Il castello medievale di solito si appollaiava come un’aquila, sulla cima di un monte o alla confluenza di due fiumi. Lo cingevano spesse mura di pietra, rinforzate da cavicchi di ferro lambite da un ampio fossato d’acqua stagnante, lungo il cui perimetro correva una palizzata di robusti tronchi dalla punta acuminata, interrotta da un tozzo torrione a cupola, o barbacane, collegato alla terraferma da un piccolo pontile di legno. Al di qua della palizzata, a ridosso dei bastioni, montavano di guardia le sentinelle. Di notte esse vigilavano dal cammino di ronda, o merlone, ch’era una specie di parapetto frastagliato dallo zig-zag dei merli. Esso non si snodava lungo l’intera cinta di mura, ma in vari punti era interrotto dalle torri laterali con le quali comunicava per mezzo di piccoli ponti levatoi, per impedire che i nemici, una volta arrampicatisi con le scale sui merli, potessero penetrare all’interno del maniero. In caso di attacco, gli arcieri si dislocavano lungo il cammino di ronda e con le frecce rintuzzavano gli assalitori. Col tempo, il merlone fu ricoperto con una volta che lo riparava dal sole d’estate e dal gelo d’inverno.
Ai lati, il castello era puntellato da alte torri circolari o quadrate dalle quali si potevano rovesciare sugli spalti sottostanti pietre, pece e acqua bollente. A vari piani, esse erano dotate internamente di scale retrattili ricavate nello spessore del muro. Le finestre erano sostituite dalle cosiddette bocche di leone, feritoie strombate a forma di cono tronco disposto orizzontalmente con la base verso l’esterno. La bocca di leone consentiva all’interno una visuale ad ampio raggio, limitando al minimo l’osservazione dal di fuori.
Al maniero si accedeva attraverso un massiccio portone di ferro, sormontato da un arco trionfale, fiancheggiato da torri, alla cui base era incardinato un ponte levatoio ribaltabile, azionato da pulegge, montate su assi rotatori. Uno speciale dispositivo di contrappesi l’abbassava e lo sollevava. Una porta di servizio e d’emergenza, o «pusterla», munita anch’essa di ponte levatoio, era ricavata su uno dei bastioni laterali. Una fitta grata veniva innalzata, a mo’ di diaframma, tra il portone e il cortile interno del castello, sul quale s’affacciavano gli abituri dei servi, dei fabbri, dei carpentieri, dei calzolai, e le loro botteghe. Ai lati, erano collocate la chiesa, la fontana con l’annesso lavatoio e la peschiera.
Al centro troneggiava il maniero del Signore, con il suo cortile, circondato da mura. Qui si rifugiavano gli abitanti del castello quando i nemici, sfondato il ponte levatoio e scavalcate le mura, avevano occupato il primo recinto. Il maniero, con la sua torre squadrata, o «maschio», alta fino a quaranta metri, era il cuore dell’intero fortilizio. Il maschio aveva in media tre piani fuori terra e due sotto. Su ogni piano s’affacciavano una o due stanze con soffitto a volta. Quello superiore comunicava col sottostante per mezzo di scale retrattili. Il primo era occupato dal salone dove si banchettava, si ballava, si giuocava a scacchi, si ricevevano gli ospiti. Il secondo era adibito a camera da letto del Signore e della moglie. Il terzo era abitato dai figli. Agli ospiti, ai malati e ai moribondi era riservato il primo piano del sottosuolo mentre il secondo era destinato a segreta o prigione, dove i carcerati languivano incatenati nel buio, avendo per giaciglio la nuda terra. Ogni maniero era fornito di sottopassaggi, di dedalici labirinti comunicanti con l’aperta campagna, di cui solo il Signore conosceva la pianta e i meandri.
Sulla cima del maschio spiccava una garitta poligonale o rotonda, munita di feritoie, attraverso le quali una vedetta vigilava notte e giorno, scrutando la pianura, pronta a dar l’allarme col corno appena si profilavano all’orizzonte bande nemiche. Sulla garitta sventolava la bandiera con lo stemma del Signore. In caso di capitolazione egli la strappava e la gettava dalla torre. La garitta era circondata da un breve spiazzo armato di forche, alle quali venivano appesi i cadaveri dei traditori, che di lontano si stagliavano come macabri manichini.
Il castello era una piccola comunità, un microcosmo economico e sociale autosufficiente. Di varie dimensioni, poteva ospitare parecchie centinaia di persone, ognuna con un compito ben previsto, assegnatole dal Signore, che assommava in sé tutti i poteri e funzioni: politici, economici e giudiziari. Era il solo a impartire ordini e il solo a non riceverne perché il suo diretto superiore, Re o Imperatore, era lontano e su di lui non esercitava praticamente alcun controllo. Il vincolo di sudditanza l’obbligava, in caso di guerra, ad accorrere in suo aiuto e in tempo di pace a versargli un tributo. Il Signore vi adempiva puntualmente. Ma ogni forma di omaggio diventò col tempo sempre più simbolica.
