CAPITOLO TREDICESIMO

LE LUCI DELLA CITTÀ

La città medievale era in realtà una «cittadella». Sorgeva di solito sul cocuzzolo di un monte, cinta da alte mura in pietra, frastagliate da merli. Sui lati s’ergevano snelle torri, comodi punti d’osservazione lanciati nella pianura circostante, e robusti speroni facevano da contrafforti. Con l’esterno comunicava attraverso una serie di massicce porte di legno, chiodate e grondanti di borchie, anelli e catene. La notte i guardiani le sbarravano e a custodirle restavano alcune sentinelle munite di torce e armate fino ai denti. All’alba venivano riaperte; e contadini, mercanti, pellegrini e cavalieri sciamavano nelle viuzze con le merci più disparate. Accanto alla porta erano istallati il dazio e la dogana e, in tempo di guerra, per varcarne la soglia, bisognava munirsi di uno speciale lasciapassare. Addossate alle mura erano le taverne, le osterie e i bordelli, abituali luoghi di ristoro e di sosta.

Inoltriamoci lentamente dalla periferia verso il centro, e facciamo insieme il giro dell’abitato. Non c’è da stancarsi. Una città era considerata metropoli quando raggiungeva le cinquemila anime. Le strade naturalmente non erano asfaltate. I Romani avevano pavimentato l’Appia, l’Aurelia, la Flaminia con lastre di pietra, e queste grandi vie di comunicazione avevano sfidato l’usura dei secoli e i guasti dei barbari. Ma fuori di queste arterie, carri e pedoni nel Medio Evo marciavano sulla terra battuta che d’estate sollevava nugoli di polvere, e quando pioveva diventava palude. Le strade anche negli abitati erano strette, tortuose, tutte gomiti e gibbosità. Queste viuzze a zig-zag proteggevano dal vento ma erano propizie agli agguati e alle imboscate che infatti erano all’ordine del giorno. Poiché non esistevano fogne, i rifiuti si buttavano per le strade. In mezzo a essi grufolavano i maiali, starnazzavano i polli e giocavano i bambini.

Le case che s’affacciavano su questi angiporti, quasi soffocandoli, non avevano più di due o tre piani. I materiali da costruzione più in uso erano la pietra, il graticcio e l’argilla. I tetti furono dapprincipio di paglia, ma poi i frequenti incendi consigliarono l’uso delle tegole che li rendevano anche più impermeabili all’acqua. La fronte era disadorna, priva di fregi e di decorazioni, e senza balconi. La luce filtrava attraverso le finestrelle simili a bocche di leone e dotate di robuste inferriate. Poiché mancavano di vetri, la pioggia e il gelo vi penetravano facilmente, e a poco servivano la tela e la carta con cui gli inquilini cercavano riparo dalle intemperie. All’interno si accedeva attraverso un portone buio e angusto dal quale partiva una scala cupa e scoscesa che si arrampicava ai piani. Un corridoio conduceva a un piccolo orto posto nel retro che aveva al centro una rozza garitta che faceva da cesso. Non tutte le case ne erano dotate, ma solo quelle dei ricchi. I poveri si servivano dei campi, dei fossi, e in caso di supremo bisogno, anche delle piazze. Per la notte c’erano i pitali e ogni famiglia ne aveva almeno un paio a disposizione. Dopo l’uso, si rovesciava il contenuto dalla finestra e nessuno, di solito, si curava d’avvertire i passanti. I ricchi avevano una seggetta mobile e maneggevole che si portavano appresso anche in viaggio.

La casa degli artigiani, che formavano il grosso della popolazione urbana, aveva una bottega dalla quale si accedeva a un’ampia stanza dove nella più assoluta promiscuità, vivevano, stipate come acciughe, intere famiglie: quella del padrone, quella dei servi, quella degli operai. La crisi degli alloggi era endemica per via della compressione dei nuclei urbani dentro le loro mura. Poco caso si faceva all’arredamento, scomodo, semplice e sommario. Le suppellettili fondamentali erano il letto, il tavolo, la credenza, le sedie, le panche e il cassettone. Il letto consisteva in un monumentale pagliericcio posato su tavole di legno o su tralicci, senza testiera. Chi poteva, vi stendeva sopra un materasso di lana o almeno di crine; solo i nobili l’avevano di piume. Non esistevano lenzuola e le coperte dovevano essere scarse, se i cronisti dell’epoca riferiscono che d’inverno ci si coricava vestiti con cappotti, cappelli e scarpe, mentre d’estate s’andava a dormire completamente nudi. I letti dovevano essere affollati come i nostri tram nelle ore di punta. I padroni dormivano coi servi, i vecchi coi bambini, i figli coi genitori. In queste alcove poteva accadere, e infatti accadeva, di tutto. Pochi privilegiati possedevano talami individuali, protetti da cortine che s’alzavano e s’abbassavano, e sormontati da baldacchini di legno con tanto di stemma.

