La morte di Guglielmo aveva piombato il Regno normanno nel caos. In Sicilia, Calabria e Puglia erano scoppiate violente rivolte di feudatari ostili all’unione di Costanza con Enrico di Svevia, che estendeva il dominio degli Hohenstaufen al Sud d’Italia. In una Dieta i ribelli avevano eletto Re il Conte di Lecce, Tancredi, e la Chiesa che, come abbiamo detto, aveva con tutti i mezzi tentato di impedire il connubio tra il figlio del Barbarossa, Enrico VI, e Costanza, l’attempata zia di Guglielmo, s’era affrettata a riconoscerlo.
Sulla fine del 1190 Enrico VI lasciò la Germania e calò in Italia per istallarsi sul suo nuovo trono. Giunto nel Lazio, chiese al Pontefice d’essere coronato Imperatore. Il Papa sulle prime tergiversò ma alla fine, premuto dal popolo romano, al quale Enrico aveva fatto distribuire sacchi d’oro, dovette cedere.
Dopo la cerimonia, il figlio del Barbarossa si mise in marcia alla volta del Mezzogiorno e cinse d’assedio Napoli, ma un’improvvisa pestilenza che decimò l’esercito tedesco l’obbligò a sospendere le ostilità e a tornare in Germania, dove era scoppiata una sommossa. Enrico facilmente la domò e quindi, rivalicate le Alpi, puntò di nuovo sul Regno di Sicilia. Nel frattempo era morto Tancredi, e i Baroni di Calabria e di Puglia miravano a raccoglierne la successione dividendosela fra loro. L’Imperatore, alla testa di un esercito numeroso e bene armato, s’avventò sulle loro città, le spianò al suolo trucidandone gli abitanti, e imbarcò le sue truppe per la Sicilia.
La repressione nell’isola fu sanguinosa e indiscriminata.
Nel novembre del 1194 l’Imperatore, con a fianco Costanza, entrò a Palermo accolto trionfalmente dai suoi abitanti. Ma la kermesse durò poco. Enrico era un uomo diffidente e crudele. Capì che il nuovo Regno gli era ostile e che solo col terrore egli sarebbe riuscito a tenerlo unito. Il ricordo di Guglielmo e di Tancredi era ancora vivo in mezzo alle popolazioni che, sobillate dai Baroni, erano in continuo fermento.
Enrico diede ordine di sterminare tutti i sudditi sospetti e d’incamerare a beneficio della corona i loro averi. S’innalzarono migliaia di roghi e le carceri del Regno furono inondate di prigionieri politici. L’Imperatore non ebbe pietà neppure dei morti. Fece riesumare il cadavere di Tancredi, e pubblicamente lo spogliò delle insegne regali con le quali era stato sepolto. La vedova dell’usurpatore fu deportata e il figlioletto, dopo essere stato accecato, rinchiuso in un castello.
Pacificata la Sicilia, Enrico ripartì per la Germania lasciando a Palermo Costanza e alcuni tra i suoi più fidi collaboratori. Nel 1196, un’ennesima sommossa lo richiamò in Italia. Mentre s’accingeva a domarla, fu colpito da una violenta febbre che a soli trentatré anni, il 28 settembre 1197, lo calò nella tomba.
Discordanti sono i giudizi pronunciati dagli storici su questo contraddittorio personaggio, scomunicato e pio, spietato e magnanimo, caparbio e autoritario, crudele e raffinato, guerriero e mecenate. Pochi mesi prima di morire, aveva convocato i Principi tedeschi e aveva fatto loro riconoscere come erede al trono di Germania il suo unico figlioletto di due anni, Federico. Costanza l’aveva messo al mondo il 26 dicembre 1194 sotto una tenda da campo nella piazza di Iesi, dove l’Imperatrice in viaggio per la Sicilia aveva fatto tappa. A quattro anni, il bambino fu coronato a Palermo Re di Sicilia tra i tumulti degli abitanti che chiedevano a gran voce la espulsione dei Tedeschi dall’isola. Costanza, per quietare i rivoltosi, dovette accontentarli.
La morte prematura del marito aveva ridato baldanza ai riottosi Baroni. Il Sud precipitò nuovamente nell’anarchia, e per un momento la corona del piccolo Hohenstaufen sembrò vacillare. Costanza si sentì sola e indifesa. Non poteva più contare sui tedeschi che aveva espulso, né sui siciliani che non le perdonavano il matrimonio con Enrico. Allora si ricordò dell’amicizia che in passato aveva legato i suoi antenati alla Chiesa e supplicò il Pontefice d’accorrere in suo aiuto.
Innocenzo III aveva cinto la tiara all’età di trentasette anni. Discendeva per parte di padre da un’antica famiglia di stirpe tedesca e per parte di madre da una nobile casata romana. Aveva compiuto i suoi studi a Parigi e a Bologna, e si era laureato in scolastica e giurisprudenza. Giovanissimo aveva abbracciato la carriera ecclesiastica e servito come chierico un paio di Papi. Sotto Clemente III era stato eletto Cardinale della chiesa dei Santi Sergio e Bacco. Era un uomo di grande intelligenza, autoritario, prepotente e ambizioso. Come per Gregorio VII, anche per lui il Papato era uno strumentum Regni. Alla Chiesa l’Impero doveva sottomettersi perché era essa, in nome di Dio, che lo legittimava.