Il Signore, che nel linguaggio comune si chiamava genericamente «Barone», era mattiniero. Si alzava al canto del gallo. Se aveva il sonno pesante, il ciambellano gli toglieva il cuscino di sotto il capo e poi, pigliandolo per le orecchie, lo scuoteva. Qualche volta il ciambellano non bastava, e allora bisognava chiamare un paio di scudieri, i quali lo tiravano per i piedi e per le braccia fino a destarlo. Dopo di che fuggivano per sottrarsi alle sue bastonature. Il Barone si coricava completamente nudo sotto un rustico baldacchino. Ai piedi del letto erano distese pelli di animali, da lui personalmente uccisi. Trofei di caccia pendevano anche dalle pareti, accanto a qualche arazzo con scene mitologiche e cavalleresche. Le finestrelle erano riparate da pesanti tende rosse o marroni. Accanto al letto erano sistemati un gran candeliere, un comò sbilenco, e una pertica sulla cui cima il Signore attaccava gli abiti. Non mancavano una statuina, in legno o in metallo, di San Giorgio o di San Michele, protettori della cavalleria, e una reliquia di San Cristoforo o di San Sebastiano, ch’erano quelle più a buon mercato. Solo i Margravi più potenti ne possedevano della Vergine o degli Apostoli, che custodivano in urne tempestate di preziosi.
Sceso dal letto, il Signore affondava le mani in una bacinella d’acqua fredda, e si sottoponeva a una sommaria abluzione. Più tempo impiegava a pettinarsi e a radersi. Il castello disponeva di un bagno, riscaldato da una piccola stufa a legna, ma esso era riservato quasi esclusivamente agli ospiti e ai malati. Il Signore lo usava il meno possibile, come si conveniva a un rude guerriero.
Dopo la toeletta, pregava. Non s’inginocchiava, ma – secondo l’uso orientale, importato in Occidente dai Crociati – si stendeva a terra rivolto a Levante, invocando Gesù, la Madonna ma anche Abramo, Mosè e David. Quindi assisteva alla messa, celebrata nella cappella privata del castello, che era a pianta rettangolare con un piccolo abside. La domenica e nelle grandi festività si recava con la famiglia e il seguito nel vicino monastero. All’offertorio, deponeva sull’altare pane, vino, olio, lardo, frutta che il prete distribuiva ai fedeli più bisognosi. Ascoltava compunto la predica, faceva la comunione, e qualche volta serviva la messa.
Tornato nella sua camera, faceva un’abbondante colazione a base di frutta fresca, uova, formaggio e latte. Poi si faceva condurre il suo cavallo e in compagnia del siniscalco, o factotum, varcato il ponte levatoio, faceva una cavalcata di un paio d’ore nei boschi, durante la quale sfogava la sua passione per la caccia. Verso le dieci rientrava al castello e compiva una lunga ispezione alle scuderie, all’armeria e alla falconeria. A mezzogiorno, dall’alto del maschio, la vedetta annunciava col corno l’ora della colazione che si svolgeva nella sala grande del maniero, al cui centro troneggiava una gigantesca tavola in pietra squadrata. In una delle pareti era scavato un camino sul quale ardeva un nodoso tronco di pino. Uno schermo di vimini intrecciati smorzava il bagliore delle fiamme, e grandi candelabri poggiati sulla mensola del camino illuminavano l’ambiente.
Abbiamo già descritto la cucina medievale. I piatti imbanditi alla mensa di un Signore erano grassi, succulenti, e varie e abbondanti le libagioni. L’ingrediente più comune era naturalmente la selvaggina. Il Signore mangiava seduto su uno scanno preminente, a ribadire la sua autorità e il suo rango, servito da giovinetti di nobile famiglia, o damigelli, vestiti di seta e d’ermellino, che un giorno sarebbero stati da lui investiti cavalieri, ma che allora si limitavano a porgere le coppe e a mescere i vini. Alla tavola del Signore erano scrupolosamente osservate le gerarchie, e il protocollo era rigoroso. Il posto d’onore era riservato al più alto dignitario ecclesiastico in visita al castello: abate, Cardinale, nunzio apostolico, che aveva la precedenza su quelli laici: Principi, Conti, Messi imperiali. Mancando ospiti illustri, il Signore si metteva a capo tavola con ai lati due belle dame. Il banchetto era allietato da un’orchestrina, dalle capriole dei buffoni e dai racconti dei giullari.