Ai piedi del letto e al centro della stanza stava un grande braciere. Il primo camino a muro fu istallato a Venezia nel 1227. Il tavolo era una specie di catafalco di legno squadrato con l’accetta, tarchiato e disadorno. Ai lati erano disposte panche, sedie e sgabelli, e a una delle pareti era addossato il cassettone che faceva da comò, guardaroba e forziere. In esso si custodivano gli abiti, i gioielli, le pergamene e i messali. Non mancava una madia per la farina e il pane che si cuoceva in casa. Naturalmente c’era anche una credenza con mensole di legno sulle quali erano allineati i piatti, le pentole, i bicchieri, le ampolle per l’olio e l’aceto e le piccole botti di vino. Le stoviglie erano di legno e intagliate in modo assai rudimentale. I ricchi disponevano di vasellame d’argento, di peltro o addirittura d’oro, ma solo nelle grandi occasioni ne facevano sfoggio. Per tutti i giorni s’accontentavano anche loro di piatti e di scodelle di legno, o tutt’al più di terracotta. La tavola s’apparecchiava semplicemente con tazze, cucchiai e una rustica tovaglia ai cui lembi i commensali si pulivano la bocca e le mani. Le forchette erano sconosciute e invece del coltello s’usava il pugnale che ciascuno portava con sé, e non solo per mangiare. I pasti si svolgevano la mattina alle dieci e il pomeriggio alle quattro. Solo gli ecclesiastici che dovevano celebrare la messa e fare la comunione ritardavano la colazione alle undici e mezza.

Il ceto dettava le diete. La plebe s’accontentava di un tozzo di pane, una fetta di lardo come companatico e un po’ di verdura. La minestra veniva servita in un’immensa zuppiera alla quale tutti attingevano con cucchiai che avevano la sagoma e la capacità di mestoli. Il pane era di varie qualità: bianco, nero, casareccio, e vari erano gl’ingredienti: l’orzo, la spelta o la farina di grano. Il menù era più abbondante e succulento la domenica e i giorni festivi. Allora anche sulle mense dei poveri compariva la carne che poteva essere di pollo, di vitello, o più spesso di porco perché non c’era famiglia che non avesse il suo.

Non mancava la selvaggina in un’età in cui molto si praticava la caccia: lepri, quaglie, pernici, tortore, pavoni e fenicotteri, la cui lingua era un piatto assai prelibato. A differenza di quella romana, la cucina medievale faceva pochissimo uso di pesci, e fra questi preferiva le murene, le triglie e le sogliole. Il popolino s’accontentava di aringhe sotto sale che mangiava col pane e innaffiava con un bicchiere di vino. A Firenze si mangiavano in abbondanza le castagne. Il castagnaccio è stato probabilmente il primo dolce nazionale. Veniva venduto per le strade in quei recipienti rotondi di metallo coi bordi molto bassi e senza manico che ancora si chiamano teglie.

I Musulmani avevano portato in Sicilia la pasticceria, e i Normanni ne diffusero le squisitezze, confezionate con miele, marmellata e grasso. I cuochi di Federico II furono tra i migliori del tempo, e le loro ricette fecero il giro d’Europa. Solo i monaci e le carmelitane seppero eguagliare la loro raffinata arte culinaria.

Tra le bevande il posto d’onore era tenuto dai vini, che s’intitolavano al luogo di produzione o alla qualità del vitigno. Ce n’erano di bianchi e di rossi, dolci, secchi, sulla vena, dal Sorrentino all’Albano, dal Falerno al Cecubo, ch’era il più pregiato. Alcuni osti per invecchiarlo l’affumicavano e altri per aumentare la produzione l’annacquavano. I tempi – come si vede – non cambiano mai. Vini speciali si ottenevano con misture di miele, assenzio, zafferano o mirra, ma essi comparivano solo sulle mense dei ricchi. In Germania e in Inghilterra si beveva in abbondanza la birra da noi quasi sconosciuta, salvo in alcune taverne del Veneto e della Lombardia, che l’acquistavano dai mercanti del Nord. Il caffè, che deriva dalla parola araba Gahwah che i Turchi pronunciavano Gahvè, fu introdotto in Italia dai veneziani solo nel Quattrocento, ma comunque assai prima del tè che la Compagnia olandese delle Indie importò per prima in Occidente.

Durante i pasti non solo si beveva copiosamente, ma si cantava allegramente. Ogni momento della giornata era buono per far baldoria specie nei castelli. Alla fine del dodicesimo secolo risalgono le prime corti imbandite che evocavano i banchetti di Trimalcione descritti da Petronio nel Satiricon. Il cronista Donizone narra che Bonifacio di Canossa, in occasione delle sue nozze con Beatrice, madre della contessa Matilde, invitò decine di Conti e Duchi ai quali fece servire ettolitri di vino tratto da pozzi con secchi d’oro. Per le nozze della figlia, un Conte lombardo offrì un pranzo di diciotto portate che comprendevano, tra l’altro, porcellini dorati, lepri, capponi, storioni, anguille, capretti, pavoni. Da un vitello arrosto o da una torta poteva a un tratto balzar fuori un osceno nanerottolo che cantava, ballava e lanciava lazzi scurrili. Ogni Signore aveva la sua piccola corte di giullari, giocolieri e buffoni che s’importavano di solito dall’Oriente ed erano pagati a peso d’oro. I più applauditi erano gli acrobati, i ballerini, i ventriloqui e gl’imitatori. Ce n’era uno, per esempio, che sapeva ragliare come un asino e imitare il canto della capinera. Le dame impazzivano per lui e lo colmavano di doni.