Nella morte di Enrico Innocenzo aveva scorto il segno della Provvidenza. Il pericolo di un’unione delle corone imperiale e normanna su una stessa testa era scongiurato. Almeno per il momento. Ma il Papa voleva sventarlo anche per il futuro. A questo compito Innocenzo s’accinse con tutte le sue energie ch’erano grandi, e con tutta la sua astuzia ch’era immensa. Confermò al piccolo Federico la corona di Sicilia, ma in cambio pretese dalla madre la rinuncia a tutte quelle immunità di cui in passato avevano goduto i Re normanni. Costanza accettò a malincuore il baratto e pochi mesi dopo morì, dopo aver nominato Innocenzo tutore del figlioletto. Correva l’anno 1198. Senza colpo ferire, la Chiesa era riuscita a fare del Regno di Sicilia un proprio feudo.
All’educazione di Federico, il Papa prepose alcuni dotti ecclesiastici che s’istallarono nel bellissimo palazzo reale di Palermo. Il figlioletto di Costanza stupì subito i suoi maestri per la vivacità dello spirito e la precocità dell’ingegno. A quattro anni era già in grado di leggere e di scrivere. Studiò la storia, la filosofia, la teologia, l’astronomia, la matematica, la botanica, la musica, e imparò ben sette lingue, tra le quali l’arabo, il greco, e l’ebraico. Diventò anche un provetto cavaliere e un abile cacciatore. Quando, il 26 dicembre 1208, a quattordici anni, uscì di minorità, era già un uomo fatto.
L’unico ritratto che di lui possediamo ce lo raffigura di statura non superiore alla media, robusto e ben piantato. Lo sport e la vita all’aria aperta avevano reso le sue membra agili e vigorose. L’aspetto era un compendio dei caratteri somatici tedeschi e normanni ereditati dai genitori. Il colorito era nel complesso bruno, ma le gote, prive di barba, erano rosa, i capelli castani, gli occhi chiari e leggermente strabici, il naso prominente, il mento forte e le labbra sottili e nervose. Un contemporaneo paragonò il suo sguardo a quello di un serpente, un altro lo definì ironico e sarcastico.
Nello stesso anno 1209 in cui spirava la tutela del Pontefice su Federico, Innocenzo, nella basilica di San Pietro, coronò Imperatore il Principe di Brunswick, Ottone. Secondo il Papa, la corona di Sicilia, che Federico cingeva, era incompatibile con quella imperiale. Gli Hohenstaufen videro naturalmente nel Principe di Brunswick un usurpatore e gli contrapposero Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI. Ciò scatenò in Germania una sanguinosa guerra civile, che ebbe un’eco anche in Italia. Nella primavera del 1210, Ottone attraversò le Alpi e marciò sull’Urbe dove fu acclamato Re dei Romani. In cambio riconobbe lo Stato pontificio e i suoi confini che includevano l’Esarcato, la Pentapoli, la Marca d’Ancona, il Ducato di Spoleto, i beni matildini e la Contea di Brittenoro. Confermò inoltre i diritti che la Chiesa accampava in Sicilia, fingendo d’ignorare quelli di Federico.
La cerimonia si svolse alla chetichella e senza pompa. I Romani non solo non vi vollero assistere perché Ottone non s’era mostrato abbastanza generoso, ma assalirono le milizie tedesche accampate nei pressi di Montemario. Quasi contemporaneamente scoppiò nell’Urbe una violenta epidemia che obbligò l’Imperatore a far fagotto e a lasciare precipitosamente Roma. L’accoglienza riservatagli dai suoi abitanti l’aveva disgustato. Anche i suoi rapporti col Papa, che non l’aveva prevista, si guastarono. Varcati i confini del Lazio, l’esercito di Ottone dilagò in quei territori toscani, già appartenuti alla contessa Matilde e poi entrati a far parte dello Stato pontificio col consenso dello stesso Imperatore, e se ne impadronì. Il Principe guelfo si era trasformato in un ghibellino arrabbiato.
Innocenzo fu colto di sorpresa dal repentino voltafaccia di Ottone, di cui si considerava, e giustamente, il grande elettore. L’Imperatore aveva tradito i patti e gli impegni solennemente presi con lui. Ma le vie di Innocenzo, come quelle del Signore, erano infinite. La partita tra il Papa e l’Imperatore era ancora aperta.
Nel novembre del 1210, il Papa scomunicò il Principe di Brunswick e decise d’opporgli il suo pupillo Federico, che non aveva ancora compiuto sedici anni. Ottone calò con le sue truppe nel Mezzogiorno e ne occupò le principali città. I volubili Romani, sobillati da agit-prop tedeschi, si ribellarono al Papa, che scomunicò l’Imperatore e spedì emissari in Germania a sollevare la popolazione contro di lui.
