Prima di marciare su Roma, Federico aveva fatto una puntatina in Lombardia.
Da tempo Milano non pagava più i tributi, trascurava la manutenzione di strade e ponti, negava ospitalità ai Legati tedeschi e angariava con guerricciole e spedizioni punitive il piccolo Comune di Lodi, vassallo fedele dell’Impero e fiorente mercato, cui affluivano i prodotti agricoli di Crema, Pavia, Cremona e Piacenza che, in altri tempi, venivano convogliati su Milano. Nel marzo del 1153, tre ambasciatori lodigiani erano stati inviati a Costanza per denunciare i milanesi. Il Barbarossa aveva spedito in Lombardia il conte Sicherio che vi era stato accolto a lazzi e sberleffi. I milanesi l’avevano addirittura malmenato, obbligandolo ad abbandonare di notte la città e a rivalicare le Alpi. Poi, impauriti del proprio gesto, avevano inviato all’Imperatore un’anfora colma di monete d’oro. Ma Federico non aveva voluto neppure ricevere i latori del dono, e nell’ottobre dello stesso anno con un esercito di duemila cavalieri era sceso in Italia.
Giunto a Roncaglia, nei pressi di Piacenza, aveva convocato i rappresentanti dei Comuni padani. Lodi aveva ribadito le sue accuse. Le forze tedesche erano troppo scarse per un’azione di guerra contro Milano, perciò il Barbarossa si era limitato a spianare al suolo i castelli di Momo, Trecate e Galliate. Poi aveva puntato su Tortona, nemica acerrima di Pavia, filo-imperiale, e l’aveva cinta d’assedio. Dopo due mesi di resistenza, la città, vinta dalla fame e dal tifo, aveva capitolato. Nell’aprile, Federico era partito per Roma. Al calar dell’estate era tornato in Germania dove, durante la sua assenza, erano scoppiate qua e là piccole rivolte di vassalli.
Nel 1152 la sua elezione era stata salutata da unanimi consensi. Nipote di Corrado di Hohenstaufen per parte di padre e del ghibellino Enrico il Leone per parte di madre, Federico conciliava gli antagonismi tra le due potenti famiglie. Quando salì al trono non aveva che trentadue anni, aveva combattuto in Asia Minore contro i Turchi e vi si era segnalato. Aveva ricevuto una rigida educazione militare e fin da bambino aveva imparato a maneggiare la spada e l’arco. Quanto a cultura, sapeva leggere e scrivere, aveva qualche nozione di storia e di geografia, e forse masticava un po’ di latino. Era certamente più istruito di Carlomagno, ma lo era meno di Ottone III.
Il cronista Acerbo Morena ce lo descrive di media statura, atticciato, riccioluto, fulvo di capelli e rosso di barba (da cui il soprannome Barbarossa). Aveva gli occhi celesti, i denti bianchissimi e le mani lunghe e affusolate. Era di gusti semplici, beveva poco e mangiava con moderazione. Era devoto ma non bigotto, e gli unici svaghi che si concedeva erano la caccia e gli scacchi. Aveva sposato in prime nozze Adelaide di Vonburg ma poi, col consenso del Papa, l’aveva ripudiata perché sterile e s’era unito con Beatrice di Borgogna, che gli aveva portato in dote la ricchissima valle del Rodano, fino alle Fiandre. Beatrice era una donna gracile e minuta. Aveva i capelli castani e gli occhi chiari. Conosceva i classici e aveva letto i Padri della Chiesa. Era docile, casta e pia, e diede a Federico, che le fu sempre fedele, numerosa prole.
Tornato in Germania, il Barbarossa s’accinse a domare i vassalli ribelli. Assegnò le marche di confine ai Principi fedeli alla corona, ristabilì l’ordine in Austria e in Boemia, dov’erano scoppiati tumulti violenti, convocò una Dieta a Ratisbona, e poi trasferì la Corte a Besançon. Ne facevano parte Principi, abati, Vescovi, filosofi, trovatori, storici come Ottone di Frisinga, zio dell’Imperatore e suo biografo ufficiale, e poeti come Reynaldo di Dassel, agiografo di Federico e più tardi suo cancelliere.
Da Besançon, nell’estate del 1158, si mise in marcia alla volta dell’Italia, dove i maggiori Comuni lombardi erano di nuovo in fermento. Milano non aveva cessato di molestare Lodi e il suo mercato. Un editto impediva addirittura ai lodigiani di alienare beni senza il consenso dei milanesi. I contravventori erano puniti col bando e la confisca. Quando i consoli di Milano avevano cercato d’imporre a Lodi il giuramento d’obbedienza, il piccolo Comune si era ribellato. I milanesi, dopo avere invano posto un ultimatum, il giorno dell’Epifania avevano occupato la città e obbligato i suoi abitanti a evacuarla. Quindi avevano demolito le mura, incendiato le case, svaligiato le chiese. I profughi si erano rifugiati a Pizzighettone, di dove avevano spedito corrieri al Barbarossa per supplicarlo di accorrere in loro aiuto.