Spesso i banchetti erano allietati dalle danze di giovani e avvenenti baiadere, accompagnate da orchestrine di musici vaganti che suonavano l’arpa, la cetra, la lira, gli strumenti più in voga nel Medio Evo. Sovente il tutto degenerava in orgia e qualche volta ci scappava anche il morto. Ci scappava anzi regolarmente quando il padrone di casa voleva sbarazzarsi di un rivale. Il veleno in una coppa di vino era un’arma più silenziosa e micidiale del pugnale, e con esso si compivano le vendette.

Per ovviare a questi piccoli inconvenienti, fu istituito il cosiddetto «assaggio». L’anfitrione metteva a disposizione dell’ospite un servo che pregustava i cibi. Se costui moriva, le mense si trasformavano in veri e propri campi di battaglia. Fu così giocoforza escogitare nuovi inganni e si cominciò a cospargere d’arsenico i tovaglioli, i piatti, gli stuzzicadenti e specialmente il sale. Si diffuse allora l’uso delle saliere personali munite di lucchetto e di chiave. I più superstiziosi portavano in tasca amuleti e talismani credendo in questo modo di essere immuni dai veleni.

I cronisti contemporanei ci hanno lasciato circostanziate descrizioni dei banchetti medievali che allietavano i parti, i battesimi, i matrimoni e i funerali. I figli si scodellavano in casa col solo ausilio della levatrice. La puerpera, dopo essersi sgravata, era circondata dalle amiche e festeggiata. Poi, con l’aiuto della comare, si calava nuda in una tinozza. Se tra le presenti c’erano donne sterili, costoro s’immergevano nella stessa vasca perché era diffusa la credenza che l’acqua in cui s’era bagnata una partoriente propiziasse la fecondità. La puerpera stava a letto almeno un mese, e s’alzava solo per cambiarsi e indossare le più belle camicie del suo corredo. Se era molto ricca, la sua stanza era addobbata con tendaggi e cortine di damasco e il suo letto ricoperto di lenzuola ricamate e trapunte d’argento. I colori più usati per questi addobbi erano il rosso, il verde e l’azzurro; ma se il neonato moriva durante il parto, si parava la camera di nero. Davanti al letto era collocata una credenza, colma di ogni ben di Dio: frutta, dolci, vini, poiché gli ospiti festeggiavano il lieto evento con pantagrueliche mangiate e omeriche bevute.

Il neonato veniva a sua volta lavato con acqua ed erbe aromatiche, o con vino rosso, oppure con una mistura d’acqua e uova sbattute: usi che ancora sopravvivono in alcune regioni d’Italia, specialmente nel Sud. Poi la nutrice lo deponeva in una culla pavesata di nastri colorati. Il battesimo avveniva dopo una decina di giorni e si svolgeva in chiesa al cospetto dei padrini che erano almeno una dozzina, ma potevano ascendere anche a cinquanta. Ogni chiesa aveva il suo registro battesimale, nel quale il neonato veniva regolarmente iscritto. Gli s’impartiva un nome ch’era di solito quello di un Santo o di un Martire, e un cognome ch’era quello della famiglia e spesso derivava da una caratteristica fisica o morale come per esempio i Bonomi, i Boccaccio, i Piccolini, i Bujardo. Nella Roma del tardo Medio Evo si cominciò a scommettere sul sesso dei nascituri. Gli allibratori facevano combutta con le levatrici e le balie, e alcuni diventarono molto ricchi. Il gioco fu proibito dai Papi, ma continuò a prosperare clandestinamente.

Fino al Mille, almeno in Italia, il matrimonio si svolse secondo l’uso longobardo. Successivamente gli antichi istituti romani ripresero il sopravvento. Fra questi il più importante era la dote. Ancora nel decimo secolo era lo sposo che, secondo l’uso germanico, la portava alla sposa. Il connubio veniva combinato dal padre della ragazza (se questa era orfana, dal tutore) che stipulava un vero e proprio contratto col futuro genero. Costui donava al suocero una pelliccia di volpe e ne riceveva in cambio il mundio, col quale gli veniva riconosciuto il possesso e assegnata la tutela della donna che s’accingeva a sposare, considerata poco più di un oggetto.

I matrimoni erano molto precoci e una donna a venticinque anni era già considerata una zitella senza speranze. A sette-otto si poteva già essere fidanzati. Una certa Grazia di Saleby andò sposa a un vecchio gentiluomo quando aveva appena quattro anni, a cinque rimase vedova, a sei si rimaritò con un nobile, ma poiché anche questo morì prematuramente, undicenne celebrò le sue terze nozze, che non sappiamo se furono anche le ultime. Grazia fu un’eccezione perché le leggi fissavano l’età della sposa a dodici anni e quella dello sposo a quattordici. Anche la Chiesa s’opponeva ai connubi troppo precoci, ma con una buona somma di denaro era facile ottenere la dispensa, con la quale anche i lattanti potevano sposarsi.

