CAPITOLO DICIOTTESIMO

LA QUARTA CROCIATA

Sulla fine del 1100 Innocenzo III sguinzagliò per l’Europa una muta di predicatori per incitare i Principi a riprendere la croce e marciare per la quarta volta alla conquista di Gerusalemme. Fra costoro c’era un certo Folco di Neuilly, un curato della Marna il quale, dopo una giovinezza scioperata, dedita alla crapula e al giuoco, aveva trovato la sua via di Damasco, e folgorato dalla Fede ne era diventato il più zelante campione.

Era un uomo tarchiato, analfabeta e di modi grossolani. Vestito di stracci, con una bisaccia a tracolla e un crocifisso di legno sul petto, viveva a bordo di un macilento ronzino e si nutriva esclusivamente di erbe e di pane secco. Predicava nelle piazze, agli angoli delle strade e, nella foga di far proseliti, persino nei bordelli. I suoi seguaci dicevano che per bocca sua parlava lo Spirito Santo, ma i suoi sermoni erano sgrammaticati e sconclusionati, e il tono minaccioso e apocalittico. Narrano che dopo averlo ascoltato i ladri restituivano la refurtiva, le concubine licenziavano gli amanti, le prostitute indossavano il cilicio e si chiudevano in convento. Ma la specialità di Folco erano i miracoli che operava nelle condizioni più sfavorevoli e in mezzo al pubblico più scettico. Così almeno racconta un cronista dell’epoca, il quale si guarda però bene dal riferirli con la scusa che nessuno ci crederebbe.

Il curato di Neuilly fu l’infaticabile agit-prop di Innocenzo nelle campagne e alle Corti di Francia. Bussò alla porta di centinaia di castelli, rastrellò oboli e promesse, e in cambio dispensò, a nome del Pontefice, benedizioni e indulgenze.

I conti Gualtieri e Giovanni di Brienne, Matteo di Montmorency, Simone di Montfort, il Conte di Sciampagna, Tibaldo, e il maresciallo Goffredo di Villehardouin, lo storico ufficiale della Quarta Crociata, infiammati dalle sue parole, corsero ad arruolarsi nell’esercito di Cristo per sterminare gl’infedeli e issare la croce sul Santo Sepolcro.

L’eco della predicazione di Folco e dell’adesione all’impresa della nobiltà franca fu raccolta in Fiandra dal conte Baldovino che nella chiesa di Bruges giurò di marciare anche lui alla volta della Palestina e di passare personalmente a fil di spada quanti più Saraceni poteva. La moglie Maria, una donna arcigna, bigotta e gelosa, volle seguirlo, sebbene fosse di salute cagionevole e per giunta incinta.

I Crociati si diedero convegno a Compiègne e nominarono capo della spedizione il conte Tibaldo. Poi spedirono un’ambasceria a Venezia per chiedere al doge Enrico Dandolo di mettere a loro disposizione la sua flotta per il traghetto di quattromilacinquecento cavalli e ventimila fanti. La Serenissima avrebbe anche dovuto provvedere per nove mesi ai servizi logistici e al vettovagliamento dei Crociati. Dandolo pretese un compenso di ottantacinquemila marchi d’argento, che i capi crociati s’impegnarono a pagare sebbene fossero quasi completamente al verde. Nel frattempo Innocenzo, il quale per finanziare la guerra santa aveva fatto fondere il vasellame d’oro sostituendolo con scodelle d’argilla e posate di legno, aveva lanciato appelli anche in Lombardia e in Piemonte dove il potente Marchese di Monferrato, Bonifacio, stava ora armando un esercito.

Quando i messi tornarono a Compiègne trovarono Tibaldo febbricitante e in preda a un violento accesso di dissenteria. Appena gli riferirono il buon esito della missione, contro il consiglio dei medici, il Conte di Sciampagna si alzò, indossò il saio crociato, inforcò il cavallo e, brandita la lancia, partì al galoppo al grido di «Dio lo vuole!», ma fatti pochi passi stramazzò al suolo. Fu raccolto in fin di vita e dopo alcuni giorni morì lasciando ai Crociati tutte le sue sostanze. Il suo posto fu preso dal Marchese di Monferrato.