Dopo aver mangiato, il Signore giuocava ai dadi e agli scacchi. Verso le cinque convocava la sua piccola corte e con essa discuteva gli affari del castello. Interrogava il siniscalco, che in suo nome amministrava la giustizia ordinaria e comandava l’esercito; il maresciallo, adibito alle scuderie; il tesoriere, che faceva i conti e teneva la cassa; il coppiere, da cui dipendevano le cantine; il dispensiere, incaricato dell’approvvigionamento dei viveri; il capocuoco eccetera.
Alle sette suonava il corno della cena, non meno abbondante della colazione. Al Signore piaceva bere e spesso, quando s’alzava da tavola, era ubriaco. Si sedeva accanto al caminetto e invitava gli ospiti a raccontare barzellette o a sciogliere indovinelli. A mezzanotte, s’incamminava barcollando verso la camera da letto. I servi lo spogliavano, poi ripiegavano camicia e calzoni e li infilavano sotto il guanciale. Quando spengevano le candele, il Signore già russava, nudo, con le mani incrociate sul petto, dal quale pendeva un piccolo crocifisso di legno.
Questa era, a un dipresso, la giornata di un Signore medievale, in tempo di pace. Era piuttosto monotona, e solo due o tre volte l’anno si animava e assumeva tinte più gaie, o più solenni: in occasione di tornei, delle processioni e delle investiture dei cavalieri. Il Signore era di solito un abile «torneador» e non disdegnava di scendere in lizza anche se i concorrenti erano più giovani e aitanti di lui. Era innanzitutto un uomo d’armi, e la vita sedentaria non gli piaceva. La guerra la faceva non solo per necessità politiche, ma anche per vincere la noia del castello.
L’investitura del cavaliere era un rito d’iniziazione militare, d’origine germanica. Si nasceva Barone, Conte, Principe, ma cavaliere si diventava. Anche un fornaio o un fabbro, se si erano segnalati sul campo di battaglia, potevano in teoria essere fatti cavalieri. Ma solo in teoria. In pratica, questo accadeva solo eccezionalmente.
L’istruzione del cavaliere cominciava dalla culla. Il Barone padre faceva indossare al fantolino un abito di seta, guarnito d’ermellino, lo conduceva al fonte battesimale, e lo dotava di vaste terre e di un bel gruzzolo. Lo affidava quindi a una balia di sangue nobile con la quale il ragazzo cresceva fino all’età di sette anni. Dopodiché alla sua educazione veniva preposto un tutore che gl’insegnava a cavalcare, a giocare ai dadi e agli scacchi. L’istruzione scolastica era farraginosa e approssimativa, e molti cavalieri restavano per tutta la vita analfabeti. «Non sa leggere perché nobile» si diceva nel Medio Evo senz’accento ironico. I pochi che studiavano avevano vaghe nozioni di aritmetica, musica, geometria e astronomia (le quattro scienze che formavano il quadrivio) e di grammatica, retorica, dialettica (che costituivano il trivio). La storia si compendiava nelle gesta di Achille, Ettore, Alessandro e Cesare, l’astronomia si confondeva con l’astrologia, la chimica con l’alchimia.
A dodici anni, il baronetto diventava «damigello» di un Signore, nel cui castello si trasferiva. Qui si sottoponeva alla vera e propria istruzione militare: imparava a manovrare l’arco, a impugnare lo scudo, a maneggiare la spada, a scagliare il giavellotto, a tirar di scherma. Assisteva alle giostre e ai tornei e vi accompagnava il Barone al quale, in tempo di guerra, a cavallo di un ronzino, portava la lancia e lo scudo. A quindici anni, finalmente, era pronto per essere fatto cavaliere. Era il Signore stesso, se soddisfatto delle sue prestazioni, a cingergli la spada.
La cerimonia era solenne, e a essa erano riservati il Natale, la Pasqua, la Pentecoste, l’Ascensione e la festa di San Giovanni. Poiché il rito si svolgeva in parte all’aperto, la scelta della data cadeva di solito a Pasqua o il giorno della Pentecoste. Il neo-cavaliere, dopo aver fatto un bagno di purificazione (e di pulizia), indossava una tunica bianca (simbolo di purezza), un manto rosso (emblema del sangue che era disposto a versare in nome di Dio), una cotta nera (simbolo della Morte che non paventava), e vegliava un’intera notte in chiesa, immerso nella preghiera. La mattina, durante una messa alla quale partecipavano nobili e dignitari, si portava ai piedi dell’altare. Il prete gli benediva l’arma, dopodiché egli si volgeva al suo Signore che col piatto della spada lo colpiva tre volte sulla spalla, pronunciando la formula di rito: «Nel nome di Dio, di San Michele e di San Giorgio, io ti faccio cavaliere». Alla piattonata alcuni sostituivano la cosiddetta palmata o ceffone. Un Barone un giorno ne appioppò uno di tale potenza che il damigello stramazzò al suolo, e vano fu ogni sforzo di richiamarlo in vita. Il giovane cavaliere riceveva quindi una lancia, un elmo e un cavallo, sul quale balzava senza toccare la staffa, e al galoppo usciva dalla chiesa, caracollando verso la campagna. La cavalcata si concludeva con una quintana e la cerimonia con un lauto banchetto. Il neo-cavaliere poteva, da questo momento, portare al fianco la spada, entrare armato in chiesa e sedersi a mensa con altri cavalieri.