Nel X secolo il sacerdote aveva cominciato ad assistere al matrimonio che si celebrava sul sagrato. La cerimonia cominciava davanti alla casa della sposa dove si formava il corteo che snodandosi attraverso le vie della città, muoveva verso la chiesa. Lo guidava la sposa, scortata da due paggetti che reggevano una pianticella di rosmarino, seguiti da una specie di fanfara o da un gruppo di vergini – o presunte tali – biancovestite. Chiudevano la processione i parenti e gli amici. Sulla soglia della chiesa il prete e lo sposo attendevano il corteo. Quando questo giungeva cominciava il rito che culminava nel fatidico «sì» suggellato dalla promessa della sposa di essere «fedele e sottomessa al marito». Il sacerdote celebrava quindi la messa alla quale seguiva il banchetto nuziale che veniva allestito nella navata centrale della chiesa e durava fino a sera quando gli sposi, accompagnati dagli amici e inseguiti da turbe di corbellatori che li bersagliavano con escrementi e acqua sporca, s’avviavano alla volta di casa. Si dirigevano subito verso la camera da letto e si spogliavano davanti a tutti in attesa del prete che doveva venire a benedirli, spruzzandoli d’acqua santa e cospargendoli di incenso per cacciare il Demonio che stava sempre in agguato. Spesso l’esorcista tardava, e allora bisognava mandare qualcuno, con una lauta mancia, a chiamarlo. A mezzanotte, gli sposi licenziavano gli amici e si calavano nell’alcova, costruita a mo’ di baldacchino e celata da una tenda agli sguardi indiscreti dei servi. In teoria, per tre notti – le cosiddette notti di Tobia – non doveva succedere nulla, pena la scomunica, ma nella realtà il matrimonio veniva regolarmente consumato. Nei castelli feudali vigeva il cosiddetto jus primae noctis che dava diritto al Signore di spulzellare la sposa, se già non l’aveva fatto prima. Questo privilegio, barbaro per la donna, ma spesso gravoso anche per chi lo esercitava, si chiamava droit de cuissage in Francia, marchette in Inghilterra e cazzagio in Piemonte. Di questa prerogativa godevano anche, anzi soprattutto, gli abati, titolari dei grandi monasteri.

Come il battesimo e il matrimonio, anche il funerale aveva un suo rituale e una sua pompa. Nel Medio Evo tutto era pubblico, anche la morte. Al capezzale di un moribondo si davano convegno i parenti, gli amici e i preti i quali non l’abbandonavano un istante, specialmente se si trattava di un ricco. Tutti pregavano, cantavano e recitavano i Salmi. Subito dopo il trapasso si preparava la sepoltura alla quale attendevano gli stessi familiari perché i becchini non comparvero fino alla metà del Trecento, dopo la grande epidemia di peste che nel 1348 decimò letteralmente la popolazione europea. Presso i Romani avevano funzionato imprese di pompe funebri, ma coi secoli bui se n’era persa ogni traccia. Il morto veniva denudato, calato in una vasca e lavato con acqua calda profumata di salvia e di altri aromi.

Le esequie tributate ai ricchi erano invece molto solenni. Il corteo funebre s’apriva con una banda di suonatori di flauti, corni e tube, seguiti dalle prefiche, vedove o zitelle che piangevano su ordinazione e dietro compenso. Venivano poi i parenti del morto. Le donne esprimevano il loro cordoglio strappandosi i capelli, lacerandosi le vesti e cacciando alti lamenti. Alcune, in preda a crisi isteriche, si gettavano a terra, strabuzzavano gli occhi, roteavano la testa fin quasi a svitarla, s’avventavano a capofitto contro un muro o tentavano di sbarbicare un albero. Non era raro il caso che un funerale mietesse qualche vittima tra coloro che così clamorosamente vi partecipavano. In segno di lutto i Romani indossavano abiti scuri, e quest’uso fu conservato nel Medio Evo. Le donne smettevano le vesti chiassose e attillate e infilavano ampi mantelli neri con cappuccio, si coprivano il volto con veli bianchi e si cingevano le tempie di bende dello stesso colore. Dopo il funerale si celebrava un banchetto che spesso degenerava in autentica gozzoviglia.

I Romani andavano in villeggiatura e noi sappiamo che Cassiodoro aveva una villa in Calabria e Plinio sul lago di Como. Nell’Italia feudale e rurale non c’era bisogno di spostarsi per trovare un po’ di verde e di pace. La Penisola era tutta campagna, e fino al Mille nelle poche città scampate alla furia dei barbari si vedevano pascolare le greggi. Poi, quando risbocciò la vita urbana, tornò la voga delle gite fuori porta, anche perché le città erano anguste e ci si stava stretti. Molto in uso erano i picnic e le camporelle. I giovani facevano romanticamente all’amore sotto gli alberi o sulle ripe dei fiumi, e il Decamerone è pieno di questi idilli.

Altri passatempi erano le feste e gli sport. Con danze e banchetti si celebravano l’onomastico, le nozze d’oro e d’argento, l’addio alla pubertà. Si festeggiavano l’Assunta, il Santo Patrono, il Natale e la Pasqua. Quest’ultima era una ricorrenza soprattutto gastronomica a base di uova, salame e abbacchio. Piatti natalizi erano invece il capitone, che ancora oggi non manca mai sulle tavole dei Romani e che vorrebbe simboleggiare il serpente che si morde la coda, cioè l’eternità. Forse fu nel Lazio che cominciò a diffondersi l’uso del presepio mentre l’albero di Natale sappiamo con certezza che è d’origine germanica e molto posteriore: fu preparato la prima volta dalla Duchessa di Bried nel 1611. In alcune città di Francia e d’Italia sopravvissero i saturnali, ma al posto del Principe s’eleggeva un «papa dei folli» a cui venivano conferite le insegne pontifice. Il papa, issato a bordo di un asino, addobbato con fiocchi, trine e sonagli benediva il popolo e celebrava una messa, seguita da un lauto festino ai piedi dell’altare.