Una bega sorta per colpa di certi Ebrei i quali volevano essere pagati in anticipo ritardò di alcune settimane la partenza. Nella primavera del 1202, finalmente, tutto era pronto. Un solo nome mancava all’appello: quello di Folco. Il curato di Neuilly era morto improvvisamente, e non certo in odore di santità. Negli ultimi tempi gravi sospetti s’erano appuntati su di lui e qualcuno l’aveva addirittura accusato di frode. Quando calò nella tomba tuttavia il popolino volle che fosse sepolto con tutti gli onori nella chiesa della sua parrocchia, e un lungo corteo di cavalieri e di Baroni seguirono il feretro.

I Crociati si misero in cammino per Venezia. Più che un esercito era un’orda in cui i Principi si confondevano con gli schiavi, i Baroni si mescolavano ai monaci, gli avventurieri agli idealisti, le prostitute alle dame. Prima di partire, tutti si erano confessati e avevano ricevuto la comunione. Alcuni avevano indossato il cilicio e altri se l’erano tolto. A Venezia furono accolti con grandi feste dagli abitanti.

Il Doge chiese subito di Bonifacio che doveva consegnargli la somma pattuita per il traghetto, ma il Marchese di Monferrato non era riuscito a racimolare che poche migliaia di marchi anche perché alcuni Baroni, all’ultimo momento, avevano preferito imbarcarsi direttamente a Marsiglia. Bonifacio aveva venduto i gioielli e l’argenteria di famiglia e aveva obbligato gli altri Crociati a fare altrettanto. Ma non era bastato. Gli armatori veneziani volevano essere pagati in anticipo e in contanti. Sembrava che l’impresa dovesse abortire, quando il Dandolo barattò con Bonifacio il trasporto in Palestina con l’aiuto crociato alla riconquista di Zara, strappata ai Veneziani dal Re d’Ungheria. Il Marchese di Monferrato accettò, anche perché non aveva altro partito a cui appigliarsi.

Non fu un’impresa facile vincere le resistenze dei Crociati a quella deviazione, e placare l’ira di Innocenzo che minacciò di scomunicare tutti se non si restituiva subito a Cristo il Santo Sepolcro. Il Re d’Ungheria era un cristiano devoto, e al Papa una guerra contro di lui appariva ingiusta e sacrilega. Il Doge che, sebbene ultranovantenne, era ancora un uomo vigoroso, promise al Pontefice che dopo la riconquista di Zara sarebbe partito anche lui per Gerusalemme.

Il porto dalmata fu facilmente espugnato. I suoi abitanti furono trucidati, le chiese profanate e le case bruciate. La città fu divisa in due parti. I Veneziani s’istallarono in quella residenziale e lasciarono la periferia ai francesi i quali, scontenti del bottino, dichiararono guerra al Doge. Le strade di Zara furono per alcuni giorni teatro d’ogni sorta di orrori, le piazze si lastricarono di cadaveri e le chiese brulicavano di feriti. Fu una carneficina in piena regola che decimò i due eserciti e li coprì di vergogna.

Non s’era ancora spenta l’eco del macello che giunsero in città alcuni ambasciatori svevi i quali chiesero d’essere ricevuti dal Marchese di Monferrato. Li mandava il loro principe Filippo presso il quale s’era rifugiato il figlio dell’ex-Imperatore bizantino, Alessio. Filippo supplicava i Crociati di marciare sul Bosforo e rimettere sul trono dell’Impero d’Oriente, ch’era stato usurpato dallo zio di Alessio, il legittimo titolare. In cambio Alessio s’impegnava a mantenere per un anno l’esercito di Bonifacio e la flotta del Dandolo, a pagare duecentomila marchi d’argento per le spese di guerra, a spedire diecimila soldati in Palestina e mantenere vita natural durante cinquecento cavalieri a guardia del Santo Sepolcro. Infine avrebbe sottomesso la Chiesa greca a quella romana e riconosciuto il primato ecumenico del Papa.