Nel 1158 Federico calò in Italia con un possente esercito, di cui facevano parte, oltre ai tedeschi, austriaci, polacchi, boemi e borgognoni. Esso dilagò nella Pianura padana e ne fece terra bruciata. Decine di villaggi furono rasi al suolo, piccoli borghi ridotti a cumuli di macerie. Non si risparmiarono neppure i raccolti e le greggi. Molti abitanti furono trucidati, altri catturati come ostaggi.
Il Barbarossa puntò sull’Adda e guadò il fiume a valle, travolgendo le resistenze milanesi. Poi si avventò sul castello di Trezzo, lo espugnò, e lo munì di una nuova cinta di mura. Infine si volse verso la pianura del Lambro dove fu festosamente accolto dai profughi lodigiani, ai quali assegnò una vasta area affinché vi fondassero una nuova città. Lo stesso Federico ne tracciò i confini e segnò sulla carta il luogo dove doveva sorgere il palazzo imperiale. Milano fu completamente isolata e cinta d’assedio.
Per un mese i milanesi tentarono con repentine sortite di rompere il blocco, ma alla fine dovettero capitolare per fame. Secondo alcuni cronisti la resa fu dovuta al tradimento del comandante Guido di Biandrate. I primi a varcare le mura della città furono i lodigiani e i pavesi, che si abbandonarono alla violenza e al saccheggio. A stento Federico riuscì a contenerne l’ùzzolo di vendetta. Stremata, la città giurò fedeltà all’Impero, pagò i tributi con gli arretrati, e consegnò in ostaggio a Federico duecento nobili. La maggior parte dei Comuni alleati di Milano mandarono ambasciatori al Barbarossa, in segno di omaggio.
Domata la città ribelle e pacificata, almeno in apparenza, l’Italia del Nord, l’Imperatore convocò una solenne Dieta a Roncaglia alla quale parteciparono non solo Vescovi, Principi e Consoli, ma anche insigni giuristi dell’Università di Bologna. Federico voleva che la grande Assise sanzionasse sul piano giuridico i diritti dell’Impero e fissasse gli obblighi dei sudditi. Chiese pubblicamente ai due maestri di diritto bolognesi, Bulgaro e Martino Gosia, se spettava all’Imperatore il titolo di Signore del mondo. Bulgaro rispose di no, Martino disse di sì e fu premiato con un magnifico cavallo bianco. Fu posto poi il quesito se era meglio pagare un tributo all’Impero e goderne la protezione, oppure essere sottoposti a un Vescovo o a una città vicina. I Comuni lombardi, minacciati dalle mire espansionistiche di Milano, dichiararono che era meglio essere vassalli dell’Impero.
La Dieta riconobbe a Federico la piena sovranità su Contee, Marchesati e Ducati, il diritto di esigere corvées, quello di fare costruire case, ponti e strade. Supremo magistrato, l’Imperatore amministrava la giustizia, applicava sanzioni, annullava sentenze, concedeva condoni. Solo lui poteva battere moneta, innalzare mura, imporre tasse sul sale, sul ferro e su altri prodotti del suolo e sottosuolo. Molti di questi diritti erano stati ripetutamente rivendicati dal Comune di Milano e da quelli alleati, che negli ultimi tempi li avevano anche regolarmente esercitati. Ora Federico li avocava tutti a sé. Ma dalla Dieta uscì malconcia soprattutto la Chiesa, renitente a ogni sorta di obblighi feudali.
Le decisioni di Roncaglia furono votate alla unanimità. Violente opposizioni scatenò invece la loro applicazione. Per vincere la titubanza di Piacenza, il Barbarossa fece scorciare le torri cittadine la cui altezza superava le venti braccia e colmare il fossato scavato lungo il perimetro delle mura. Più difficile fu indurre Crema a imitarne l’esempio, dopo che i suoi abitanti avevano cacciato i Legati imperiali. Per piegarla, Federico dovette cingerla d’assedio. I tedeschi, con l’aiuto dei lodigiani, concentrarono sotto le mura testuggini, arieti e ponti di legno, sui quali avevano issato e legato a mo’ di scudo ostaggi cremaschi. I difensori non esitarono a colpire con frecce e pietre i loro concittadini e a massacrarli. Poi, per vendicarsi, radunarono sugli spalti delle mura i prigionieri tedeschi e dopo averli orrendamente mutilati, li sgozzarono. Il confessore di Federico supplicò l’Imperatore di ritirare i ponti e di dare sepoltura alle vittime.
L’assedio fu lungo e sanguinoso, ma alla fine i cremaschi dovettero arrendersi. Ebbero salva la vita, ma furono obbligati a evacuare la città, che fu invasa e messa a sacco dai lodigiani, ai quali s’erano uniti i cremonesi e i pavesi. Furono abbattute le mura e con le macerie colmati i fossati, le case furono spianate al suolo, le chiese svaligiate e poi date alle fiamme. Quando, cinque giorni dopo, il Barbarossa partì per Pavia, Crema non era più che un ammasso di rovine.