Col tempo queste sagre diventarono sempre più scollacciate e gli eccessi cui giunsero obbligarono la Chiesa a vietarle e a scomunicare coloro che vi partecipavano. Da esse deriva il nostro Carnevale che, perduto ogni carattere di satira religiosa, è diventato una festa profana. In quest’epoca grande solennità rivestivano le processioni, che avevano lo scopo di scongiurare una carestia o un’epidemia, di tener lontano il nemico, di render grazie a Dio o alla Madonna per un qualche beneficio ricevuto. Quella medievale era una civiltà corale, impregnata di misticismo, bigotta, superstiziosa e a forte rilievo teatrale.

Molta voga vi ebbero le «laudi», i «misteri» e i drammi liturgici, sacre rappresentazioni che si svolgevano fra le navate delle chiese, sui sagrati, nei conventi e sulle piazze con gran concorso di pubblico. I soggetti erano tratti dal Nuovo Testamento, le scene erano mobili e rappresentavano la Natività, la Passione e la Resurrezione. Gli attori venivano presi dalla strada perché quelli professionisti erano perseguitati dalla Chiesa che li giudicava alleati del Demonio. Le donne non erano ammesse e le parti femminili venivano sostenute da giovinetti. Ma le sacre rappresentazioni finirono col tediare gli spettatori, e coi primi giullari e menestrelli scomparvero. I nuovi repertori non s’ispirarono più al Vangelo, ma alle gesta di Rolando e agli amori di dame infelici e bellissime. Il teatro non era ancora lo specchio della vita, ma aveva cessato di essere un’anticipazione dell’aldilà.

La Cavalleria portò i tornei e le giostre, che diventarono gli sport non solo più nobili, ma anche i più popolari. I tornei si svolgevano in un’ampia pista circolare e consistevano in combattimenti ai quali partecipavano quadriglie di cavalieri, che avventandosi gli uni contro gli altri tentavano di disarcionarsi a vicenda. La giostra era un torneo con due soli concorrenti, muniti di lancia e spada. Sovente questi duelli avevano un esito mortale, e per questo la Chiesa finì col condannarli, scomunicando i partecipanti e rifiutando la sepoltura cristiana a chi vi soccombeva. Le giostre e i tornei continuarono a disputarsi, ma i cavalieri adottarono armi spuntate, o «cortesi». Poi, col tempo, si rinunziò anche a queste, e i duelli si trasformarono in caroselli, esibizioni di virtuosismo equestre che un araldo annunziava per le vie della città.

I cavalieri scendevano in lizza indossando sontuose vesti di velluto e di broccato e superbi cimieri impennacchiati. I cavalli erano ricoperti di gualdrappe di lana a scacchi sulle quali erano riprodotti gli stemmi araldici di ciascun concorrente e i motti d’amore composti in lode della dama per la quale giostravano. Essa premiava con un gioiello, con una spada o un drappo ricamato e trapunto d’oro il vincitore, che la baciava sulla fronte. Finito il carosello, si svolgeva un banchetto che si protraeva fino all’alba, tra canti e danze. Una giostra molto popolare fu per tutto il Medio Evo la «quintana», d’origine saracena, che consisteva nel colpire con una lancia un fantoccio ruotante su un perno e con le braccia snodate e articolate in modo tale da assestare una gran ceffata a chi mancava il bersaglio. Frequenti furono pure per secoli le corse di cavalli, o palii, chiamati così perché il vincitore riceveva in premio un drappo, o pallium.

Altra grande passione del tempo furono i giuochi: i dadi, gli scacchi, la zara. I dadi erano piccoli cubi in osso oppure in avorio, in vetro, in piombo o in terracotta. La partita si disputava con tre dadi che si gettavano sopra una tavola con la mano oppure con un bussolotto chiamato «torre». Le puntate variavano, ma di solito erano molto alte. Un tale in una sola mano perdette un castello, un altro dilapidò tutto il suo patrimonio e dovette addirittura dare in pegno al vincitore la propria moglie. Gli scacchi furono importati in Italia dai Crociati di Palestina dove questo giuoco, d’origine indiana o persiana, era assai popolare. Vari editti furono promulgati contro gli scacchi da Pontefici, Vescovi, e dal Re di Francia Luigi IX, ma restarono lettera morta. Erano lo svago preferito dei nobili i quali, essendo completamente analfabeti, non avevano altro modo di passare il tempo nei loro castelli. La «zara» era una specie di tavola reale: si lanciava in aria un dado e si diceva un numero dall’uno al sei. Chi l’indovinava vinceva, chi non vinceva bestemmiava e qualche volta, se temeva di essere stato ciurmato, poneva mano al pugnale o alla spada.