Ma a corrispettivo di questi diritti, c’erano numerosi doveri. La Cavalleria aveva un codice al quale il cavaliere doveva uniformarsi e che gli imponeva la devozione a Cristo e alla Vergine. Il cavaliere era un milite della fede. Al grido di «Dio lo vuole» si tuffava nella mischia, ed era invocando il Suo nome che, ferito a morte sul campo di battaglia, esalava l’ultimo respiro. Era il protettore della Chiesa e del Clero, delle vedove e degli orfani. Alla fellonia preferiva la morte, teneva fede alla parola data, si manteneva casto, era galante e generoso con le donne.
Naturalmente non tutti si mostravano all’altezza di quest’impegni. La Cavalleria, più che una istituzione, fu un ideale, portato in Italia dai Goti, dai Longobardi e dai Franchi. Spesso fu confusa con il feudalesimo, il quale fu semplicemente il sistema economico e sociale nel quale essa germinò e maturò. La Chiesa la ingentilì per poi servirsene come milizia secolare contro gl’infedeli. Senza Cavalleria non ci sarebbero state le Crociate, e l’Europa oggi sarebbe forse musulmana.
Essa elevò la condizione della donna, nobilitandola. Era alla donna amata che il cavaliere rivolgeva il suo ultimo saluto prima di scendere in lizza o di partire per la «guerra santa». Fu la Cavalleria che ispirò l’amore cortese, importato in Italia dai trovatori provenzali, cantato dai poeti della scuola siciliana e del Dolce Stil Nuovo. A celebrarlo e diffonderlo furono le «corti d’amore» tenute dalle dame nei loro turriti castelli. Mentre il Barone cavalcava a caccia nella foresta o giocava a scacchi, la moglie, circondata da damigelle, ascoltava i madrigali dei trovatori e le imprese d’amore di immaginari cavalieri, sotto le cui spoglie si celavano spesso gli stessi menestrelli. S’intrecciavano, fra la castellana e il poeta, dialoghi alla Giacosa. L’amore si conciliava col matrimonio? – chiedeva il trovatore alla castellana, la quale rispondeva che l’amore era furtivo e inconciliabile con l’alcova coniugale. I quesiti diventavano più difficili e scabrosi quando a porli era la dama: quale parte del corpo femminile un cavaliere sceglieva, quella superiore o quella inferiore? Il trovatore, che non voleva compromettersi perché da un momento all’altro poteva comparire il Barone, rispondeva: quella superiore. Ma la castellana ribatteva che le fondamenta dell’edificio erano più importanti dei piani superiori.
La più celebre Corte d’amore d’Europa fu quella di Eleonora d’Aquitania, e della figlia Maria, Contessa di Champagne. Fu costei a diffondere la leggenda dell’amore di Lancillotto, immaginario cavaliere della Tavola Rotonda, per la bella moglie di re Artù, Ginevra, di cui egli diventò lo zimbello. Quand’essa morì, Lancillotto tentò di impiccarsi. Una volta, vedendo un capello di lei impigliato nel pettine, tanto fu turbato che svenne.
L’amore cortese era incompatibile con l’avarizia e l’impudicizia. Il cavaliere era tenuto a impallidire al cospetto della donna amata e a colmarla di graziosi doni: una borsa, una specchiera, un fazzoletto, un collana, un bacile. Nessuna prova era troppo ardua per conquistare il cuore di una donna. Peire de Vidal, figlio di un pellicciaio, indossata una pelle di lupo, si fece sbranare da una muta di cani sotto la finestra di una dama di Carcassonne. Ulrich von Lichtenstein si limitò a tagliarsi un dito e a mandarlo alla propria amante. Non essendo riuscito nemmeno con questo sacrificio a cattivarsene le grazie, si mescolò ad alcuni lebbrosi e minacciò d’uccidersi.
L’amore cortese fu tuttavia più un fenomeno letterario che di costume. Le corna anche allora prudevano e di rado l’adulterio restava impunito. Il menestrello Raimon de Rossilhon fu squartato da un Barone di cui aveva sedotto la moglie, la quale, dopo essere stata obbligata a mangiare il cuore dell’amante, fu precipitata da una torre del castello.
Il colpo di grazia all’amore cortese lo inferse però la Chiesa che lo condannò perché distraeva la Cavalleria dalle Crociate. Esso rispunterà otto secoli più tardi col Romanticismo.