Violente manifestazioni antitedesche si verificarono per reazione a Genova e a Milano, dove il cancelliere imperiale Reynaldo riuscì a stento a mettersi in salvo nella vicina Lodi. Anche lo Stato pontificio era in fermento. Il Papa aveva pubblicamente proclamato l’indipendenza della Chiesa dall’Impero, negando a quest’ultimo il diritto di esigere da essa tributi. Federico aveva mandato a Roma emissari per stabilire contatti col Senato, i cui rapporti col Papato negli ultimi tempi s’erano molto tesi. Nel settembre del 1159, ad Anagni, punto da un insetto velenoso, era calato nella tomba Adriano IV. Sul letto di morte aveva maledetto il giorno in cui aveva lasciato l’Inghilterra e il convento di San Rufo per cingere la tiara. Era stato un Papa sagace, indomito e battagliero.
Fu subito convocato un Conclave per dargli un successore. I Cardinali erano però divisi in due partiti, uno filo, l’altro anti-imperiale. Il primo sosteneva il cardinale romano Ottavio Monticelli, il secondo quello senese Rolando Bandinelli, che alla fine fu acclamato Papa.
Nel momento in cui s’accingeva a ricevere il pastorale e la mitria, il Bandinelli fu assalito dai partigiani del Monticelli, che gli strapparono il manto purpureo e lo posero sulle spalle del loro candidato, ma nella fretta glielo infilarono alla rovescia. Ne seguì un violento tumulto, al quale parteciparono Senatori, ecclesiastici e popolo. La Basilica di San Pietro fu trasformata in un campo di battaglia. Si combatté perfino sugli altari e nei confessionali dove alcuni Cardinali, vista la mala parata, s’erano rifugiati.
I filo-imperiali ebbero la meglio, e Ottavio Monticelli fu eletto Papa. I suoi sostenitori intonarono un Te Deum, e il popolo in tripudio accompagnò il nuovo Pontefice, che assunse il nome di Vittore IV, in Laterano. Il Bandinelli riparò in Vaticano e poi in Trastevere di dove, dopo alcuni giorni, fu liberato dai Frangipani, condotto a Ninfa ai piedi dei Monti Volsci, e consacrato Papa col nome di Alessandro III.
Federico tentò di comporre lo scisma convocando un Concilio a Pavia, al quale invitò anche il Bandinelli, che rifiutò di recarvisi. L’assise confermò l’elezione di Ottavio Monticelli. Alessandro III reagì scomunicando Federico e il suo Papa. L’anatema implicava il bando dalla Chiesa e liberava i sudditi da ogni vincolo di obbedienza e d’omaggio all’Imperatore, che poteva anch’essere ucciso senza che il colpevole commettesse, per questo, peccato.
Il gesto di Alessandro fu accolto con favore alle Corti di Parigi e di Londra. I milanesi, imbaldanziti, ricominciarono a molestare i lodigiani. Fu indetto un secondo Concilio a Tolosa. Alessandro III v’intervenne, Vittore IV vi mandò i suoi delegati che accusarono il Bandinelli di avere aizzato i Comuni contro l’Imperatore. Il Concilio si pronunziò a favore di Alessandro III. Federico allora convocò un terzo Concilio a Pavia, che riconfermò l’elezione di Vittore IV. Correva l’anno 1160.
L’Imperatore passò l’inverno a Pavia, in attesa che dalla Germania giungessero forze fresche e che Novara, Asti, Vercelli, i Malaspina e i Marchesi del Monferrato unissero i loro eserciti a quello suo per schiacciare la ribelle Milano. In primavera marciò sulla metropoli lombarda, già accerchiata da Pavia, Lodi, Cremona e Novara.
Un cronista contemporaneo riferisce che dopo sei mesi d’assedio i milanesi erano stremati dalla fame: «Per un tozzo di pane il marito si gettava sulla moglie, il fratello sul fratello, il padre sul figlio». Per indurre la città a capitolare, Federico ricorse ai più atroci stratagemmi. Accecò cinque prigionieri e poi li affidò a un loro compagno, al quale aveva fatto cavare un solo occhio, affinché li riconducesse a casa.
Al settimo mese i milanesi si rassegnarono alla resa. Nove consoli e otto magistrati si recarono a Lodi dove in quel momento si trovava l’Imperatore, e gli chiesero la pace. In cambio Milano avrebbe abbattuto le mura, scorciato le torri, colmato i fossati, consegnato trecento ostaggi a Federico e accettato un Podestà imperiale. In più avrebbe pagato una forte somma di denaro.
Il Barbarossa respinse sprezzantemente queste proposte e chiese la resa senza condizioni. I notabili del Comune s’inginocchiarono ai piedi di Federico e i rappresentanti delle corporazioni gli consegnarono i loro stendardi. Guitelmo, che aveva diretto la difesa di Milano, depose nelle mani dell’Imperatore le chiavi della città. Fu condotto a Lodi anche il Carroccio con il gonfalone e le altre insegne. Poi Federico volle che tutti i milanesi giurassero obbedienza all’Impero dinanzi a un’assemblea di Principi e Vescovi tedeschi. Nel marzo del 1162 il Barbarossa decise di spianare al suolo la città, dopo aver ordinato alla popolazione di evacuarla entro otto giorni. Era il castigo che in passato Milano aveva inflitto a Lodi.