Una sola attività distraeva l’uomo medievale dai giuochi d’azzardo: la caccia, che fu per secoli lo sport principe dei ricchi e degli aristocratici. I castelli e le tenute di campagna avevano intere sale adibite ad armerie, e i loro Signori allevavano personalmente cani e falconi. La falconeria diventò un’arte alla quale anche le dame si dedicavano. Il rapace andava addomesticato e istruito a seconda dell’impiego al quale s’intendeva destinarlo: voli a distesa, altani, di riviera eccetera. Un buon cacciatore doveva anche conoscere il carattere del suo falcone: se esso era troppo spavaldo gli dava da mangiare carne cotta nel vino; se invece si mostrava timido lo rimpinzava di petto di colombo intinto nell’aceto. Quando era in amore gli propinava, in dosi minime, arsenico rosso; se volava alto gli spennava il groppone obbligandolo così, per il freddo, ad abbassare la quota. Alcuni falconi valevano più di una mandria di buoi. Ci fu un vescovo che per acquistarne uno vendette la parrocchia, e un altro prelato, per paura che qualcuno gli rubasse il suo, se lo portava in chiesa e quando celebrava la messa lo collocava sull’altare. Quando il volatile era raffreddato lo si purgava e poi, con una sottile pagliuzza, gli si soffiava nel naso una polvere di pepe, garofano e tabacco. La farmacopea era complicatissima, e il semplice starnuto di un falcone piombava nello sgomento il suo proprietario. Questi rapaci venivano agghindati come dame, impennacchiati di piume, inanellati, avvolti in mantelline tempestate di pietre preziose, ricoperti di ciondoli, catenelle e sonagli. Le leggi garantivano loro una speciale protezione, e chi li uccideva veniva punito come se si fosse macchiato del sangue di uno schiavo. Oltre che coi cani e coi falconi, si cacciava con trappole, reti, lacci, penere, e come armi s’impiegavano fionde, frecce, coltelli, lance. La venagione fu a più riprese condannata dai Concili ecumenici, dopo che i Padri della Chiesa l’avevano definita uno sport crudele, ars nequissima. Ma nel Rinascimento essa diventerà il passatempo di molti ecclesiastici e di Leone X, che fu il primo papa cacciatore.

L’Italia era un melting-pot di razze: c’erano gli antichi indigeni italici, gli Arabi e i Normanni in Sicilia, residuati Bizantini nel Mezzogiorno, qua e là sacche longobarde, gote e franche, e gli Ebrei un po’ dappertutto. Ciascuno di questi popoli aveva fogge proprie, che però lentamente si fusero. I capi di vestiario dell’uomo comune erano semplici e di rozza fattura: pantaloni aderenti lunghi fino al ginocchio, di stoffa pesante o di cuoio, una blusa di lana fermata alla vita da una cintura dalla quale pendevano un mazzo di chiavi, un pugnale, gli arnesi di lavoro e una borsa, che poi fu detronizzata dalla tasca. Le calze, variopinte e di lana, arrivavano fino alla coscia, e le scarpe di cuoio avevano la punta rialzata per impedire a chi le portava di inciampare. Sulle spalle l’uomo indossava una mantellina che lo riparava, in mancanza dell’ombrello, dalla pioggia e dalla neve. In testa portava un berretto o un cappello a punta che poteva essere di feltro o di pelle. Poiché non esistevano i bottoni, si faceva grande uso di fibbie, cordoni e lacci.

L’abbigliamento dei ricchi era naturalmente più vario. Gli abiti erano ricamati, guarniti di pizzi e di gale, e orlati di pelliccia d’ermellino, ma più spesso di volpe o di lince. I più raffinati si mettevano i guanti, simbolo in origine di investitura feudale, e s’ingioiellavano. Quasi tutti portavano al dito un anello munito di sigillo, di cui si servivano per firmare. Nessuno, ricco o povero che fosse, indossava le mutande, conosciute dai Romani, ma di cui si era perso l’uso. Esse ricompariranno durante il Rinascimento, ma solo sulle natiche delle prostitute. Solo nell’Ottocento diventeranno un indumento essenziale e obbligatorie almeno in pubblico.

Cicerone, Cesare, Augusto non portavano la barba, gli Imperatori della decadenza l’adottarono, i Longobardi e i Franchi avevano barbe folte, lunghe e ricciolute. Ma dopo le Crociate, gli uomini ricominciarono a radersi. A Firenze esistevano barberie gestite da donne che fungevano anche da case d’appuntamento. I capelli si portavano lunghi, arricciati e con tanto di frangia, alla guisa dei Beatles. I nobili ostentavano le trecce, e se le intralicciavano con spille, gale e fili d’oro.

La moda maschile, nel complesso, subì più l’influsso di quella germanica che di quella romana, il cui capo fondamentale era la toga, sconosciuta nel Medio Evo. Le fogge femminili invece si ispirarono a lungo a quelle romane e bizantine. Le donne indossavano sottane di panno simili a tuniche con ampie maniche; oppure, nella stagione calda, un manto di lana o di lino, chiamato socca, che scendeva fino ai piedi e che una fibbia fermava sulla spalla. D’epoca più tarda è la zimarra, soprabito foderato di pelliccia, con o senza maniche, guarnito di alamari, frange e ricami.

Le scollature erano generose, e molti se ne scandalizzavano. Ne facevano scialo specialmente le fiorentine che – dice Dante – «van mostrando con le poppe il petto». Le signore della buona società indossavano il velo, importato in Italia dai Crociati. Di solito esso era molto lungo e copriva non solo il volto, ma anche le spalle, e un diadema lo incollava alla fronte. Col tempo passò di moda e fu sostituito dal cosiddetto «cappuccio a foggia» dalla cui punta, o becchetto, si srotolava una garza che scendeva fino ai piedi.