Nel Medio Evo l’anatema era un’arma più politica che spirituale e il suo potere di suggestione sulle masse bigotte, analfabete e superstiziose, era immenso. Ottone si trovò improvvisamente isolato. Anche i suoi più accesi sostenitori l’abbandonarono. Numerosi Principi tedeschi si riunirono a Nurberg, lo deposero e proclamarono Imperatore il giovane Federico. Ottone allora abbandonò la Puglia, dove in quel momento si trovava, e a marce forzate tornò in Germania. Le città dell’Italia settentrionale che, pochi mesi prima, tanto entusiasticamente lo avevano acclamato, gli chiusero le porte in faccia. Il Papa invitò Federico a partire subito per la Germania con un esercito e ad affrontare il rivale. Appelli in tal senso giunsero al giovane Hohenstaufen anche d’Oltralpe. Ai primi di aprile del 1212 il figlio di Enrico lasciò Palermo e attraverso Benevento si portò a Roma dove il Papa, che lo vedeva per la prima volta, l’accolse con tutti gli onori.
Innocenzo confermò a Federico la corona imperiale, ma in cambio pretese il riconoscimento di quei privilegi e di quei diritti che Ottone in passato aveva concesso alla Chiesa e poi brutalmente calpestato. Una promessa, soprattutto, il Pontefice strappò al suo pupillo: di non unire mai la corona di Sicilia a quella dell’Impero. Federico giurò che le avrebbe sempre tenute separate e, dopo aver ricevuto da Innocenzo una forte somma di denaro per guadagnare alla causa dell’Impero, che coincideva questa volta con quella della Chiesa, i Principi tedeschi, partì per la Germania.
Correva l’anno 1214, e l’Europa stava per assistere allo storico duello tra la Francia di Filippo Augusto e l’Inghilterra di Giovanni Senza Terra, zio di Ottone. Il 27 luglio a Bouvines gli inglesi furono messi in rotta dagli eredi di Carlomagno. La sconfitta di Giovanni segnò il crollo del sogno imperiale del Principe di Brunswick che aveva legato le proprie sorti a quelle inglesi. Per alcuni mesi in Germania continuarono ad ardere qua e là focolai d’opposizione, ma nel 1215 la resa di Colonia e di Aquisgrana li spense definitivamente. I seguaci di Ottone passarono in blocco dalla parte di Federico, che festeggiò la vittoria con una messa solenne nella cattedrale di Aquisgrana. Al termine del rito, l’Hohenstaufen volle visitare la cripta in cui era custodito il sarcofago di Carlomagno. Con le sue stesse mani egli scoperchiò l’urna dopo aver deposto a terra il manto, la corona e la spada; poi s’inginocchiò ai piedi del sepolcro e si raccolse per alcuni minuti in preghiera. Quindi si rialzò, richiuse la bara e pubblicamente annunciò, al cospetto del vescovo Sigfrido, il proposito di partire per Gerusalemme, dove il Santo Sepolcro era nuovamente caduto nelle mani dei Musulmani. Un voto destinato a costargli molto caro.
Per il momento, il vero trionfatore, nella contesa tra l’Hohenstaufen e Ottone, era il Papa. Innocenzo era riuscito non solo a liquidare un Imperatore che aveva tradito la Chiesa e a imporre ancora una volta ai Principi tedeschi un suo candidato, ma anche a guadagnare alla causa della Cristianità l’esercito più potente d’Europa. Ma non fece però in tempo a raccogliere i frutti della vittoria: nel giugno del 1216 la morte lo colse a Perugia.
Con lui, più che un grande Papa, calò nella tomba un grande statista. Innocenzo – scrisse il Gregorovius – elevò la Chiesa a un’altezza che le diede le vertigini. Il suo successore Onorio III apparteneva alla nobile famiglia dei Savelli. Innocenzo l’aveva nominato camerario e poi spedito in Sicilia a far da tutore al piccolo Federico. Quando cinse la tiara aveva novant’anni e probabilmente proprio per questo i Cardinali lo scelsero. Ma non avevano fatto i conti con l’eccezionale tempra del vecchio camerario che sul Soglio di San Pietro restò assiso fino all’età di cent’anni.
Onorio era un uomo mite, casto e conciliante, e la sua nomina fu accolta con favore anche dal Senato. Piuttosto allergico alle questioni dottrinarie e teologiche e incapace di grandi disegni politici, aveva una sola ambizione: la riconquista di Gerusalemme e la cristianizzazione della Terrasanta. A capo di una siffatta impresa non poteva porsi che il giovane Hohenstaufen. Ma costui sembrava essersi dimenticato del voto di Aquisgrana. Onorio minacciò di scomunicarlo, ma Federico non se ne diede per inteso. Aveva ben altre cose a cui pensare. I Principi tedeschi e i Baroni siciliani erano, come al solito, in fermento. I primi non volevano riconoscere il figlio dell’Imperatore, Enrico, Re di Germania, i secondi osteggiavano i tedeschi e li boicottavano. Federico ebbe ragione degli uni e degli altri e con abile mossa riuscì a unire sul capo del figlio le due corone di Germania e di Sicilia. Il Pontefice, debole, disarmato e in rotta coi mutevoli Romani, accusò il colpo e il 22 novembre del 1220, nella basilica di San Pietro, coronò finalmente Federico Imperatore. L’Hohenstaufen s’impegnò a difendere i privilegi e il patrimonio della Chiesa e a sterminare gli eretici. Poi rinnovò il voto di prendere la croce. Ma ancora una volta lo tradì, e invece di imbarcarsi per la Terrasanta si mise in marcia per la Puglia, dove riunì i Baroni e promulgò le nuove leggi del Regno.