In poco più di una settimana la città fu completamente smantellata. Nemmeno gli antichi edifici romani furono risparmiati. Solo le chiese, per ordine dell’Imperatore, scamparono alla devastazione. Non sfuggirono però al saccheggio le reliquie. Dalla chiesa di Sant’Eustorgio furono trafugate le ossa dei Re Magi, che secondo una leggenda erano state portate a Milano nel quarto secolo dal Santo stesso. Trasferite in Germania, adornano oggi il duomo di Colonia.
La vittoria fu celebrata a Pavia con feste e banchetti, ai quali Federico intervenne con in capo la corona che tre anni prima, con un voto, aveva giurato di non cingere finché Milano non fosse stata domata. I Comuni, che in passato avevano parteggiato per Milano, timorosi di fare la sua stessa fine, si sottomisero volontariamente al Barbarossa, che assunse il titolo di «Imperatore Romano, incoronato da Dio, grande e pacifico, trionfatore glorioso e accrescitore dell’Impero».
In ogni città Federico nominò un Podestà con ampi poteri politici, amministrativi e giudiziari. A Milano designò Enrico di Liegi, a Bergamo Marcoaldo di Grumbac. I profughi milanesi, dopo la distruzione della loro città, si erano sparsi per la campagna e avevano cercato asilo nei borghi vicini. Quando l’Imperatore li autorizzò a ricostruire le case, essi si acquartierarono lungo le antiche mura dove in poche settimane spuntarono come funghi capanne e abituri.
Il Barbarossa ripartì per la Germania, affidando l’Italia ai suoi vicari. Dapprincipio essi furono accolti benevolmente dalle popolazioni, ma quando aumentarono le tasse, il malcontento ricominciò a serpeggiare. Gli stessi lodigiani protestarono. I Podestà imperiali non esigevano solo tributi, ma angariavano i cittadini e li sottoponevano a onerose corvées. S’innalzavano dovunque torri e castelli per le guarnigioni tedesche e i fedeli alleati dell’Imperatore: i Conti di Savoia, quelli del Monferrato e gli Ezzelino.
Nell’autunno del 1163 Federico ridiscese in Italia per assistere al trasferimento dalla Lodi vecchia a quella nuova delle spoglie di San Bassiano, protettore della città. Da Lodi si portò a Pavia, dove ricevette i rappresentanti di numerosi Comuni del Nord che si lagnavano dei Podestà. A tutti l’Imperatore diede udienza, a nessuno soddisfazione.
Nell’aprile dell’anno successivo morì Vittore IV. Era l’occasione buona per comporre lo scisma che lacerava da anni il Papato, ma il Barbarossa non seppe o non volle coglierla. Preferì designare un successore nella persona del cardinale Guido da Crema, che assunse il nome di Pasquale III. Il gesto inasprì vieppiù i rapporti tra Federico e Alessandro, che non perdeva occasione per incitare i Comuni a ribellarsi all’Impero. I Bolognesi trucidarono il podestà Bozo, i piacentini obbligarono a fuggire il luogotenente Barbavara, il quale, prima di abbandonare la città, svaligiò la chiesa di Sant’Antonio. Anche i veronesi insorsero, spalleggiati da Venezia e Vicenza. Il Barbarossa volle punirli, ma non avendo con sé che pochi cavalieri si limitò a devastare la campagna. Quindi riprese il cammino della Germania col proposito di arruolare un forte esercito.
Papa Alessandro temeva che il Barbarossa, dopo aver riunito sotto il suo scettro i Comuni del Nord, occupasse il Centro e il Sud e unificasse la Penisola. Per impedirlo aizzava i Comuni contro Federico, e spediva emissari alle corti d’Europa e di Costantinopoli. All’Imperatore greco, Manuele Comneno, prometteva la corona d’Italia in cambio del suo appoggio contro il Barbarossa. Cacciare lo straniero con lo straniero è stata nei secoli la politica della Chiesa nemica naturale di ogni Stato, che non sia quello pontificio.
Nell’agosto del 1165, il papa Bandinelli lasciò la Francia, a bordo di una nave normanna salpò per Messina, e di qui si mise in viaggio per l’Urbe. I Romani avevano chiesto al Senato il ritorno del Pontefice che fu ricevuto con grandi onori. Il popolo gli andò incontro con croci e labari, e Alessandro contraccambiò l’accoglienza con massicce distribuzioni di grano e denaro.
Il suo ritorno a Roma era una sfida all’Impero. Nel novembre del 1166 Federico decise di scendere nuovamente in Italia per cacciare il Bandinelli dall’Urbe e istallarvi in sua vece Pasquale. Dopo aver fatto tappa a Lodi l’esercito tedesco puntò su Bologna, che spalancò le porte all’Imperatore e lo colmò d’oro. Poi marciò su Ancona, dove da un momento all’altro poteva sbarcare Manuele Comneno, e dopo un assedio di tre settimane l’espugnò.