Le nobildonne sfoggiavano cappelli conici ornati di corna, alle quali nel Medio Evo non si prestava alcun significato allusivo, e nei loro guardaroba non mancavano le pellicce. Di cuoio erano le scarpe, e di broccato o di seta le pantofole. Se le Romane portavano a mo’ di busto delle fasce turgide e spesse, le dame del Duecento ignoravano il reggipetto.

Sconosciuto era l’uso del fazzoletto che anche presso gli antichi non aveva mai avuto grande fortuna poiché, fin dai tempi di Cesare, il naso lo si soffiava con le dita. Per i Greci poi nettarsi il moccio con una pezzuola era considerato addirittura un atto sconcio, incompatibile con l’igiene e il galateo. Il fazzoletto fu una conquista del Rinascimento, sebbene anche allora il popolino preferisse ricorrere alle dita o ai lembi della blusa.

Come oggi, le acconciature femminili erano infinite e bizzarre. Se le Romane avevano avuto un debole per le chiome rosso fiamma, le donne medievali preferivano il biondo, contrassegno di razza e di classe: i nobili infatti, essendo di origine tedesca, erano quasi tutti biondi. Le castane e le brune si tingevano e si facevano confezionare i cosiddetti «posticci». Una dama piemontese allevava una corte di paggi biondi a cui faceva tagliare i capelli coi quali poi s’abbelliva. Le chiome potevano essere a torciglioni, a balzo, a crocchia, e di solito s’avvolgevano in cuffie, reti dorate, maspilli.

Complicatissimo anche allora era il maquillage, i cui ingredienti basilari erano il rossetto e la crema, fatta di un velenoso intruglio di polvere di piombo, aceto e miele che conferiva all’incarnato un colore bianco e opaco simile a quello della biacca, ma che col tempo corrodeva il volto e lo deturpava. Per truccarsi gli occhi, le donne usavano un carboncino d’antimonio e nerofumo, antenato del moderno rimmel.

Altri cosmetici molto in voga erano lo zafferano che dava vivacità alle gote, le mandorle, le fave, le cipolle, le ali d’api. Al posto del sapone s’usava la soda o la farina di fave, mentre per la pulizia dei denti si ricorreva all’orina di fanciullo impastata con pomice e marmo grattugiati, oppure con polveri di corno di cervo, cranio di lupi e gusci d’uovo. I Crociati, tra le altre cose, portarono in Occidente anche i profumi, di cui gli Arabi furono, per secoli, i più sapienti distillatori. Uomini e donne se ne cospargevano abbondantemente il corpo e gli abiti. Si profumavano perfino le vivande e le cavalcature.

La chimica non era solo al servizio della bellezza, ma anche della medicina che impiegava quasi esclusivamente prodotti vegetali ed erbe, fra le quali la più celebre, grazie anche alla nota commedia del Machiavelli, era la mandragola, una pianta velenosa cui si attribuiva, tra l’altro, il potere di favorire i flussi mestruali. Molto noto era anche il laserpizio, conosciuto dai Greci e Romani e usato come tonico, digestivo e lassativo. Era considerato un toccasana infallibile e guariva un’infinità di malattie: dal raffreddore all’asma, dall’epilessia alla pleurite, faceva scoppiare le serpi e starnutire le capre.

Contro la calvizie pare che non ci fosse rimedio più efficace di un timballo a base di pepe, zafferano e sterco di topo, il tutto abbondantemente innaffiato di aceto. L’anemia si curava con la cosiddetta mumia, un liquido estratto dalla decomposizione dei cadaveri. I primi a scoprirne le miracolose virtù terapeutiche erano stati gli Egiziani che la ricavavano dalle mummie dei faraoni. I Crociati la propagarono in Occidente, dove si cominciò a estrarre la mumia dai corpi di giovinette morte vergini o in odor di santità.

Le malattie però, più che coi farmaci, si combattevano coi talismani e gli esorcismi. L’unghia di alce, per esempio, si diceva che guarisse l’epilessia, chi perdeva la memoria la riacquistava con la lingua dell’ùpupa, il corno di cervo debellava la sterilità, e la pelle di serpente alleviava le doglie. Poteri terapeutici avevano anche le pietre preziose: il diamante era un antidoto contro la colite spastica, lo zaffiro stroncava il morbillo, e lo smeraldo guariva la dissenteria e l’emorragie.

A scopo curativo si praticava anche la fustigazione che i medici prescrivevano contro la febbre quartana, la pazzia e la frigidità. Ma la ricetta più piacevole era l’amore, raccomandato contro l’emicrania, l’inappetenza e la diarrea. Al capezzale di Luigi VII di Francia, minato appunto dalla diarrea, i medici convocarono una formosa pulzella. Ma il Re, ch’era molto bigotto, ne rifiutò sdegnosamente i favori.

I medici comuni, dapprincipio, furono esclusivamente monaci e chierici. Poi nel 1135 il Concilio Laterano proibì agli ecclesiastici d’esercitare quel mestiere che passò nelle mani dei laici. A esso diede impulso la scuola Salernitana, che abilitava alla professione coloro che la frequentavano per almeno cinque anni e per un altro facevano pratica presso un anziano ed esperto medico. Questa celebre scuola, che fu la prima università italiana, rilasciava il titolo di maestro, essendo quello di dottore riservato, all’inizio, solo agl’insegnanti. Era il medico stesso che manipolava e faceva manipolare i farmaci, di cui i suoi malati avevano bisogno.