Erano promesse allettanti, ma tutti si domandavano come un Principe in esilio, e per giunta squattrinato, avrebbe avuto i mezzi per mantenerle. Al Doge non dispiaceva affatto l’idea di un altro dirottamento su Costantinopoli, dove Pisa aveva aperto importanti fondachi e minacciava d’invadere i mercati orientali che fin allora erano stati monopolio dei Veneziani. I Crociati avevano legato le loro fortune a quelle della Serenissima, dai cui fondi e dalle cui navi ora dipendevano, e non potevano perciò prendere iniziative unilaterali. Qualcuno parlò di tradimento e invocò la scomunica del Pontefice sui Crociati che avevano abbandonato la causa di Cristo per abbracciare quella d’Alessio.

Alla fine, dopo interminabili discussioni, la flotta franco-veneziana salpò da Zara alla volta di Bisanzio. Mentre le navi facevano vela verso il Bosforo, al largo di Corfù incrociarono un vascello che riconduceva in patria dalla Palestina una comitiva di pellegrini fiamminghi. Uno di costoro, quando vide la flotta veneziana, si tuffò in mare e raggiunta a nuoto la galera del Dandolo, chiese d’essere arruolato fra i Crociati.

A Bisanzio l’usurpatore circondato da buffoni, concubine e cortigiani, passava il tempo a coltivare fiori, allevare uccelli esotici e leggere la Bibbia. L’esercito imperiale non poteva contare che su duemila Pisani e un certo numero di mercenari. Le navi erano state completamente disarmate e gli attrezzi, le macchine da guerra e i sartiami venduti per finanziare i giuochi del Circo.

Quando la flotta veneziana fu alle viste di Costantinopoli, Dandolo e Bonifacio si spinsero con la loro nave fin sotto le mura della città che s’affacciavano sul porto, e s’arrampicarono sulla prua tenendo per mano Alessio mentre un araldo, rivolto ai Bizantini ammassatisi sui bastioni, li esortava a riconoscerlo come il vero erede. Ma i greci che odiavano i Veneziani risposero con sputi e sberleffi. Era il segnale della guerra. I preti ebbero un gran daffare a confessare i Crociati e a compilare i loro testamenti perché quasi tutti erano analfabeti. Alcuni ne approfittarono per intestare le eredità a Cristo e alla Vergine.

L’assedio si rivelò più arduo del previsto. La città era ben munita e le mura sembravano inespugnabili. Tutti gli abitanti erano stati mobilitati e armati di pietre, secchi d’olio bollente e bastoni. Sulle torri erano state piazzate le catapulte. I Crociati si lanciarono ripetutamente all’assalto cercando di dare la scalata alle mura ma vennero regolarmente respinti. Due fanti fiamminghi, fatti prigionieri dai Greci, furono condotti al cospetto dell’Imperatore il quale, asserragliatosi nel palazzo, giocava coi suoi uccelli. Appena li vide, credendo che la guerra fosse finita e che i Bizantini l’avessero vinta, diede ordine d’allestire un gran ballo pubblico. Quando gli dissero che i combattimenti non erano cessati e che il Doge s’apprestava ad attaccare la città dalla parte del mare, comandò di riarmare alla meglio la flotta e di lanciarla contro i Veneziani.