Mentre il grosso dell’esercito tedesco era impegnato sotto le mura di Ancona, quattromila soldati, al comando del cancelliere imperiale Reynaldo, attraverso la Toscana, mossero alla volta di Roma. Il Papa arruolò frettolosamente quarantamila uomini, ma ebbe la peggio. L’esercito pontificio fu volto precipitosamente in fuga. Diecimila cadaveri restarono sul terreno e altrettanti furono i prigionieri e i feriti. La disfatta fu attribuita, come al solito, al tradimento. In realtà, i Romani erano male armati e mancavano di un capo.
Il Pontefice, sgomento, si barricò in San Pietro. I tedeschi circondarono la basilica, e per otto giorni la cinsero d’assedio. Alla fine a colpi di ascia ne abbatterono le porte e sciamarono all’interno, seminando distruzione e terrore. Scoperchiarono le tombe dei Pontefici, saccheggiarono le reliquie e gli arredi sacri, insozzarono gli altari. Il tempio fu trasformato in un campo di battaglia, lordo di sangue e ingombro di cadaveri. Il giorno successivo, Federico ne varcò la soglia accompagnato da Pasquale, che coronò Beatrice.
Alessandro, rifugiatosi in una delle torri dei Frangipani, fu visitato da emissari del Re normanno che gli mise a disposizione due galee e un po’ di denaro perché abbandonasse l’Urbe. Il Papa si tenne il denaro e congedò le navi.
Il Barbarossa gli offrì la pace, ma ne volle dettare anche le condizioni: l’abdicazione di Alessandro in cambio di quella di Pasquale. Dopodiché sarebbe stato convocato un Conclave ed eletto un nuovo Pontefice. I Romani accettarono ma ogni tentativo di indurre Alessandro alla rinuncia fu vano. Scoppiò un violento tumulto, e il Papa, travestito da pellegrino, dovette lasciare la città, riparare in un villaggio presso il Capo Circeo, e di qui fuggire a Benevento.
L’Imperatore esentò i Romani dalle tasse e riconobbe il Senato che gli giurò obbedienza. Ai primi d’agosto una spaventosa epidemia di malaria scoppiò nell’Urbe decimando gli abitanti e l’esercito tedesco accampato alle sue porte. Le vittime si contarono a migliaia; i morti venivano ammucchiati in fosse comuni e poi bruciati per impedire che il contagio si propagasse. Quando non ci fu più legna per questi macabri roghi, si diede sepoltura ai cadaveri nelle acque del Tevere.
Il 6 agosto Federico, annientato dalla perdita dei suoi migliori Generali, ordinò ai superstiti brandelli tedeschi di levare le tende e di mettersi in cammino per Pavia. Durante il viaggio altri duemila uomini perirono, fra i quali Acerbo Morena. A Pavia, il Barbarossa nominò il conte Enrico di Dietz suo luogotenente in Italia, e nell’inverno ripassò le Alpi, diretto in Borgogna.
La guerra del Barbarossa contro i Romani aveva ridato baldanza ai Comuni del Nord. I soprusi dei Podestà imperiali diventavano ogni giorno più intollerabili, suscitando dovunque fremiti di rivolta. Presso Federico le proteste di Bergamo, Mantova, Ferrara cadevano nel vuoto. Alessandro spediva in Lombardia agenti a sobillare le città contro l’Impero. Il 7 aprile 1167 nel convento di Pontida, presso Bergamo, si diedero convegno i rappresentanti di Milano, Cremona, Brescia, Bergamo e Mantova che sottoscrissero un patto d’alleanza. Alla confederazione fu dato il nome di «Lega Lombarda». Il suo primo atto fu la ricostruzione di Milano, che riebbe le sue fortificazioni e la sua cinta di mura. Il secondo, assai più difficile, fu il «recupero» di Lodi.
Il piccolo Comune lombardo, fedelissimo all’Impero, doveva a tutti i costi entrare a far parte della coalizione. Si trovava a una ventina di chilometri da Milano ed era un importante nodo stradale. Una delegazione cremonese si recò a Lodi per convincerla ad allearsi con la Lega. Ma fu un viaggio inutile: con le buone i lodigiani non si sarebbero mai piegati. Fu deciso allora di ricorrere alla forza. La città fu assediata e minacciata di sterminio. Lo spettro della fame e il ricordo del passato consigliarono alla fine i suoi abitanti alla resa. Lodi accettò di aderire alla Lega «salva la fedeltà all’Imperatore». Era una formula ambigua che fu tuttavia inclusa nei patti. Il Barbarossa reagì mettendo al bando dall’Impero la Lega, con l’eccezione di Lodi e Cremona. Il primo dicembre alla coalizione s’unirono Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Bologna, Modena e Ferrara, dando vita alla cosiddetta «Lega Italica». A essa aderirono anche Alessandro III, il Re normanno e l’Imperatore d’Oriente, che vagheggiava la riunione dell’Italia alla corona greca.
