Quando nel 452 l’orda unna di Attila era straripata nel Veneto, gli abitanti di Padova, Verona, Aquileia, Treviso e dei villaggi tutt’intorno, in preda al terrore, avevano abbandonato le loro case e con greggi e masserizie erano sfollati sugli isolotti del desolato arcipelago che sorgeva alla foce del Piave e dell’Adige. Aquileia si era trapiantata a Grado, Treviso a Murano, Padova a Rialto, Verona a Chioggia. Le lagune erano popolate da poche migliaia di pescatori che vivevano in squallidi abituri eretti su palafitte. I profughi si erano acquartierati in capanne di legno e di fango, e da agricoltori e pastori quali erano stati sulla terraferma si erano trasformati in pescatori. Sul Veneto per un pezzo continuò a incombere la minaccia dei barbari: nel 476 esso fu invaso da Odoacre, nel 489 da Teodorico, nel 568 da Alboino. Gli abitanti dell’arcipelago colsero l’eco dei massacri e dei saccheggi che accompagnarono la calata degli Ostrogoti e dei Longobardi in Italia e corsero ai ripari, fortificando gli approdi, scavando canali e allestendo una piccola flotta.
Tagliate fuori dalle rotte degli invasori, le lagune a poco a poco si diedero una rudimentale organizzazione politica. Ogni isola nominò un capo, o tribuno, scelto tra i suoi abitanti, con poteri limitati dall’assemblea del popolo, o arengo. Sulla carta l’arcipelago dipendeva dall’Esarca bizantino di Ravenna che nominava un magister militum, o capo militare, al quale i tribuni erano teoricamente sottoposti. Nel loro insieme le isole formavano una specie di confederazione, ma di fatto ognuna era una piccola Repubblica indipendente in concorrenza e spesso in conflitto con le altre. La mancanza di una difesa comune le esponeva però a ogni sorta di minacce. Nel 697 gli isolani decisero di darsi un comando unico nominando un Duca, o Doge. Il suo titolo era vitalizio e i suoi poteri molto ampi ma il popolo che l’aveva eletto poteva deporlo in qualunque momento.
I primi Dogi non ebbero vita lunga: uno fu assassinato, quattro accecati, due scomunicati ed esiliati e tre deposti senza supplizio. Risiedevano a Eraclea, che fu la prima capitale della Repubblica veneta. Nel 729 il doge Orso tentò di trasmettere il titolo al figlio e di rendere così ereditaria la magistratura. Scoppiò una rivolta. Orso fu assassinato dal popolo inferocito, il dogato fu soppresso e il governo della Repubblica affidato a capitani della milizia, eletti annualmente. Ma l’esperimento fallì in mezzo ai sanguinosi tumulti delle fazioni rivali. Dopo cinque anni i veneti tornarono a nominare un Doge ma decisero di trasferire la capitale dalla turbolenta Eraclea all’isoletta di Malamocco.
Sulla fine dell’ottavo secolo la laguna era una Repubblica solida, prospera e industriosa, dotata di un’eccellente flotta mercantile. Alla pesca e all’estrazione del sale che all’origine erano state le uniche attività dei suoi abitanti si era venuto affiancando il commercio marittimo. Le galere venete cominciarono a solcare l’Adriatico, l’Egeo, il Mediterraneo, e attraverso lo stretto di Gibilterra e l’Atlantico a spingersi fino al Mar del Nord. Nell’810 la capitale fu trasferita da Malamocco a Rialto che col suo dedalo di isolette era meno vulnerabile, e dal nome dei suoi fondatori si chiamò Venezia.
Nell’anno 900 la Repubblica fu minacciata da un’orda di Ungheri i quali, sebbene fossero terragni e poco esperti di mare, saccheggiarono Chioggia e poi a bordo delle loro rudimentali imbarcazioni puntarono sulla capitale. I veneziani li colsero di sorpresa nelle acque di Malamocco mentre risalivano l’Adriatico, affondarono le loro navi poco adatte a quei fondali bassi e paludosi, e massacrarono i naufraghi.