I dromoni furono caricati di botti ripiene di una speciale polvere chiamata fuoco greco la cui ricetta, inventata nel settimo secolo da un certo Callinico, era un segreto militare gelosamente custodito. Con quest’arma i Greci avevano vinto le più difficili battaglie navali incendiando in pochi minuti la flotta nemica e colandola a picco con l’equipaggio che, prigioniero delle fiamme, di rado e faticosamente riusciva a porsi in salvo. Una mezza dozzina di galere veneziane investite dalle fiamme affondarono, ma la maggior parte riuscì a guadagnare quasi indenne la riva, mentre l’usurpatore, istigato dai cortigiani si preparava ad abbandonare alla chetichella la città, in compagnia delle sue gabbie. I Bizantini allora liberarono il padre di Alessio, Isacco, che l’Imperatore aveva fatto imprigionare e lo collocarono in gran pompa sul trono. Poi spalancarono le porte della città ai Crociati i quali v’irruppero portando sugli scudi il giovane Alessio che fu proclamato coreggente e incoronato nella basilica di Santa Sofia.

Era giunto il momento della resa dei conti. Bonifacio e Dandolo erano impazienti di riscuotere la somma che Alessio aveva loro promesso e che doveva servire a finanziare la Crociata. L’Imperatore vuotò le casse dello Stato, moltiplicò i balzelli, fece fondere le statue e i vasi sacri, ma non riuscì a raggranellare che poche migliaia di marchi.

Sulla città stremata dall’assedio incombeva la minaccia della carestia. Una notte un sanguinoso tumulto scoppiò nel quartiere ebreo tra gli abitanti e alcuni cavalieri fiamminghi che li avevano insultati. Durante la zuffa qualcuno appiccò il fuoco alla sinagoga e in un battibaleno l’incendio, avvivato dal vento, si propagò a tutta la città investendo interi quartieri. In preda al terrore, la gente irruppe nelle strade e ingombrandole di carri e masserizie ostacolò l’opera dei pompieri e delle squadre di soccorso. Le fiamme infuriarono per una settimana e le vittime non si contarono.

Alessio diventò il capro espiatorio di tutte le calamità che s’erano abbattute su Costantinopoli. I Greci lo detestavano perché bazzicava i Veneziani e con loro passava la notte a bere e a giocare ai dadi; i preti non gli perdonavano la capitolazione al Papa; il padre l’accusava di perverse inclinazioni e non perdeva occasione per maltrattarlo e mortificarlo al cospetto dei sudditi, con la segreta speranza di farlo deporre e di poter regnare da solo. Isacco, circondato da monaci e astrologi, conduceva vita ritirata, pregava e adorava le immagini dei Santi e della Vergine. Una mattina il popolo, aizzato da un avventuriero di nome Marzufflo, lo depose insieme col figlio, che fu gettato in prigione e strangolato.

Al loro posto fu proclamato Imperatore lo stesso Marzufflo il quale ordì una congiura per assassinare il Doge e i capi crociati e liberare così la città dal nemico che, dopo averla devastata, vi si era acquartierato in attesa di riprendere la marcia per Gerusalemme. Scoperto il complotto Dandolo e Bonifacio ordinarono la rappresaglia, che fu massiccia e spietata. I Bizantini si gettarono ai piedi dei Crociati e ne invocarono la clemenza mentre la soldataglia fiamminga s’abbandonava al saccheggio. Non furono risparmiate neppure le tombe degli Imperatori e anche quella di Giustiniano fu scoperchiata e svaligiata. In Santa Sofia i cavalieri franchi, dopo aver squarciato il velo che lo ricopriva, fracassarono l’altare della Madonna e giocarono ai dadi ai suoi piedi, brindando coi calici della messa e imbrattando gli arredi sacri. Una prostituta, fattasi issare sull’altare, strappandosi le vesti, s’abbandonò a una danza oscena fra gli schiamazzi e le bestemmie dei Crociati.

Lo storico Niceta, che fu testimone oculare di questi avvenimenti, racconta che i Cristiani superarono in barbarie i Saraceni. I monumenti della Capitale furono abbattuti a colpi d’ariete e quelli di bronzo fusi per far moneta. Non si rispettarono neppure i capolavori di Fidia, di Prassitele, di Lisippo e la celebre statua di Giunone che un tempo aveva adornato il tempio di Samo.