Il Barbarossa in Germania era alle prese coi Principi e i Vescovi ribelli. Per molti anni il Paese fu in preda al caos e solo quando vi ebbe ristabilito un po’ d’ordine, Federico poté varcare nuovamente le Alpi e scendere in Italia. Nell’autunno del 1174, alla testa di un esercito di ottomila uomini, giunse sotto le mura di Asti, l’assediò e in poco più d’una settimana l’espugnò. Poi puntò su Alessandria. Era questa una città nuova, costruita dalla Lega come avamposto e baluardo contro l’imperiale Pavia. Era situata alla confluenza del Tanaro con la Bormida, ed era stata battezzata Alessandria in onore di papa Alessandro.
I tedeschi s’accamparono nella vasta pianura tra Tortona e Marengo mentre nella Lega avvenivano le prime diserzioni: Venezia, Pavia, Como, il Monferrato tornarono a schierarsi dalla parte dell’Imperatore. Ma le tredici città della coalizione, con Milano alla testa, misero insieme un forte esercito che s’ammassò nei pressi di Tortona, tagliando fuori il Barbarossa dalla via appenninica. Poiché Alessandria gli precludeva quella alpina, Federico tentò di prenderla di sorpresa, chiedendo una tregua e poi non rispettandola. Ma quando un commando tedesco, attraverso un cunicolo, penetrò nella città, fu letteralmente massacrato. L’Imperatore, temendo l’accerchiamento, preferì allora levare il campo e ritirarsi a Pavia. I nemici, invece di dargli battaglia, lo lasciarono passare e neppure lo inseguirono. Si parlò, come al solito, di tradimento. In realtà, non tutti i Comuni della Lega erano contro Federico di cui, in caso di disfatta, temevano le rappresaglie.
Alessandria era salva. Un po’ meno lo era l’onore dei suoi difensori, i quali s’abboccarono con Federico per far pace. Alle trattative presero parte anche i delegati di papa Alessandro, che aveva scomunicato l’Imperatore e l’antipapa Pasquale. Il Barbarossa riconobbe ai Comuni un’ampia autonomia amministrativa, giudiziaria e commerciale, e il diritto di costruire castelli e alzare mura. La Lega ribadì il suo omaggio e i suoi obblighi feudali verso l’Impero. Restava però insoluto lo scisma, e aperto il conflitto tra Federico e Alessandro. Il mancato accordo con la Chiesa fece fallire quello già raggiunto coi Comuni, e la pace, già concordata, non poté essere stipulata. Era di nuovo la guerra.
Federico mandò in tutta fretta corrieri in Germania a reclutare truppe fresche. La Lega serrò i ranghi e si preparò al confronto, indebolita dalla defezione dei Cremonesi. Ai primi di maggio del 1176, il Barbarossa con una piccola scorta lasciò Pavia e andò incontro ai rinforzi che attraverso i valichi svizzeri calavano in Italia. Quindi puntò su Milano mentre l’esercito imperiale, rimasto a Pavia, s’accingeva ad attaccare la città da sud.
I milanesi, temendo che i due eserciti si congiungessero, sebbene fossero numericamente inferiori, decisero di varcare le mura e di muovere incontro a Federico. Dodicimila uomini si misero in marcia per Legnano da dove il Barbarossa sarebbe dovuto passare. All’alba del 28 maggio, la Lega lanciò settecento uomini contro gli imperiali, che li volsero in fuga con gravi perdite. Federico, credendo che quell’esigua avanguardia costituisse l’intero esercito dei Comuni, continuò l’avanzata. Quando s’avvide dell’errore era ormai troppo tardi.
L’esito della battaglia fu a lungo incerto. Dapprincipio i milanesi e i loro alleati, sotto l’impeto della cavalleria tedesca, sbandarono. Ma poi, stretti attorno al «Carroccio», passarono all’offensiva. Invano gl’imperiali tentarono di contenerli. Federico, sguainata la spada, si buttò col suo cavallo nel fitto della mischia, ma fu disarcionato, e solo a stento riuscì a mettersi in salvo, abbandonando il campo di battaglia. I tedeschi non vedendo più il loro Imperatore, furono colti dal panico e si diedero alla fuga tallonati dai milanesi. Il Barbarossa fu dato per morto. Grande fu lo stupore dei pavesi quando il giorno dopo lo videro ricomparire in città pesto e affamato, seguito da alcuni cavalieri fuggiti con lui attraverso i campi e i boschi della Bassa.
Molti storici hanno visto nella battaglia di Legnano il trionfo del nazionalismo italiano sull’imperialismo germanico e l’hanno ammantata di leggenda, prestando alla Lega anche un capo immaginario nella figura di Alberto di Giussano. I poeti romantici hanno rincarato la dose alimentando quell’epopea patriottarda che riduce la Storia ad agiografia, traduce gli uomini in monumenti e i fatti in lapidi. In realtà a Legnano i Comuni combatterono in nome delle loro piccole autonomie municipali, non in nome di una Nazione, di cui non capivano il senso né concepivano l’ideale. Quella del 1176 fu una rivolta contro l’Imperatore, non in quanto straniero, ma in quanto esattore di balzelli. La solidarietà dei Comuni fu temporanea e apparente. Liquidato il Barbarossa, essi ripresero infatti a combattersi e a scannarsi tra loro. Il concetto di patria era allora circoscritto entro la cinta delle mura cittadine. E il «Carroccio» col gonfalone ne era il simbolo.