La vittoria spalancò a Venezia quei porti adriatici che temendo le incursioni dei pirati dalmati e degli stessi Ungheri si misero volontariamente sotto la sua protezione.
La fine del decimo secolo fu funestata da una rivolta popolare contro il doge Candiano IV, accusato di crudeltà e dispotismo. La folla assalì il palazzo ducale e vi appiccò il fuoco. A stento il Doge col figlioletto in braccio scampò alle fiamme. Ma non fece in tempo a scampare ai carnefici che lo squartarono e lo gettarono in pasto ai cani. La stessa sorte subirono i familiari e i collaboratori. Solo la moglie e un figlio si salvarono, riparando alla Corte dell’imperatore Ottone II. Nel 991 fu eletto doge Pietro II Orseolo. Sotto di lui la Repubblica estese il protettorato alla Dalmazia ripulendo le sue coste dei pirati narentani che le infestavano. L’Adriatico diventò così un lago veneziano. Pietro II si procurò il favore dell’Imperatore tedesco e di quello bizantino. Per guadagnarsi quello della Chiesa fondò numerosi monasteri, e chiuse due figli e tre figlie in convento. Uno storico lo paragonò a Pericle. Quando morì, il popolo gli tributò solenni esequie e chiamò a succedergli il figlio Ottone Orseolo il cui Regno fu tribolato dalla lotta tra le due fazioni che da tempo dividevano Venezia: quella filo-tedesca e quella filo-greca. La prima voleva allearsi con la Germania, la seconda con Bisanzio.
Nel 1081 i Normanni occuparono Durazzo e Corfù che appartenevano all’Impero d’Oriente. Dai due porti posti all’ingresso e all’uscita del canale d’Otranto, era facile intercettare i convogli veneziani che dall’Adriatico dirigevano le vele verso lo Jonio, e sbarrare il passo alle triremi bizantine che percorrevano, cariche di merci, la rotta inversa.
Per Venezia e per Costantinopoli la libertà di navigazione su questi due mari era questione di vita o di morte. Nel 1083 il doge Vitale Faliero con una flotta di alcune centinaia di galere salpò alla volta di Durazzo e di Corfù. I Normanni, condotti da Roberto il Guiscardo, furono volti in fuga dai Veneziani più numerosi e meglio armati. I due porti furono restituiti all’imperatore Alessio Comneno. In cambio il Doge ottenne per i suoi mercanti numerosi privilegi commerciali sull’intero territorio bizantino. A Costantinopoli una vasta area del porto fu data in concessione alle compagnie di navigazione veneziane con la licenza di aprire fondachi, o magazzini, per il deposito delle merci. Le galere della Repubblica furono esentate dai diritti doganali e dalle tasse. Su questi benefici si fondò per secoli la supremazia marittima di Venezia che alla fine del 1100 era la prima potenza commerciale d’Europa, centro di raccolta e smistamento delle merci più disparate: dall’Oriente importava spezie, profumi, sete, broccati, materie coloranti; dall’Occidente esportava all’Est legname da costruzione, ferro, rame, argento, sale e schiavi, nonostante i divieti della Chiesa. Le sue navi non solo rifornivano i porti dell’Italia, della Balcania e della Grecia ma anche quelli della Francia, della Spagna e della Germania. Fino alla metà del tredicesimo secolo il monopolio commerciale di Venezia sui mari fu assoluto e incontrastato.
L’espansione economica all’esterno fu resa possibile dalla stabilità politica all’interno, garantita da un’originale costituzione aristocratica. Solo in teoria infatti Venezia era una Repubblica democratica. I suoi ordinamenti, fin dall’ottavo secolo, furono oligarchici. Se i primi Dogi erano stati eletti a suffragio popolare, col passare del tempo il diritto di voto fu limitato a gruppi sempre più ristretti di cittadini. Tuttavia solo alla fine del 1100 l’elezione del Doge ebbe un assetto definitivo. La procedura era lunga e macchinosa; noi cercheremo per comodità del lettore di semplificarla (ma temiamo di non riuscirci).