Pacificato il Sud e rabbonito il Papa, l’Imperatore partì per il Nord dove i Comuni lombardi si erano ribellati alle decisioni del Concilio di Costanza e avevano ricostituito la Lega dei tempi del Barbarossa. La morte di Onorio e l’ascesa al Soglio del Cardinale di Ostia, che cinse la tiara col nome di Gregorio IX, lo richiamarono in Puglia. Gregorio, nonostante fosse molto vecchio e pieno d’acciacchi, era energico e risoluto e non intendeva neppure lui rinunciare alla Crociata. Troppo a lungo Federico aveva menato il can per l’aia. In Palestina i Cristiani gemevano sotto il giogo musulmano. La spedizione non poteva subire ulteriori ritardi. Bisognava partire, e subito.
L’Imperatore, sebbene di partire non avesse alcuna voglia, adunò l’esercito nel porto di Brindisi e salpò le ancore alla volta dell’Oriente. Ma improvvisamente una violenta epidemia, di cui s’erano avute le prime avvisaglie a terra, obbligò la flotta a fare dietrofront e a rivolgere le prue verso la Puglia. Quelle che approdarono a Otranto, dopo il breve viaggio, non erano più navi, ma tombe. La peste aveva decimato i tedeschi, e lo stesso Imperatore, contagiato, era salvo per miracolo. Messo piede a terra, l’Hohenstaufen comunicò al Papa che la spedizione, per cause di forza maggiore, non aveva potuto essere condotta a termine, ma ciò non significava, beninteso, ch’egli vi avesse rinunciato. La liberazione del Santo Sepolcro era soltanto rimandata. Gregorio, convinto d’essere stato giocato, montò su tutte le furie e scomunicò Federico. Era la guerra.
L’Italia e l’Europa furono inondate di bolle papali in cui si tacciava l’Hohenstaufen di spergiuro, tradimento e ateismo; e di manifesti imperiali in cui s’accusava la Chiesa di corruzione, simonia e dispotismo. Le città della Penisola presero partito a favore dell’uno o dell’altro contendente. Roma si schierò con l’Imperatore e il giorno di Pasqua i suoi abitanti obbligarono il Pontefice a fuggire a Viterbo, dopo averlo coperto d’insulti. Allora Gregorio lanciò l’anatema contro la Capitale della Cristianità.
Federico partì per la Terrasanta. Anche se le ragioni vere della scomunica erano altre, ufficialmente l’interdetto colpiva gl’infiniti rinvii della Crociata. Per indurre il Papa a revocarlo – pensò l’Imperatore – non c’era che una via. E questa via passava per Gerusalemme.
Ma i Cristiani di Palestina accolsero lo scomunicato Federico come un traditore invece che come un liberatore, e si rifiutarono di unire le loro armi alle sue e di combattere insieme con lui i Saraceni. L’Hohenstaufen cercò allora un accordo diretto col sultano Al Kamil e gli spedì un’ambasceria. Il sultano inviò a sua volta all’Imperatore un proprio rappresentante il quale restò colpito dalla straordinaria cultura araba di Federico. I due monarchi, che non si conoscevano, cominciarono a scambiarsi messaggi, e alla fine diventarono amici. Nel 1229 firmarono un trattato di pace col quale Al Kamil cedette a Federico Acri, Giaffa, Sidone, Nazareth, Betlemme e Gerusalemme.
Senza spargere una goccia di sangue, l’Imperatore tedesco aveva ottenuto ciò che i suoi predecessori non erano riusciti a conquistare con flotte, eserciti, massacri e rapine. L’accordo fece tripudiare Cristiani e Musulmani, ma indignò il Papa per il quale una guerra santa non era tale se non conduceva allo sterminio degli infedeli. Una rivolta scoppiata nel Mezzogiorno e fomentata dal Papa costrinse l’Imperatore a tornare precipitosamente in Italia. Sbarcato nella Puglia, Federico mandò subito un suo emissario al Pontefice col quale desiderava riconciliarsi, ma Gregorio si rifiutò di riceverlo. Allora l’Hohenstaufen invase lo Stato della Chiesa e mise a ferro e fuoco le sue città. Solo allora il Papa si piegò a un accordo. Ma dopo averlo firmato, cominciò a trescare coi Comuni del Nord e ad aizzarli contro l’Imperatore.