La sconfitta di Legnano fu comunque per Federico un duro colpo. Era stata quella, in ventitré anni, la prima volta che l’Impero era stato vinto dai Comuni, e l’Imperatore obbligato a cercare la propria salvezza nella fuga. L’onta andava vendicata. Il Barbarossa chiese nuovi aiuti ai vassalli tedeschi che glieli rifiutarono. La Germania era divisa e in preda al caos. Lo scisma aveva vieppiù esacerbato gli animi e molti Vescovi si erano apertamente schierati dalla parte di Alessandro. La maggioranza del Clero voleva che l’Imperatore si riconciliasse con la Chiesa e si liberasse dalla scomunica.
Nell’ottobre dello stesso anno, all’insaputa dei Comuni, Federico e Alessandro intavolarono trattative per una pace separata. Tre prelati tedeschi, già colpiti da anatema, si recarono ad Anagni, dove risiedeva il Pontefice che li accolse con molti onori. Quando i membri della Lega ne furono informati, avvamparono di sdegno. Ciò nonostante s’affrettarono a far atto di sottomissione al Barbarossa.
Dopo lunghe e animate discussioni, il Papa e i rappresentanti di Federico decisero di convocare una grande assemblea di pace, alla quale sarebbero stati invitati anche i rettori della Lega e i delegati dell’Imperatore greco e del Re normanno. Come sede fu fissata Venezia, dove Alessandro giunse ai primi di maggio. Il Barbarossa s’acquartierò con la sua piccola Corte a Chioggia nel timore che il Papa gli giocasse qualche brutto tiro. Alessandro voleva la fine dello scisma e la deposizione dell’Antipapa. Premuto dai Principi tedeschi, Federico cedette. Ma in cambio chiese e ottenne vasti territori appartenenti alla Chiesa nell’Italia centrale e la concessione per quindici anni dell’ex-marchesato toscano dei Canossa. La Lega dovette accontentarsi di una tregua di sei anni con l’Impero.
La pace fu suggellata da una messa solenne in San Marco. Quando il Papa, a bordo di una mula bianca, giunse ai piedi della basilica, l’Imperatore gli andò incontro, e tenendogli la staffa l’aiutò a scendere. Poi si inginocchiò ai suoi piedi per riceverne la benedizione. Ma quando Alessandro pronunciò la formula di rito: «Tu calpesterai il serpente e il basilisco, e domerai il leone e il drago», Federico rispose: «Non per te, ma per Pietro».
Ai primi di gennaio del 1178, accompagnato dalla moglie e dai figli, il Barbarossa tornò in Germania e pose la Corte a Spira. Durante la sua assenza, nel Paese era scoppiata una grave rivolta, capeggiata da suo cugino Enrico il Leone, che nel 1176 si era rifiutato di unire le sue truppe a quelle dell’Imperatore, e aveva parteggiato per il Papa. Federico convocò una Dieta e lo invitò a discolparsi, ma Enrico non si presentò. Il Barbarossa lo mise allora al bando dall’Impero e gli dichiarò guerra. Sconfitto, Enrico s’inginocchiò ai piedi del cugino e ne invocò la clemenza. La ottenne, ma dovette lasciare per sempre la Germania.
Il 30 agosto 1181, calò nella tomba papa Alessandro. Quello suo era stato un pontificato drammatico e glorioso. Aveva avuto la tiara per ventidue anni, e i suoi contemporanei lo paragonarono a Gregorio VII, col quale ebbe in comune l’orgoglio, l’ambizione e l’energia. I Romani l’avevano obbligato a cercar rifugio a Civita Castellana, dopo averlo trionfalmente accolto nell’Urbe al ritorno da Venezia. Quando la salma di Alessandro fu trasportata a Roma per essere tumulata in Laterano, il popolino sputò sulla bara e l’insozzò di escrementi e di fango.
Nuovo Papa fu eletto un vecchio Cardinale lucchese che prese il nome di Lucio III. La nomina non piacque ai Romani perché Lucio, a corto come il suo predecessore di quattrini, dovette limitare le elemosine. Dopo poco tempo infatti fu obbligato ad abbandonare l’Urbe e a cercar rifugio nell’Italia del Nord.
Nell’aprile 1183, alla vigilia della scadenza della tregua, i Legati dell’Imperatore e quelli dei Comuni si diedero convegno a Piacenza. Milano, Brescia, Bergamo, Mantova, Lodi, Novara, Vercelli, quattro città venete, cinque emiliane e Faenza riconfermarono la loro fedeltà all’Impero in cambio dell’autonomia cittadina. Il 25 giugno dello stesso anno, a Costanza, Federico e la Lega stipularono finalmente la pace. È stato scritto che a Costanza non ci furono né vincitori né vinti. In realtà vincitori furono i Comuni, non perché Federico concesse loro nuovi privilegi, ma perché sancì irrevocabilmente quelli di cui già godevano.