Il supremo organo dello Stato era il Gran Consiglio, formato da un migliaio di membri, di età non inferiore ai trent’anni, appartenenti alle famiglie più cospicue per censo o per nascita. Il giorno dell’elezione si riunivano, e ciascuno traeva una pallina da un’urna. Coloro ai quali toccava in sorte una delle trenta palline con la scritta lector, o elettore, restavano nell’aula, mentre gli altri ne uscivano. Con lo stesso sistema i trenta si riducevano a nove, i quali a loro volta sceglievano, fra tutti i componenti il Gran Consiglio, quaranta nomi. I quaranta si riducevano a dodici che in una successiva votazione ne eleggevano venticinque. Nuovo ballottaggio e i venticinque ne designavano nove, i quali dovevano eleggerne quarantatré che si riducevano poi a undici. Costoro finalmente designavano i quarantuno elettori del Doge, e a questo punto cominciava il Conclave.
I partecipanti venivano rinchiusi ciascuno in una delle sale del palazzo ducale, in compagnia dei servi e sotto la vigilanza di due consiglieri. Ogni elettore proponeva su una scheda un candidato. Colui che otteneva almeno venticinque voti era il nuovo Doge. I Conclavi non duravano in media più di due-tre giorni, ma qualcuno si prolungò per oltre un mese, durante il quale si faceva un gran scialo di carni, pesci, selvaggina, frutta, verdura, torte, spezie, gelati, vini, liquori. Le tavole erano inghirlandate e cosparse di profumi. Fra una votazione e l’altra i conclavisti giocavano a carte e a scacchi.
Le campane delle chiese annunciavano l’avvenuta elezione e chiamavano a raccolta in piazza San Marco i Veneziani. Il gran cancelliere della Repubblica comunicava al neo-eletto l’esito della votazione. Poi cominciavano le cerimonie ufficiali. I patrizi veneti sfilavano davanti al Doge e gli rendevano omaggio. Si svolgeva quindi un banchetto al quale intervenivano i notabili della Repubblica e il corpo diplomatico. Successivamente il neo-eletto si recava nella chiesa di San Marco a baciare le reliquie dell’Evangelista. All’uscita veniva acclamato dal popolo al quale distribuiva denaro. Si avviava poi a palazzo ducale, e qui, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e rispetto alla costituzione, indossava uno speciale copricapo a forma di corno, tempestato di diamanti, simbolo della suprema autorità. Finalmente, esausto, si ritirava nei suoi appartamenti. Per tre giorni Venezia era in festa. Nelle piazze il popolino s’abbandonava a canti e danze. Nelle sale del palazzo ducale si dava un gran ballo in onore dei nobili e dei cittadini più ragguardevoli con contorno di concerti e giuochi di società. Il Doge però non vi compariva, e a fare gli onori di casa erano i suoi familiari.
Venezia era una provincia bizantina. Ciò implicava il riconoscimento ufficiale del Doge da parte dell’Imperatore d’Oriente. Era, si capisce, una pura formalità come del tutto convenzionali erano i titoli di Console, spatario, Senatore, Patrizio e Maestro che il Basileus conferiva al Doge, cui spettavano di diritto anche gli appellativi di ìnclito, preclarissimo, glorioso, magnifico, eccelso, illustre, serenissimo. Quest’ultimo prevalse sugli altri fino alla caduta della Repubblica.