I medici di solito si facevano pagare in anticipo, guadagnavano molto e disdegnavano la chirurgia che veniva praticata dai barbieri e dai cerusici. Chiunque poteva compiere un’operazione a patto che trovasse qualcuno disposto a sottoporvisi. Non erano richiesti speciali requisiti: bastava aver assistito a qualche dissezione. Il cadavere, deposto su un tavolo di marmo, veniva squarciato da un infermiere, il quale seguiva le istruzioni di un cerusico che leggeva ad alta voce un manuale d’anatomia, naturalmente molto sommario e pieno di sfondoni.

Accanto alla farmacia si sviluppò l’alchimia che spesso con quella si confondeva. Di solito non si trattava che di ciarlatani i quali imbrogliavano i gonzi gabellando per elisir di lunga vita pomate di farina o intrugli d’acqua e sale. A loro volta non si differenziavano molto dagli astrologi che dallo studio degli astri e delle costellazioni traevano oroscopi e ricette. I purganti, per esempio, avevano un effetto portentoso se presi sotto il segno dei pesci; mentre gli emetici, che provocavano il vomito, andavano propinati sotto quello del leone.

La farmacia medievale, che in origine non vendeva solo medicine ma anche candele e articoli di cancelleria, era dotata di ampie scaffalature contenenti storte, alambicchi, mortai e decine di vasetti di maiolica, o alberelli, pieni di erbe, polveri e pomate. Alcune farmacie decoravano le pareti con animali imbalsamati e quadri d’autore. Era il farmacista che analizzava le urine, mentre chi aveva bisogno di un salasso doveva rivolgersi a un barbiere, il quale era anche chirurgo ortopedico. Le operazioni si facevano di solito a domicilio e i ferri del chirurgo erano la sega, una bacinella, un paio di coltelli e il martello, che veniva impiegato per stordire il malato quando il dolore diventava insopportabile. Questa rudimentale forma di anestesia era spesso fatale a colui che la subiva.

Le cose andarono un po’ meglio dopo il Mille, quando cominciarono a sorgere i primi ospedali, adibiti in origine soprattutto a lebbrosari. I più antichi in Italia furono quelli di San Giovanni a Pisa e di Altopascio, in provincia di Lucca. In seguito alle grandi epidemie di colera e di peste che s’abbatterono in Europa, decimandola, si fondarono i lazzaretti, dove, per impedire il contagio, i degenti erano tenuti in quarantena e isolati dal resto del mondo.

Il contagio era facilitato dai viaggi che col risveglio della vita umana e la conseguente rinascita del commercio si fecero sempre più frequenti e sempre meno avventurosi, sebbene le contrade continuassero a essere infestate da briganti. Ma poiché si cominciava a viaggiare in comitiva, diminuiva il pericolo delle rapine e delle imboscate. Carlomagno, quando non cavalcava, si spostava a bordo di rozze e pesanti carrette di legno trainate da buoi, che furono il principale veicolo medievale fino al dodicesimo secolo, allorché i mezzi di trasporto si fecero più spediti e più agili. La moglie di Carlo d’Angiò, Beatrice, si fece costruire dal falegname di Corte un elegante traino e lo foderò di velluto azzurro, con ricami d’oro e d’argento e un materassino di piume che le proteggeva il didietro dai sobbalzi delle ruote.

Anche i viaggi per mare non erano comodi, un po’ per il piccolo tonnellaggio delle imbarcazioni e un po’ per i disagi fra cui si svolgeva la navigazione. Non esistevano cabine singole, e tutti i passeggeri dormivano in uno stesso locale. Le cuccette erano addossate le une alle altre e spesso ospitavano più d’una persona. Orde di topi, vermi, pidocchi, cimici, scarafaggi infestavano le navi e spesso erano causa di epidemie. Tutti, all’alba, venivano svegliati da una trombetta. Era l’annuncio della Santa messa che si celebrava senza l’Eucarestia perché imbarcare ostie consacrate era considerato sacrilegio. Una trombetta dava il segnale anche dei pasti che si consumavano sul ponte e consistevano in un piatto di montone con contorno e formaggio. Al posto del pane venivano servite focacce o biscotti, e dopo mangiato si passava il tempo cantando o giocando ai dadi.

La paura dei pirati consigliava la navigazione in convoglio, il più possibile di cabotaggio, e con scali frequenti per consentire ai cambusieri di far rifornimento di acqua e di viveri. Chi viaggiava aveva a disposizione in ogni città un certo numero di taverne e osterie dislocate, come abbiamo visto, nei pressi delle porte. Esse erano contraddistinte da un’insegna parlante: osteria dell’oca, del gallo, della luna eccetera. Anche lì si dormiva tutti in uno stesso camerone, e solo gli ospiti di riguardo avevano una stanza tutta per loro. Quel che poteva succedere in questi luoghi lo ha raccontato il Boccaccio.

Essi fornivano, con i castelli e le abbazie, l’ambiente ideale della «dolce vita» medievale.