Venezia fu la più potente delle Repubbliche marinare, ma la sua supremazia fu a lungo contrastata da Genova, Pisa e Amalfi.
L’origine di Amalfi è avvolta nel mistero. Secondo una leggenda, sarebbe stata fondata dalla ninfa omonima; secondo gli storici, da alcuni marinai romani diretti a Costantinopoli e naufragati nel quarto secolo, in seguito a un fortunale, sulle sue coste dirupate e irte di scogli.
Il nome di Amalfi compare per la prima volta in una cronaca medievale del 596 associato a quello del vescovo Primemio. Quando l’alluvione longobarda sommerse il Mezzogiorno, il piccolo porto campano non fu nemmeno lambito dai suoi fiotti. Per due secoli la catena dei monti Lattari le sbarrò il passo.
Formalmente gli Amalfitani erano, come i Veneziani, sudditi di Bisanzio, ma in pratica erano indipendenti. I governatori greci residenti a Napoli si limitavano a esigere da essi tributi e balzelli. Sulla fine del 700 la città fu minacciata dal Principe di Benevento Arichi che voleva aprirsi uno sbocco al mare. Nel 783 un esercito longobardo marciò alla volta di Amalfi e la cinse d’assedio. I suoi abitanti sostennero per due anni gli assalti nemici, che cessarono solo in seguito all’intervento dei Napoletani che ricacciarono con gravi perdite gli aggressori.
Cinquant’anni più tardi Amalfi fu investita dal Principe di Salerno, Sicardo. Questa volta i Napoletani non si mossero e la città dovette arrendersi. Gli Amalfitani furono deportati in massa a Salerno e solo alla morte di Sicardo, dopo essersi ribellati al suo successore, tornarono in patria e nominarono loro capo, col titolo di Comes, un certo Piero, di cui nulla sappiamo, ma che dovette avere una parte di primo piano nella rivolta. Sotto di lui Amalfi allargò i propri confini al fiume Sarno, incorporando anche l’isola di Capri. Ma un nuovo nemico s’andava profilando all’orizzonte, assai più temibile dei precedenti.
I Saraceni ora infestavano le coste del Tirreno, dalla Liguria alla Sicilia, depredando le navi, catturando gli equipaggi e devastando i porti. Non ancora padroni della Sicilia, avevano la loro base nell’isola di Creta, nascondevano il bottino negli anfratti delle coste, e alla guerra santa preferivano quella di corsa. Le loro scorrerie avevano messo in allarme anche il Papa, il quale temeva ch’essi potessero un giorno piombare sull’Urbe. Per questo aveva fatto fortificare il porto di Ostia, vi aveva posto un presidio armato e poi aveva stipulato un’alleanza con alcune città marinare del Sud. Tra queste Amalfi, la cui flotta si segnalò nelle battaglie di Licosa e di Ostia dell’846 e dell’848, dalle quali i Saraceni uscirono assai malconci.
Le vittorie sul mare, l’espansione verso la terraferma, l’aumento della popolazione e lo sviluppo dei traffici fecero ben presto di Amalfi una città ricca e temuta. Con la nomina del Comes, eletto annualmente dal popolo, essa si era data una certa costituzione repubblicana che col tempo si andò però mutando in una specie di principato ereditario. I nuovi capi si chiamarono Prefetturi e godettero di poteri pressoché illimitati. Nel 900, l’Imperatore d’Oriente conferì loro il titolo di Patrizi, che implicava la sudditanza di Amalfi a Bisanzio. Ma, ovviamente, solo sulla carta. Nel 958 un colpo di Stato rovesciò il Prefetturo Mastalo e consegnò la Repubblica a un certo Sergio, che la trasformò di nome e di fatto in Ducato indipendente, proclamandosi Doge.
Dileguato il pericolo saraceno, Amalfi fu nuovamente aggredita dai Salernitani. I suoi abitanti chiamarono in aiuto Roberto il Guiscardo che attaccò Salerno dalla parte del mare e la costrinse a capitolare. In cambio però pretese da Amalfi la sottomissione al Regno normanno che vi nominò un proprio governatore, o Strategoto. Invano gli Amalfitani tentarono di scuotere il giogo del Guiscardo, che si consolidò quando sul trono di Sicilia salì Ruggero II.