Nel 1235 Federico dovette varcare le Alpi e recarsi in Germania dove il figlio Enrico aveva fatto combutta coi suoi nemici per sbalzarlo dal trono. La ribellione fu subito domata, Enrico accecato e poi confinato in un castello della Puglia, dove sei anni dopo morì. Di lui il padre dettò questo epitaffio: «Si stupiranno forse i padri crudeli che Cesare, mai vinto da nemici esterni, sia stato vinto dal dolore familiare. Il sentimento del sovrano, per quanto inflessibile, è soggetto alle leggi della natura. Noi non siamo né i primi né gli ultimi di coloro i quali, offesi dai figli colpevoli, piangono sulla loro tomba».
Quando ridiscese in Italia, la rivolta dei Comuni del Nord divampava. Federico, alla testa di forze fresche e bene armate, puntò sull’Oglio nei pressi di Cortenova, dove il nemico aveva ammassato il suo esercito. La battaglia fu breve e assai sanguinosa. I Comuni furono sconfitti e lasciarono sul terreno migliaia di morti. Il Carroccio, caduto nelle mani degli imperiali, fu mandato a Roma ed esposto in Campidoglio come un trofeo.
Federico festeggiò a Cremona il trionfo, che gli storici tedeschi celebrarono come la rivincita di Legnano. Numerose città del Nord fecero atto d’omaggio all’Imperatore e deposero ai suoi piedi doni e denaro. Altre, come Milano e Brescia, non vollero invece piegarsi. Le condizioni di pace che la capitale lombarda offrì non furono accettate dal vincitore che ne esigeva la resa a discrezione. Prima di cingere d’assedio Milano, Federico volle però fare i conti con Brescia. Ammassò torri, arieti e altre macchine belliche sotto le mura della città, ma ogni tentativo di espugnarla fallì. Ricorse allora all’atroce espediente già adottato dal Barbarossa all’assedio di Crema: legò i prigionieri bresciani alle torri a mo’ di scudo, ma non per questo i difensori esitarono a colpire i loro concittadini. Poi, per vendicarsi, esposero sugli spalti decine di ostaggi tedeschi e, al cospetto di Federico, li massacrarono. Dopo tre mesi, gl’imperiali esausti e a corto di viveri abbandonarono l’assedio e la lotta contro i Comuni. Il Papa ne approfittò per incitare alla rivolta Venezia e Genova, che l’Hohenstaufen dichiarò al bando dell’Impero.
Nel marzo del 1239 Gregorio scomunicò per la seconda volta Federico accusandolo, tra l’altro, di aver sobillato i Romani contro di lui. L’Imperatore replicò con una serie di manifesti in cui tacciò il Papa di calunnia, falso e avarizia. Gregorio gli rispose per le rime: «Federico ha artigli di orso, gola di leone, corpo di pantera. Spalanca le fauci per vomitare bestemmie contro il nome del Signore e scaglia strali nefandi contro il suo tabernacolo». Dietro questo diluvio di contumelie si celava il vero nocciolo del conflitto tra Imperatore e Pontefice. Il primo voleva unificare l’Italia, il secondo tenerla divisa.
Nel 1240 s’abbatterono sul Regno di Sicilia le prime purghe. I parroci e i vescovi filo-gregoriani furono destituiti, e al loro posto furono nominati ecclesiastici fedeli all’Impero. L’Hohenstaufen incamerò tutti i beni della Chiesa, mise al bando i frati mendicanti, obbligò il Clero a pagare le tasse e secolarizzò l’abbazia di Montecassino. Quindi invase lo Stato pontificio col proposito d’annetterselo.
Il Lazio gli spalancò le porte un po’ per paura e un po’ per odio al Papa. Nell’Urbe il partito imperiale, capeggiato dai Frangipani, si diede un gran daffare per guadagnare i Romani alla causa di Federico, ma l’oro degli Orsini e dei Colonna fece trionfare quella di Gregorio. I Quiriti temevano che l’Imperatore, nemico di ogni autonomia, annullasse quel po’ di libertà, o piuttosto di anarchia, che ai tempi di Arnaldo da Brescia essi erano riusciti a conquistare. E non erano timori infondati perché l’Hohenstaufen era ben deciso, qualora si fosse impadronito della città, ad adottare quegli stessi metodi che aveva instaurato nel Mezzogiorno e che avevano fatto del Regno di Sicilia uno Stato autocratico. Il governo del Papa era debole, mite e abbastanza screditato per non incutere né soggezione né rispetto e per essere quindi gradito ai Romani.
Una solenne processione guidata dal Papa, con contorno di labari, reliquie e Salmi armò il popolino, bigotto e volubile, contro l’Imperatore che, non sentendosi abbastanza forte per impadronirsi della Città, preferì tornarsene in Puglia. Il Papa offrì una tregua; ma quando gli alleati gli inviarono rinforzi e denaro, la ruppe. Il cardinale Colonna, ch’era stato uno dei negoziatori dell’armistizio, offeso da quel gesto, ammainò la bandiera guelfa e diventò ghibellino.