Dapprincipio i poteri del Doge erano molto ampi, ma col tempo diventarono sempre più limitati poiché la suprema autorità politica era detenuta dal Gran Consiglio. Il Doge non poteva esercitare il commercio e l’usura, fare o ricevere doni, aprire le lettere di Stato, esibire ritratti o stemmi di famiglia, innalzare baldacchini, concedere udienze private. Non aveva diritto a baciamano né a inchini. Doveva pagare le tasse come un qualunque cittadino, finanziare il Capitolo di San Marco, stipendiare il cappellano di palazzo e assistere alla messa almeno tre volte la settimana. Se voleva fare un viaggio doveva chiederne l’autorizzazione al Gran Consiglio che gli vietava persino di recarsi a teatro. Raramente, e solo nelle grandi occasioni, usciva da palazzo ducale. Talvolta, per non farsi riconoscere, indossava una semplice tunica e si copriva il volto con una maschera. La sua gondola era addobbata con due cuscini e un tappeto color cremisi. Dalla metà del tredicesimo secolo il Doge fu obbligato a regalare ogni anno ai nobili veneziani due anitre selvatiche, una grassa e una magra, allevate in un suo feudo in val di Marano.
La vita pubblica del Doge era regolata da un rigido cerimoniale e da un protocollo complicatissimo. Egli doveva partecipare alle sedute del Gran Consiglio e presiedere le più importanti riunioni di Stato. Quando pronunciava un discorso, lo faceva non in latino, come usava dappertutto altrove, ma in dialetto veneto, restando seduto e a capo coperto, mentre l’uditorio si levava silenziosamente in piedi. Le spese che doveva sostenere erano immense. La lista civile, o appannaggio, che lo Stato gli versava non era sufficiente a coprirle. Doveva arredare i propri appartamenti, dotarli di mobili, tappeti e argenteria, mentre agli arazzi e alle sedie di velluto provvedeva il Ministro del Tesoro.
Il Doge stanziava anche una certa somma per il proprio guardaroba che comprendeva capi di vestiario assai costosi. Fin verso il dodicesimo secolo essi erano di foggia bizantina. Il celebre corno che fungeva da diadema sovrano derivava da un copricapo greco; di fattura orientale era anche l’abito da cerimonia, composto da una sottana, o dogalina, da una tunica e da un manto di lana o di velluto, a tinta unita o a fiori, di solito foderato di pelliccia e dotato di uno strascico.
Sotto la dogalina indossava un paio di bragoni di velluto e raso cremisi, fermati da una cintura scarlatta con fregi d’oro. Ai piedi portava calzette rosse e sandali, e al dito un anello con l’effigie di San Marco, protettore di Venezia, nell’atto di consegnargli lo stendardo della Repubblica. Il colore delle vesti variava a seconda delle circostanze. Il venerdì santo il manto era scarlatto e la vigilia di Natale cremisi. I primi Dogi portavano i capelli lunghi e la barba folta, tagliata alla greca, ma col tempo e il mutare della moda Venezia andò perdendo quei caratteri bizantini che per secoli avevano improntato la sua vita e i suoi costumi.
Anche i familiari del Doge erano sottoposti a ogni sorta di limitazioni. Esclusi dalla carriera ecclesiastica e da quella pubblica, i figli e i fratelli potevano entrare a far parte del Gran Consiglio dove però non avevano diritto di voto. L’unico privilegio di cui godevano era la precedenza sugli altri patrizi. Nelle grandi occasioni seguivano il corteo dogale che, preceduto da una banda di trombe e di pifferi, si snodava attraverso le calli cittadine, diretto in piazza San Marco. Qui, quando il Doge moriva, faceva capo il corteo funebre con le sue spoglie.