Nel 1137 Amalfi fu assalita di sorpresa da una cinquantina di navi pisane e orrendamente saccheggiata. Le vittime non si contarono, centinaia di case furono incendiate, decine di galee danneggiate e alcune colate a picco. Due anni dopo i pisani, che miravano a diventare padroni del Tirreno, tornarono ad avventarsi sulla città, i cui abitanti, per aver salva la vita, dovettero pagare un forte riscatto e diventare tributari dei loro nemici. Molti Amalfitani emigrarono in Puglia e alcuni andarono a cercar fortuna in Spagna e nel Levante dove in passato la Repubblica aveva istallato fondachi e avviato fiorenti commerci. A Costantinopoli, Amalfi era stata la prima città marinara ad avere un suo quartiere sul Bosforo con piazza, chiesa e mercato. A Gerusalemme, sul principio del Mille, aveva fondato addirittura un ospedale nei pressi del Santo Sepolcro, e l’aveva dedicato a San Giovanni.
Amalfi fu una Repubblica prospera, potente e assai progredita. A essa la scienza nautica deve il perfezionamento della bussola, importata in Occidente dagli Arabi ma inventata, pare, dai cinesi; e il diritto commerciale marittimo le è debitore del suo primo codice: quelle famose «Tavole amalfitane» che, compilate nel decimo secolo, ispirarono tutta la legislazione successiva.
La decadenza e la fine di Amalfi coincisero con l’ascesa di Pisa.
Anche la nascita di questa città è controversa. Probabilmente fu fondata dai Romani in guerra con i Liguri e adibita a base navale. Nei secoli bui, lontana dalle rotte continentali battute da Goti, Longobardi e Franchi, mantenne una certa indipendenza e poté svilupparsi pacificamente. Nell’888, dopo la morte dell’imperatore Carlo il Grosso, entrò a far parte del Marchesato di Tuscia. Come Amalfi, combatté a lungo i pirati saraceni che infestavano il Tirreno. Quando, intorno al 1015, l’emiro arabo al-Mugtahid lanciò i suoi corsari sulle coste della Sardegna, i Pisani, in lega col Papa, accorsero in aiuto dell’Isola. Nel 1072 combatterono a fianco di Roberto il Guiscardo in Sicilia e con le loro navi conquistarono ai Normanni Palermo, ricevendo in cambio ingenti quantità d’oro e d’argento.
A differenza di Venezia e Amalfi, Pisa non ebbe Dogi. In origine la città era amministrata da un Visconte, designato dal Marchese di Tuscia, con ampi poteri civili, fiscali e giudiziari, limitati in seguito da quelli del Vescovo, la cui giurisdizione nel 1077 si estese anche alla Corsica. Verso la metà dell’undicesimo secolo gli armatori, i mercanti e i piccoli nobili fondarono la «Compagna Pisana», ch’era una associazione a carattere privato con la quale Visconte e Vescovo dovettero presto fare i conti. Fu essa l’embrione del Comune, il cui atto di nascita coincise con l’elezione, nel 1080, dei primi Consoli. Dapprincipio costoro furono assistiti da dodici magistrati, in seguito da un consiglio di Sapienti, o Senato. Ma verso la metà del dodicesimo secolo diventarono i veri arbitri del Comune, senza tuttavia riuscire a esautorare completamente il Vescovo.
La geografia qualificava Pisa al dominio marittimo sul Tirreno e in particolare sulla Sardegna e la Corsica. Mire analoghe aveva Genova che s’alleò con Lucca, nemica terrestre di Pisa, per tener lontana la rivale da quei lidi. Pisa ebbe la peggio e dovette accontentarsi della Gallura, che fu l’unica provincia sarda a restare nella sua orbita. Ai tempi della lotta tra guelfi e ghibellini si schierò dalla parte dell’Impero e partecipò col Barbarossa all’assedio di Milano. In cambio Federico le riconobbe la supremazia sulla costa tirrenica, fino a Civitavecchia. Ciò acuì il contrasto con Genova che doveva esplodere drammaticamente nei decenni successivi.