Il 9 agosto del 1240 Gregorio annunciò per la Pasqua dell’anno successivo un Concilio che avrebbe dovuto ribadire le accuse a Federico e lanciare un’ennesima scomunica. L’Imperatore allora spedì ai padri che vi erano stati invitati messaggi del seguente tenore: «Roma è in preda alla violenza e al caos, i preti si scannano, le chiese sono diventate bordelli. L’aria è fetida e il caldo insopportabile, l’acqua è schifosa e il cibo pestifero. Le strade brulicano di scorpioni e di altri abominevoli animali. Gli abitanti sono cenciosi e puzzolenti, malvagi e facinorosi. Tenetevi lontani da questa città». Alcuni prelati capirono l’antifona e declinarono l’invito. Altri invece sfidarono Federico e partirono per Genova, dov’era stato fissato il convegno. Qui s’imbarcarono a bordo di navi messe a loro disposizione dalla Repubblica di San Giorgio e salparono alla volta del Lazio.
Il 3 maggio 1241, giunti alla Meloria, furono assaliti dalla flotta pisana e da quella siciliana. Nello scontro che ne seguì alcune delle galee genovesi colarono a picco con tutto l’equipaggio, ma la maggior parte furono catturate e condotte a Napoli. I padri conciliari furono incatenati e alcuni per scherno inchiodati ai remi, infine internati nelle carceri del Regno.
La Chiesa lo definì «un empio attentato», ma il suo prestigio aveva subìto un fiero colpo. L’Imperatore ne approfittò per invadere lo Stato pontificio e invitare i Romani a ribellarsi a Gregorio. Nell’agosto dello stesso 1241 una bella notizia giunse al campo imperiale: il Papa era morto. Data l’età – aveva quasi cent’anni –, non c’era da stupirsene. I Cardinali convocarono subito un Conclave per dargli un successore. Scelsero un milanese che aveva pressappoco la stessa età del defunto e che prese il nome di Celestino IV. Ma dopo un paio di settimane anche lui morì.
I Cardinali non vollero adunare un altro Conclave, abbandonarono l’Urbe e si rifugiarono nei loro castellacci. Si può immaginare il caos in cui piombò Roma e lo sgomento che invase i suoi abitanti. Essi si sentirono improvvisamente orfani e alla mercé di Federico. Ma Federico inspiegabilmente rinunciò a impadronirsi della Città, e rimase acquartierato fuor delle mura.
Fu un errore che i suoi avi non avrebbero mai commesso. I Quiriti ne approfittarono per compiere scorrerie contro quelle cittadine del Lazio che s’erano schierate dalla parte dell’Hohenstaufen il quale nell’agosto se ne tornò in Puglia, dopo aver ammonito i Cardinali a darsi un successore (un successore, si capisce, favorevole a lui). Poiché i Cardinali nicchiavano, varcò nuovamente i confini del Lazio e lo mise a ferro e fuoco. I Cardinali atterriti riunirono ad Anagni un Conclave che acclamò Papa il genovese Sinibaldo Fieschi col nome d’Innocenzo IV.
Il Fieschi era esperto di diritto e nella disputa tra la Chiesa e l’Impero era stato fin’allora un moderato. La sua scelta non fu perciò sgradita a Federico, che lo conosceva e lo stimava, e con lui volle stipulare un accordo che mettesse una buona volta fine a un conflitto che durava da oltre trent’anni e che aveva stremato entrambi i contendenti. Ma i negoziati furono subito messi in crisi dalla rivolta della guelfa Viterbo, sollevatasi al grido di «Chiesa, Chiesa».
Federico cinse d’assedio la città, ma questa si difese così bene che gli assalitori dovettero fare dietrofront. Lo smacco dell’Hohenstaufen diede baldanza a numerosi altri Comuni, fedeli al Papa. Minacciato da più parti e impegnato su diversi fronti, Federico sollecitò la ripresa delle trattative. Innocenzo pose condizioni assai dure. L’Hohenstaufen doveva reintegrare la Chiesa in tutti i suoi possedimenti, riconoscere la supremazia spirituale del Pontefice sui Principi, concedere piena autonomia ai Comuni lombardi e liberare i guelfi che languivano nelle prigioni del Regno. In cambio, Innocenzo lo scioglieva dalla scomunica. L’Imperatore giudicò queste condizioni inaccettabili. Il Pontefice allora temendo forse che Federico, inasprito dal mancato accordo, occupasse Roma e lo deponesse, fuggì a Genova, dove fu entusiasticamente accolto dai suoi concittadini.
Dopo tre mesi egli lasciò il convento di Sant’Andrea che l’aveva ospitato e si recò a Lione dove convocò un Concilio che dichiarò deposto l’Imperatore. Questi replicò con un violento manifesto esortando i Principi europei a «difendere le loro corone dagli artigli rapaci della Chiesa». Innocenzo ribadì che l’autorità del Papa in terra era superiore a quella dell’Imperatore, accusò l’Hohenstaufen di dispotismo, e mise in guardia quegli stessi Principi ai quali Federico s’era appellato dalle egemoniche mire imperiali. Meditò anche di eleggere un nuovo Imperatore docile ai voleri della Chiesa e disposto a subirne il volere. Per attuare questi disegni ricorse a ogni sorta d’intrighi. Sguinzagliò emissari in Inghilterra e Germania, armò congiure, e sobillò rivolte in Italia. Bandì insomma una vera e propria crociata contro Federico «nemico del Crocifisso».