Al principio del 1184 il Barbarossa era di nuovo in Germania. Nell’aprile, convocò a Magonza una grande Dieta, alla quale parteciparono migliaia di sudditi. L’Imperatore vi comparve in gran pompa accompagnato da Beatrice e dai cinque figli. Enrico, il primogenito, si presentò ai Principi e ai Vescovi tedeschi, inguainato in una superba armatura. Era il pretendente al trono e il padre andava da tempo accarezzando l’idea di un suo matrimonio con la zia del Re normanno, che non aveva altri eredi.
Emissari tedeschi si erano recati in Sicilia per tastare il terreno. Il Papa lo aveva saputo ed era montato su tutte le furie. La Sicilia in mano agli Hohenstaufen significava l’unione, su una sola testa, di due corone, quella tedesca e quella normanna, che la Chiesa aveva sempre cercato di tenere divise. Le nozze di Enrico con Costanza, come si chiamava la zia di Guglielmo, potevano essere la premessa all’unificazione della Penisola e la liquidazione dello Stato pontificio.
Ma ogni sforzo del Pontefice per mandarle a monte fu vano. Il matrimonio si celebrò con grande fasto a Milano nella basilica di Sant’Ambrogio nel gennaio 1186. Costanza giunse con un folto seguito di cavalieri, buffoni, giullari e damigelle dalle pittoresche fogge arabe. Della carovana facevano parte anche centocinquanta cavalli carichi di gioielli, profumi, arazzi, pellicce, argenteria. Era, col Regno di Sicilia, la dote di Guglielmo alla zia.
Costanza era più vecchia di Enrico e stando ai cronisti del tempo doveva essere piuttosto bruttina. Secondo alcuni, per sposare il figlio del Barbarossa aveva abbandonato il convento in cui, giovinetta, era stata rinchiusa. Ma probabilmente non si tratta che di una leggenda.
Le nozze furono celebrate dagli Arcivescovi di Vienna e di Aquisgrana, i quali posero sul capo di Enrico la corona ferrea, simbolo del Regno d’Italia. Immediata fu la reazione del nuovo papa Urbano III, succeduto a Lucio, ma il suo tentativo di sollevare il Clero tedesco contro Federico fallì. La morte, avvenuta nell’ottobre del 1187 a Ferrara, dopo soli ventitré mesi di pontificato, gli impedì di rinnovarlo.
Urbano fu stroncato – pare – da un attacco cardiaco quando apprese che Gerusalemme era nuovamente caduta in mano dei Saraceni. La perdita del Santo Sepolcro fu accolta con sgomento in tutt’Europa. Il nuovo Papa dimenticò la contesa col Barbarossa e le beghe coi Romani, e bandì una nuova Crociata. Nelle chiese di Colonia, Magonza, Aquisgrana, i Vescovi arringarono i fedeli: «Felici coloro che partono per i luoghi santi, ma più felici ancora quelli che non torneranno». Federico, che voleva rifar pace col Papa, lasciò Ratisbona alla testa di un esercito di centomila uomini, e puntò sui Balcani. Giunto a Gallipoli, s’imbarcò per la Palestina a bordo di navi greche. Nella primavera del 1190 i tedeschi sbarcarono in Siria. I disagi di una lunga marcia, i triboli di una navigazione tempestosa, il caldo e la penuria di viveri provocata dai Turchi che tagliarono le linee di rifornimento, decimarono l’esercito imperiale.
Federico, vecchio, stanco e sfiduciato, aveva visto morire sessantamila dei suoi uomini, dopo un viaggio di duemilacinquecento chilometri. Era venuto in Oriente per ritrovare quel prestigio internazionale che in Italia aveva perduto. E invece trovò la morte, tragica e ingloriosa, tra i flutti di un fiumiciattolo della Cilicia, che l’inghiottirono mentre inseguiva un cinghiale.
Fu il segnale dello sbandamento generale che il nuovo capo, uno dei figli del Barbarossa, tentò disperatamente, ma invano, di contenere. I soldati, stremati dalla fame e dalle malattie, continuarono la marcia. Quando giunsero nei pressi di Tolemaide, i Cristiani che stavano assediando la città li scambiarono per zingari e li scaraventarono nelle retrovie, dove altri trentacinquemila morirono di stenti e di tifo.
Recuperato, il cadavere di Federico fu scarnificato con l’acqua bollente, ridotto a scheletro e sepolto in una chiesa di Antiochia.
Col Barbarossa calò nella tomba anche una parte dell’Impero: quella che s’estendeva dalle Alpi alla Magra, l’Italia cioè dei Comuni che Federico non era mai riuscito completamente a domare. Per i tedeschi era stato un grande Imperatore, per gli italiani uno spietato tiranno. Fu inferiore al suo modello, Carlomagno, ma dall’epoca dei Pipinidi i tempi erano parecchio cambiati. S’erano formati gli Stati nazionali, la città aveva soppiantato la campagna, e la borghesia aveva spezzato le catene del feudalesimo. Era con queste forze nuove che Federico aveva dovuto fare i conti. E non erano, come abbiamo visto, conti facili. Se alla fine non gli tornarono, fu perché l’Impero che egli incarnava era anacronistico. Aveva lottato contro il suo tempo. Ed era stato sconfitto.