Sebbene il contributo di Pisa alle Crociate non fosse stato altrettanto massiccio di quello di Venezia, i suoi mercanti ottennero fondachi e quartieri in numerose città del Levante. Anche il Nord-Africa, la Spagna e le Baleari spalancarono i loro porti alle navi di Pisa che, alla fine del dodicesimo secolo, era con Firenze e Lucca la più fiorente città della Tuscia.
Strettamente connessa con quella di Pisa è la storia di Genova, che secondo Strabone era in origine un piccolo borgo, appollaiato su un’altura a strapiombo sul mare. Questo borgo s’ingrandì in seguito alla calata di Alboino che provocò l’esodo sulle coste liguri di numerose popolazioni lombarde. Nel 641 Genova subì l’assedio di Rotari, che la spianò al suolo e incendiò la flotta ormeggiata nel piccolo porto. Per un certo tempo i suoi abitanti dovettero rinunciare a navigare e dedicarsi alla pastorizia e alla grama vita dei campi. Poi la città fu ricostruita e nel 925 ampliò la cinta muraria.
Al pari delle altre città marinare che s’affacciavano sul Tirreno, Genova fu per quasi due secoli esposta ai raid dei pirati saraceni, annidati a Frassaneto, a pochi chilometri da Nizza. La prima incursione avvenne nell’806, ma numerose altre seguirono, specialmente nel decimo secolo. Le cronache rievocano quella del 935, quando decine di vascelli musulmani penetrarono di sorpresa nel porto, svaligiarono le case, rapirono le donne, ma non fecero in tempo a distruggere le navi. I Genovesi si lanciarono all’inseguimento degli aggressori fino all’Asinara, e li costrinsero a restituire tutto il bottino.
Fino alla metà del decimo secolo la città fece parte del Marchesato di Tuscia per poi essere inglobata in quello degli Obertenghi. Il Marchese era lontano e in suo nome governava la città un Visconte, ma anche a Genova, come a Pisa, il potere effettivo, almeno fino a tutto il 900, fu nelle mani del Vescovo. Nel 958, il re d’Italia Berengario concesse alla città un’ampia autonomia che più tardi favorì la formazione di una «Compagna» genovese. A essa aderivano tutti gli uomini dai sedici ai settant’anni, e non solo quelli che abitavano in città, ma anche i Signori del contado, molti dei quali, riluttanti ad associarsi, furono costretti a inurbarsi con la forza.
Dalla «Compagna» scaturì il Comune con i suoi Consoli che vennero fin dapprincipio reclutati tra i nobili, limitandosi il popolo, adunato nell’arengo, a sanzionarne pubblicamente la scelta. Nel 1191, il governo della Repubblica passò dalle mani dei Consoli a quelle del Podestà, che era un funzionario forestiero, dotato di pieni poteri, ma il cui ufficio non durava di solito più di un anno. I Consoli furono naturalmente esautorati, ma la magistratura sopravvisse fino al 1218.
I nobili incarnavano non solo il potere politico, ma anche quello economico, imperniato sulle varie attività marinare. A differenza di Venezia, dove esisteva un arsenale di Stato, a Genova tutte le navi erano di proprietà privata. Le società di navigazione erano monopolio di poche grandi famiglie, che controllavano anche le compagnie commerciali e le corporazioni.
Di mare e sul mare viveva gran parte della popolazione. La natura del territorio, arcigno e montagnoso, escludeva l’espansione sulla terraferma. I pochi prodotti che si potevano ricavare dal suolo erano il vino e l’olio. Grano, materie prime e manufatti dovevano essere importati con le navi dalla Sicilia, dall’Africa e dal Vicino Oriente. Come gli Amalfitani, Pisani e Veneziani, anche i Genovesi ebbero numerose colonie nei principali porti mediterranei. Ad Antiochia, i mercanti della Repubblica ottennero trenta case, un fondaco, un pozzo, una chiesa e l’esenzione dalle tasse. Anche sui lidi iberici e maghrebini essi riuscirono a impiantare prosperi stabilimenti coloniali, mentre più difficile fu la conquista dei porti corsi e sardi dove, come abbiamo visto, la Repubblica ligure dovette fare i conti con Pisa. Nel 1162, in piena lotta comunale contro l’Impero, la città ottenne dal Barbarossa l’autonomia.