L’Hohenstaufen capì che i suoi sudditi prima o poi l’avrebbero abbandonato per timore che anche su di loro s’abbattesse l’anatema. Allora chiese la pace al Papa, che gliela negò. Innocenzo sapeva di essere in quel momento il più forte, e volle approfittarne.
Qua e là, nel Regno di Sicilia, scoppiarono rivolte di Baroni, che Federico represse nel sangue. Poi fu la volta della Germania dove invano l’Hohenstaufen tentò di domare i ribelli. In breve tempo le fiamme dell’incendio si propagarono a tutto l’Impero. Gli eserciti di Federico, dopo aver assediato per lunghi mesi Parma, nell’inverno del 1248 furono letteralmente massacrati dai cittadini usciti di sorpresa dalle mura e avventatisi come belve sugli accampamenti nemici. A questo, altri gravi rovesci seguirono che ridussero allo stremo l’Imperatore. Il suo fido ministro Taddeo di Suessa cadde in combattimento, il figlio Enzo fu catturato e imprigionato dai Bolognesi. Federico, vecchio e malato, rivarcò i confini del suo Regno e andò a morire di dissenteria a Ferentino, vicino a Lucera.
Un cronista racconta che prima di congedarsi dal mondo, Federico convocò al suo capezzale l’Arcivescovo di Palermo, Berardo, indossò la tonaca dei Cistercensi e, dopo essersi confessato, morì in grazia di Dio.
Fu l’ultima sorpresa ch’egli riservò ai suoi contemporanei, che lo avevano soprannominato stupor mundi, meraviglia del mondo. Egli riassumeva i contraddittori caratteri del suo tempo e molti ne anticipava di quello successivo. Il sangue svevo-normanno che gli scorreva nelle vene, a contatto con l’ambiente greco-musulmano di Sicilia, aveva assunto un forte colore orientale che aveva fatto di lui, più che un Imperatore, un satrapo. Era un autocrate e instaurò quel «culto della personalità» che identificava l’Imperatore con Dio e lo rendeva sacro. Stabilì che il 26 dicembre, giorno in cui era nato, fosse festa nazionale: in quell’occasione faceva distribuire ai sudditi poveri pane, carne e vino. Quando amministrava la giustizia si faceva issare su un gigantesco trono sul quale incombeva dal soffitto un’immensa corona. Gli astanti si prostravano ai suoi piedi in attesa della sentenza ch’egli pronunciava con un filo di voce, come il responso di un oracolo, facendola precedere dal suono di un campanello. Nelle scuole i maestri lo paragonavano a Cesare e ad Augusto e lo chiamavano Figlio di Dio, quel Dio in cui non credeva. I migliori pittori e scultori del tempo venivano mobilitati per ritrarlo sulla tela e sul marmo.
Tra Federico e i suoi sudditi non c’erano diaframmi. I Baroni erano stati ridotti all’obbedienza e i loro privilegi aboliti. Pedaggi e balzelli erano dovuti solo e direttamente al sovrano, supremo amministratore di un Regno monolitico, accentratore, paternalista e razionalmente pianificato. Federico era un tecnocrate in senso moderno. Aveva vaste cognizioni di agronomia e di botanica, selezionava le sementi, progettava i canali d’irrigazione, promuoveva le bonifiche. Incrementò in Sicilia la produzione della canna da zucchero e impiantò a Palermo una grande raffineria. Voleva che ogni palmo di terra fosse coltivato. Chi trascurava il proprio podere veniva obbligato a spogliarsene in favore del vicino.
Sviluppò il commercio e cercò dovunque sbocchi ai prodotti del Regno. Incoraggiò gli scambi con tutti i Paesi mediterranei, dalla Spagna alla Tunisia, all’Egitto, alla Grecia. Aprì fondachi, allestì fiere, inviò consoli in varie città del Nord-Africa. I suoi mercanti si spinsero perfino in India. Mai, come sotto di lui, il Sud d’Italia fu prospero, potente e temuto.
Le leggi che promulgò, passate alla storia come le Costituzioni di Melfi, riflettono lo spirito di colui che le compilò ispirandosi alle Pandette di Giustiniano. Non fu un’impresa facile. Il Regno era un melting-pot di razze, di costumi e di lingue: Arabi, Greci, Latini, Tedeschi, Normanni, Ebrei si mescolavano, ogni comunità con leggi e consuetudini proprie. Le Costituzioni diedero alla Sicilia una legislazione ordinata, sapiente e unitaria come il Corpus iuris di Giustiniano, sette secoli prima, l’aveva data all’Impero d’Oriente. In esse l’agnostico sovrano codificò il suo Credo religioso. Federico non aveva alcuna fede ma pretendeva che l’avessero i suoi sudditi. Essa doveva essere quella cattolica. Ma solo per ragioni di Stato. Considerava l’eresia un delitto e lo paragonava a quelli di tradimento e di lesa maestà. Non per timor di Dio, ma per amore di ordine.