Dapprincipio le esequie non rivestirono alcun carattere di solennità. Solo dopo il Mille cominciarono ad ammantarsi di una certa pompa. Il corpo del Doge, poche ore dopo il decesso, veniva imbalsamato e avvolto in un manto d’oro. In testa gli veniva posto il corno ducale, ai piedi gli speroni d’oro calzati alla rovescia, e al fianco lo stocco, ch’era uno spadino corto e sottile, con la impugnatura rivolta verso l’estremità. La salma veniva quindi deposta su un grande tavolo foderato di tappeti fra due alti candelabri accesi in una delle sale del palazzo, e per tre giorni, vegliata da gentiluomini in toga rossa, rimaneva esposta al pubblico. I funerali si svolgevano al calar del sole ed erano accompagnati dai rintocchi delle campane di San Marco e delle altre chiese della laguna. Un interminabile corteo di consiglieri, magistrati, ufficiali, ammiragli ed ecclesiastici, seguiti da una folla oceanica di cittadini, s’avviava verso la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo (col cattivo tempo il rito funebre si svolgeva in San Marco), brandendo labari, gonfaloni, ceri e simulacri di Santi. I congiunti del Doge che scortavano il feretro indossavano un mantello nero con cappuccio. Quando il corteo giungeva davanti a San Marco le campane cessavano di suonare e alcuni marinai sollevavano nove volte da terra il catafalco gridando «Misericordia». Al termine del rito, che si chiamava salto del morto, la processione si rimetteva in marcia, dirigendosi verso la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Qui il Patriarca celebrava la messa funebre che culminava con la benedizione del cataletto, collocato nel bel mezzo della navata centrale e ricoperto di drappi neri con gli stemmi del Doge. La cerimonia si concludeva con l’inumazione della salma che avveniva nella chiesa stessa. Le ingentissime spese del funerale erano a carico della famiglia del Doge che spesso per sostenerle s’indebitava fino al collo.
Non meno fastose erano le esequie della dogaressa che il Da Mosto definì «Principessa esclusivamente veneziana». In origine essa non era che la moglie del Doge, priva di speciali prerogative. Ma al principio del tredicesimo secolo privilegi e limitazioni vennero estesi anche a lei. Nel 1229 la dogaressa Tiepolo s’impegnò a non accettare doni, a meno che non si trattasse di acqua di rose, balsami e fiori, e promise di non contrarre debiti e di non esercitare l’usura. Nelle grandi solennità cingeva il corno ducale, indossava un manto dorato e si copriva il viso con un velo. Sedeva sempre alla sinistra del Doge su uno scanno sopraelevato, e a tavola veniva servita in piatti dorati. Aveva a disposizione una gondola con specchi e pomoli. Era la first lady, la prima signora della Repubblica, e spesso godette di una popolarità superiore a quella del Doge. Essa eguagliò per fasto e ricchezza la Basilissa greca e l’Imperatrice di Persia, vivendo nella più prospera e brillante capitale d’Europa e forse del mondo.
I suoi architetti avevano dato a Venezia una impronta regale e originalissima. Le acque dei canali percorsi dalle agili gondole riverberavano le luci e le aeree sagome dei suoi palazzi che nei giorni di festa venivano pavesati con sete e broccati di squisita fattura orientale. Erano le dimore dei patrizi, arricchitisi sul mare col commercio. I loro nomi figuravano nell’Albo d’Oro della Repubblica, ch’era una specie d’Almanacco di Gotha. Alcuni come i Morosini, i Dandolo, i Mocenigo si sono tramandati attraverso i secoli fino a noi. Le più cospicue famiglie veneziane erano rappresentate nel Gran Consiglio, monopolizzavano le più alte cariche dello Stato e fornivano i quadri alla diplomazia. Costituivano una casta chiusa d’origine mercantile che aveva scarsi contatti col resto della nobiltà italiana di ceppo germanico e d’estrazione feudale.
Nel tredicesimo secolo Venezia aveva oltre centomila abitanti. Al vertice, i patrizi formavano una minoranza. I cittadini originarii, come nel Duecento si chiamavano gli esponenti del ceto medio, erano il nerbo della burocrazia e attraverso il Gran Cancelliere, ch’era il loro capo come il Doge lo era dei nobili e li rappresentava, senza però diritto di parola, alle sedute del Gran Consiglio, partecipavano alla vita della Repubblica. Da essa era invece escluso il popolo che tuttavia a Venezia godeva di un tenore di vita superiore a quello delle altre città italiane. Era riunito in corporazioni, o fraglie, di cui quelle degli addetti all’arsenale, o arsenalotti, dei vetrai di Murano e dei merlettai di Burano erano le più prospere. Ogni fraglia aveva il suo Santo protettore e la sua chiesa.