Ma furono le Crociate a fare di Genova, al pari di Venezia e di Pisa, una potenza marinara. Fin dalla prima si manifestò la superiorità delle flotte di queste tre Repubbliche su quelle di Francia, Inghilterra, Fiandre. Dai cantieri della Penisola già nei secoli bui uscivano le lunghe e agili galee e i pesanti dromoni da guerra.
La galea, o galera, era una specie di trireme lunga una quarantina di metri e larga cinque. Sul ponte erano collocati i banchi dei rematori, venti-venticinque per banda. Dapprincipio i vogatori venivano assoldati dagli armatori ed erano uomini liberi. Solo verso la fine del 1400 si cominciarono a impiegare prigionieri e condannati comuni, che presero il nome di «galeotti». A prua s’ergeva il cosiddetto cassero ch’era un ponte sopraelevato e ben munito su cui, all’occorrenza, ci si poteva anche rifugiare. A poppa erano sistemati gli alloggi del capitano e degli ufficiali. Quasi tutte le galee erano dotate di vele, applicate all’albero di trinchetto, posto a prua, e a quello di maestra piantato al centro. Avevano varie forme, ma le più comuni erano quadrate e triangolari. L’equipaggio medio era di circa duecento uomini: il capitano, i nocchieri, il dispensiere, il cappellano, il barbiere con funzioni anche di chirurgo, una cinquantina di balestrieri e un centinaio di vogatori.
Le navi da guerra non differirono, nei primi tempi, da quelle mercantili le quali, dovendosi difendere dai pirati, erano regolarmente armate. Gli arrembaggi erano frequenti anche in tempo di pace e la navigazione in mare aperto era perigliosa e piena d’incognite. Anche quella costiera, o di cabotaggio però celava delle insidie.
Gli storici ci hanno lasciato vivaci descrizioni di battaglie navali. I combattimenti erano di solito assai cruenti e i morti si contavano a migliaia. In guerra venivano impiegati soprattutto i dromoni, muniti di pesanti rostri, a mo’ di speroni. Queste navi avevano a prua una specie di sifone che vomitava sul nemico il cosiddetto «fuoco greco», un miscuglio di zolfo e petrolio. I balestrieri scagliavano anche frecce, pietre, chiodi, serpi e calce viva. Largamente impiegato era il sapone liquido, che veniva spruzzato a distanza sul ponte delle navi avversarie e rendeva il piancito viscido e sdrucciolevole. Poiché frequenti erano i corpo a corpo, gli equipaggi indossavano corazze, elmi, bracciali e cosciali. Prima di lanciarsi all’arrembaggio, i Cristiani si confessavano e facevano testamento; i Saraceni si volgevano alla Mecca e invocavano Allah.
A una battaglia navale partecipavano decine e talvolta centinaia di dromoni. I migliori strateghi consigliavano di disporre la flotta a mezzaluna e di aggirare con le ali quella nemica, fino a chiuderla in un cerchio. Tra di loro le navi comunicavano per mezzo di bandiere colorate: quella rossa, per esempio, issata su una lunga picca, era il segnale di combattimento. Il fragore delle armi infatti impediva di udire la voce dell’uomo o il suono del corno.
Il dominio delle Repubbliche marinare italiane era destinato a restare incontrastato per secoli su tutto il Mediterraneo. Questa fortuna era dovuta al fatto che soprattutto Venezia e Genova rimasero, anche per ragioni geografiche, quasi del tutto estranee alle beghe che martoriavano e consumavano le energie dei Comuni dell’interno. Qui grandi cambiamenti e nuovi triboli erano alle viste specie nel Mezzogiorno, dove la dinastia normanna stava per passare la mano a un protagonista di eccezione.
Riprendiamo il filo di questa vicenda.