sviluppò l’industria navale. Dai cantieri di queste Repubbliche uscirono le galere che portarono i Crociati in Terrasanta. Nel Bresciano e nel Bergamasco sorsero le prime fabbriche di armi: spade, lance, elmi, corazze. Le miniere di ferro che le rifornivano erano scarse, ma il loro sfruttamento era relativamente progredito. Attraverso pozzi o piani inclinati, i minatori si calavano nelle gallerie dotate di speciali impianti per l’aerazione, di canali e di uscite di sicurezza. Il minerale veniva estratto a colpi di piccone nella roccia, resa più friabile da fuocate di legna. La manodopera era in prevalenza tedesca.
Ma fu il commercio, più dell’industria, a dare l’impronta alla vita economica italiana dopo il Mille. Il mercante medievale era audace e intraprendente, e le sue iniziative non conoscevano confini. Le coste del Mediterraneo, del Mar Nero, del Caspio erano disseminate di fondachi genovesi, pisani e veneziani, che facevano concorrenza a quelli ebrei, siriani e greci. Alcuni mercanti s’avventuravano nel cuore dell’Asia, spingendosi fino in India, Mongolia e Cina, di dove tornavano con preziosi carichi di spezie, tappeti, ori e damaschi che rivendevano a Re, Principi e Papi. In Africa, i bazar del Cairo e del Marocco erano importanti centri di scambio, mentre ancora inesplorato era il cuore del continente. Siviglia era il più prospero e cosmopolita mercato spagnolo, e in gran numero vi affluivano gli italiani. In Francia, in Germania e nei Paesi Bassi essi detenevano il primato delle vendite e godevano di speciali privilegi.
I viaggi erano lunghi, scomodi e perigliosi, e non solo quelli in Paesi lontani. Anche i trasferimenti da città a città erano pieni d’incognite. Le strade battute dai briganti e i mari infestati dai pirati obbligavano a viaggiare in carovana o in convoglio. Ci si spostava di giorno, e al calar delle tenebre si faceva tappa. Le invasioni barbariche avevano gravemente danneggiato la superba rete viaria romana. Alcuni Comuni riattivarono vecchie strade e costruirono nuovi ponti, ma limitatamente al loro territorio, senza curarsi dei raccordi e delle cosiddette infrastrutture. Nell’Italia del Nord e del Centro fu la Chiesa dapprincipio a provvedere alle comunicazioni attraverso i «fratelli pontefici», confraternite di volontari i quali, in cambio della loro opera, ottenevano la remissione dei peccati. Furono essi, all’inizio del Duecento, a innalzare sul Gottardo il primo ponte sospeso della storia, che agevolò enormemente il traffico tra l’Italia, la Germania e la Francia.
Le comunicazioni in pianura si svolgevano per le vie fluviali, più rapide e meno insidiose di quelle terrestri. L’Arno, per buona parte dell’anno, era navigabile da Signa a Pisa, mentre tra Lucca, Pisa e il mare il traffico veniva disimpegnato, attraverso canali artificiali, da agili battelli.
La navigazione sul Po era intensa, specie nel tratto tra Piacenza e l’Adriatico. Cremona e Reggio scavarono un canale di sessanta chilometri tra Guastalla e la foce del Panaro. Piccoli porti e arterie fluviali artificiali furono costruite da Milano, Bergamo, Brescia, Modena, Bologna.
Dopo i fiumi, le vie di comunicazione più sicure e convenienti erano quelle marittime. Con i bastimenti si trasportavano facilmente merci pesanti e voluminose. La stazza non superava, almeno fino al tredicesimo secolo, le cinquecento, seicento tonnellate. Rudimentali e poco agevoli erano i veicoli terrestri: carri traballanti trainati da buoi o cavalli. Se le piste erano scoscese e accidentate, i trasporti avvenivano a soma o a spalla d’uomo. Per andare da Firenze a Napoli, passando per Terni, l’Aquila, Sulmona e Teano, e cavalcando dall’alba al tramonto, s’impiegavano una quindicina di giorni. Più celeri erano i servizi postali, affidati a corrieri a cavallo che, a brevi intervalli, si davano il cambio; una lettera, spedita da Venezia, in sette-otto giorni veniva recapitata a Bruges.
Più difficoltose erano le comunicazioni con la Francia, la Germania, i Paesi Bassi e quelli dell’Est. Per gran parte dell’anno i valichi alpini erano impraticabili, e anche nella buona stagione le mulattiere non erano di facile transito. I viaggi erano lunghi, e costosi i trasporti, affidati agli abitanti dei comuni montani che si attraversavano, ai quali si pagava uno speciale pedaggio.