Le dimore di molti borghesi e dei popolani si aggrumavano nelle calli o s’affacciavano sui campielli. Erano di pietra a uno o due piani, con poche finestre munite d’inferriate e con tetti molto spioventi sui quali s’elevavano le altane, dove le lavandaie stendevano il bucato. Internamente le case avevano una corte con al centro un pozzo d’acqua piovana. Le strade, sulle quali si sporgevano piccole logge in muratura, non erano lastricate. Quando pioveva s’impastavano di fango e col sole si coprivano di polvere. Erano strette, tortuose e intasate d’immondizie e di detriti, tra i quali grufolavano i maiali e razzolavano i polli. Un campanello annunciava il passaggio di un mulo o di un cavallo, e dava l’allarme ai passanti che cercavano riparo nei portoni o nelle botteghe. Sui canali scivolavano silenziose le gondole, dirette ai mercati di Rialto o di piazza San Marco. Nel porto erano ancorate le navi in procinto di salpare per l’Oriente o appena giunte dai lontani lidi del Mar Nero, dell’Egeo e del Mar del Nord.
Venezia non era solo dedita al commercio, agli affari e al guadagno, ma anche al piacere e ai divertimenti. I suoi cittadini, dai quindici ai trent’anni, erano iscritti ai club dei balestrieri. Ogni club aveva un certo numero di squadre, formata ciascuna da dodici tiratori al comando di un capo. Le gare di balestra si disputavano nei mesi di dicembre, marzo e maggio. D’estate, su ponti privi di parapetto dai quali i contendenti potevano facilmente precipitare nel canale sottostante, tra i lazzi degli spettatori, si svolgevano accaniti incontri di pugilato. Un altro giuoco che richiamava la folla sulle rive del Canal Grande era il cosiddetto ludo d’Ercole al quale partecipavano giovani atleti che s’arrampicavano uno sull’altro fino a formare una gigantesca piramide umana. L’esercizio era particolarmente difficile perché lo si praticava a bordo di una barca che al minimo scossone perdeva l’equilibrio e si rovesciava. Molto in voga era anche la caccia al maiale che si svolgeva in piazza San Marco il giorno di giovedì grasso. Centinaia di suini, aizzati da cani, s’avventavano contro cacciatori armati di coltello o di scure. In breve la piazza si trasformava in un orrendo mattatoio e il popolino faceva man bassa dei maiali squartati.
Ma la festa più popolare e più solenne era lo sposalizio del mare che celebrava la vittoria riportata nell’Anno Mille dal doge Pietro II Orseolo sui pirati narentani che infestavano le coste dalmate. Il giorno dell’Ascensione il Doge s’imbarcava sulla galera ducale, o bucintoro, attraversava la laguna, e giunto all’imboccatura del porto di San Niccolò di Lido versava in mare un secchio di acqua benedetta e un anello consacrato dal Patriarca, con queste parole: «Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio». Dopodiché il Patriarca celebrava in San Marco una messa e un Te Deum di ringraziamento.
La basilica era stata eretta nella prima metà del nono secolo. Nel 976 un incendio l’aveva quasi completamente distrutta. Pietro II Orseolo l’aveva fatta ricostruire sul modello della chiesa bizantina dei Santi Apostoli. Nel 1204 il portale fu addobbato con quattro cavalli di bronzo, trafugati a Costantinopoli dai Crociati. Artisti bizantini decorarono di mosaici e di fregi le sue pareti. Dal nono secolo essa custodì le reliquie di San Marco che due mercanti veneziani, Tribuno e Rustico, avevano acquistato in Egitto e trasportato a Venezia in un paniere di prosciutti e zamponi. Con la sua caratteristica architettura arabo-bizantina, la sua pianta a croce greca e la sua grande cupola centrale, la basilica di San Marco fu paragonata a un messale di pietra e diventò l’emblema della Repubblica.