Ma fu soprattutto sulle reliquie che i Crociati sfogarono il loro ùzzolo di rapina. Un certo Martino Litz, che era venuto apposta a Bisanzio dalla Palestina per partecipare al colossale saccheggio, tornò a Gerusalemme con lo scheletro di San Giovanni Battista e un braccio di San Giacomo. Un sacerdote francese trafugò la testa di San Mammete; un chierico della Piccardia, più fortunato, rinvenne tra le macerie di una chiesa quelle di San Giorgio e di San Giovanni. Il Doge dovette accontentarsi di un frammento della croce, ch’era già appartenuto a Costantino; a Baldovino toccarono in sorte la corona di spine di Gesù e tre molari dell’apostolo Pietro. I capi franchi donarono il loro bottino che consisteva in un altro pezzo della croce lungo un piede, nei capelli di Gesù bambino e in un pannolino della Vergine al Re di Francia, Filippo Augusto.

La perdita di tanti cimeli fu per i Bizantini assai più dolorosa di quella della libertà. Le reliquie infatti – secondo la credenza popolare – guarivano gli infermi, restituivano la vista ai ciechi, la favella ai muti, le gambe ai paralitici, la fecondità alle donne sterili, operavano ogni sorta di miracoli, tenevano lontano le calamità naturali e scongiuravano le epidemie.

Conquistata Bisanzio, i Crociati nominarono il Conte di Fiandra, Baldovino, Imperatore latino d’Oriente. Il bottino di guerra fu così diviso: ciascun cavaliere ebbe una parte uguale a quella di due soldati a cavallo e ogni soldato a cavallo una parte uguale a quella di due fanti. Un comitato di dodici patrizi veneti e di dodici cavalieri franchi assegnò la Bitinia, la Tracia, Tessalonica e la Grecia alla Francia, le Cicladi, la costa orientale del golfo Adriatico, Adrianopoli e altri territori marittimi alla Serenissima. Il Marchese di Monferrato ebbe le terre al di là del Bosforo e l’isola di Candia che vendette a Venezia per trenta libbre d’oro. Ogni Barone ebbe la sua piccola fetta d’Impero cui diede le stesse leggi feudali del suo Paese. Le chiese di Costantinopoli passarono ai vincitori e il veneziano Tommaso Morosini fu nominato Patriarca.

I Crociati cominciarono subito a litigare perché nessuno riteneva di avere avuto abbastanza. Bonifacio accusò Baldovino di essere un tiranno e i due si sarebbero certamente scannati se il Doge, col peso della sua autorità e dei suoi anni, non avesse fatto da paciere.

Sotto le ceneri della conquista intanto covavano le scintille della rivolta. I Greci meditavano la vendetta, e quando i Crociati posero l’assedio alla capitale della Tracia che rifiutava di sottomettersi, essi chiesero aiuto al Re dei Bulgari, il quale con un esercito di Tartari marciò sulla città, sterminò la cavalleria franca e catturò Baldovino. Fu chiamato a succedergli il fratello Enrico. Quasi contemporaneamente, all’età di novantaquattro anni, moriva a Costantinopoli Enrico Dandolo, e in una spedizione contro gli stessi Bulgari perdeva la vita Bonifacio, la cui testa, conficcata su una lancia, fu esposta al pubblico ludibrio.

L’Impero latino d’Oriente durò ancora cinquant’anni, fino al 1261, ma ebbe vita grama, dilaniato all’interno da continue guerricciole fratricide, minacciato alle spalle dai Bulgari, insidiato sul mare dagli Arabi. I Bizantini odiavano i vincitori che li avevano ridotti allo stato di schiavi dopo averli trattati peggio degli infedeli.

Ma tutto questo riguarda poco l’Italia, cui ora conviene tornare. La Penisola aveva partecipato scarsamente, come contributo di uomini, alle Crociate. Ma era forse il Paese che più ne aveva profittato, grazie alle sue Repubbliche marinare che da questo momento entrano a vele spiegate, come protagoniste, non solo sui mari, ma anche nella storia europea.