Gli spostamenti erano frequenti, specialmente in occasione delle grandi fiere internazionali di Reims, di Bruges, di Francoforte, di Colonia, di Novgorod in Russia. Gli Stati le favorivano e talvolta essi stessi le promuovevano. Municipi e privati concedevano ai mercanti vitto e alloggio gratis, le chiese mettevano a loro disposizione i sagrati per l’esposizione della mercanzia, e i signorotti i magazzini dei loro castelli. Il dazio e l’ige venivano abbuonati. Persino i banditi s’astenevano dalle rapine.
In Italia le fiere più importanti erano quelle di Piacenza, Bologna, Ferrara, Trento e Bolzano. Queste città, gravitando sull’Adige e sul Po, potevano facilmente ricevere e smistare le merci. Le fiere si tenevano di solito due volte l’anno a Pasqua e a San Martino, e notevole era l’afflusso di stranieri, specialmente per il commercio di panni e pelli.
Vigeva allora la cosiddetta «proprietà di relitto» che attribuiva al Signore del luogo il carico della nave che colava a picco o il bagaglio che accidentalmente cadeva dal carro. C’era chi, per provocare i naufragi, faceva dalla costa alle navi false segnalazioni luminose e chi, per facilitare ribaltamenti di carri, scavava buche mimetizzate lungo le strade. Per non subire questi soprusi, alcuni commercianti ebrei elaborarono una «legge mercantile», che non senza difficoltà imposero a Re e Principi. Poiché costoro poco si curavano di farla applicare, le unioni mercantili inviarono nei vari Stati loro rappresentanti, o Consoli, col compito di sottrarre i loro clienti alla legge locale per farli giudicare da quella «mercantile».
Quella del mercante diventò una professione ambita e assai redditizia. Essa esigeva un tirocinio lungo e faticoso. Chi la sceglieva doveva possedere un piccolo gruzzolo, avere qualche nozione di aritmetica e contabilità e conoscere le lingue. I mercanti trattavano di solito più di un articolo, dal piombo alla noce moscata, dalle pelli ai tappeti.
L’economia comunale rilanciò la circolazione monetaria che sostituì il baratto in natura, tipico dell’età feudale. Fino al quattordicesimo secolo, la moneta di maggior corso fu il denaro d’argento, impiegato però esclusivamente sul mercato interno. Fuori, i pagamenti s’effettuavano in moneta d’oro, araba o bizantina, ch’era la valuta pregiata del tempo, come oggi il dollaro o la sterlina.
Conseguenza della rinascita monetaria fu lo sviluppo del credito, che diventò monopolio degli Ebrei e dei Toscani. Ma fu solo con la «Compagna» che nacque il credito commerciale vero e proprio. La Compagna (che letteralmente viene da con pane) o «Commenda» era un’associazione di famiglie che affidavano il loro denaro a un mercante, in cambio di una partecipazione agli utili. Era insomma ciò che oggi si chiama «società anonima». Nel 1171 la banca di Venezia istituì la «lettera di credito», grazie alla quale i capitali diventarono più facilmente mobilitabili.
Fino al Mille il credito, sotto forma di vero e proprio strozzinaggio, era stato praticato in esclusiva dalla Chiesa, sebbene San Girolamo avesse condannato il prestito a interesse e Sant’Ambrogio avesse definito «usura» tutto ciò che «viene aggiunto al capitale». Quando i Comuni strapparono alla Chiesa il monopolio del denaro, essa rispolverò gli antichi divieti, che i banchieri regolarmente eludevano con ingegnosi stratagemmi e cavillosi sofismi. L’usura – essi sostenevano – è peccato se praticata da singoli individui, che possono macchiarsene l’anima. Ma una ditta l’anima non l’ha, e quindi non può andare all’inferno. Molti teologi convalidarono questa tesi, e Innocenzo III disse che a scomunicare gli usurai si sarebbero vuotate le chiese non solo del gregge ma anche dei pastori.
L’economia monetaria mise in crisi l’aristocrazia feudale, la cui ricchezza era tutta terriera. Se i nobili più intraprendenti si inurbarono trasformandosi in mercanti, la maggior parte, per boria o per inerzia, non s’adattò ai tempi che cambiavano, restando così esclusa dal potere politico che passò nelle mani della borghesia mercantile. L’aristocrazia del denaro soppiantò quella del sangue e gettò le basi dell’economia capitalistica.
Vediamo ora il teatro di questa rivoluzione: la città.