Non perseguitò invece l’eterodossia, ma escluse la minoranza musulmana dalla cosa pubblica e obbligò quella ebrea a indossare speciali abiti e a farsi crescere la barba per distinguerla dalla comunità cristiana. Le concesse però di esercitare liberamente l’usura e le diede in appalto il monopolio della seta e quello delle tintorie.
Ghibellino e laico, lottò senza tregua contro l’ingerenza della Chiesa negli affari dello Stato. Punì il Clero intrigante, espulse quello riottoso e ne ridusse i privilegi. Quando ruppe col Papa, sottopose i preti al pagamento delle imposte, abolì le decime e bandì gli ordini monastici. Non riuscì a sottrarre del tutto le masse contadine all’influenza del Clero, ma strappò alla Chiesa quelle cittadine. Secolarizzò l’amministrazione cacciandone i preti che dappertutto altrove la monopolizzavano, lo stesso fece con l’istruzione fondando quell’Università di Napoli che fu la culla della nuova classe dirigente laica. L’ateneo partenopeo fu un vivaio di funzionari, magistrati e giuristi, un faro di cultura spregiudicata, non più inceppata dal dogma, il fior fiore dell’intellighenzia italiana ed europea. Vi insegnarono Roffredo di Benevento, maestro di diritto civile, il catalano Arnaldo, interprete di Aristotele, Pietro d’Irlanda, che ebbe tra i suoi allievi un certo Tommaso d’Aquino.
Ma la specialità di Federico fu di essere un despota senza averne, almeno nei primi tempi, il carattere cupo e sanguinario. La sua Corte era un luogo di delizie. Pullulava di odalische, buffoni, eunuchi, musicisti, nani, giocolieri, paggi, di cui soprattutto Federico amava circondarsi. Provvedeva personalmente alla loro istruzione. Se si ammalavano li faceva curare dai migliori medici e li mandava a proprie spese a cambiar aria in qualche località climatica. I maligni l’accusarono per questo di omosessualità. Il che, anche se vero, non gli impedì di amare molte donne e di tradire abbondantemente le proprie mogli. Isabella d’Inghilterra, che sposò in terze nozze, scandalizzata dalla condotta del marito, si ritirò in un’ala del palazzo di Foggia e vi si seppellì.
Quando Federico si spostava, la Corte al gran completo lo seguiva, scortata da centinaia di animali esotici e rari: cammelli, linci, leopardi, scimmie, pantere, leoni, condotti alla catena da schiavi saraceni. Aveva un debole per i pavoni, i pappagalli e i falconi, ai quali dedicò un bel libro, intitolato De arte venandi, che nel Medio Evo godette di una popolarità pari quasi a quella della Divina Commedia.
L’Imperatore non coltivava solo i piaceri del corpo ma anche quelli dello spirito. A Palermo, a Foggia, a Lucera riunì il meglio della cultura islamica e di quella europea. Vennero i provenzali Sordello, Folquet de Romans, Aimeric de Peguilhan, i siciliani Jacopo da Lentini e Guido delle Colonne. Alla sua Corte diede i primi vagiti la lingua italiana o volgare. Federico lo usava nell’intimità, mentre dell’aulico latino si serviva in pubblico e negli atti ufficiali.
Era un conversatore brillante, dalla vena inesauribile, e pare che le sue battute fossero degne di Voltaire e di Oscar Wilde. Ne faceva continuamente sfoggio e sapeva ridere di quelle altrui anche quando erano rivolte contro di lui. Il che però accadeva di rado. Era anche un buon poeta e i suoi componimenti furono lodati da Dante che, come critico, era piuttosto difficile. Lui stesso li declamava la sera quando, messi da parte gli affari di Stato, si sedeva davanti al caminetto in compagnia dei familiari e di pochi intimi: i figli Manfredi ed Enzo, che chiamava con orgoglio «il mio ritratto nel corpo e nello spirito», il genero Ezzelino da Romano, nemico numero uno dei Comuni, una specie di asceta della violenza, e il segretario Pier delle Vigne.
L’Imperatore frequentava filosofi ebrei, scienziati spagnoli, matematici siriani. Alla Corte di Palermo visse quel Michele Scoto, traduttore di Aristotele, che iniziò l’Imperatore all’astrologia. Pare che gli oroscopi di Scoto fossero infallibili. Certamente lo fu quello che fece per sé. Molti anni prima di morire predisse che sarebbe stato ucciso da un sasso cadutogli sulla testa. Per precauzione prese a girare con un elmo di ferro che tuttavia non lo salvò quando una tegola gli piovve davvero sul capo. Federico era un uomo del suo tempo, e nel Medio Evo nessuno metteva in dubbio che gli astri esercitassero un potente influsso sulle vicende umane e ne modificassero il corso. Non dichiarava guerra né assediava una città senza prima aver consultato le stelle e calcolato i loro spostamenti. Non c’era mistero che non pretendesse svelare né ramo dello scibile che non destasse la sua curiosità. Voleva essere tenuto al corrente di tutto. Nulla gli sfuggiva. Un giorno, per scoprire il linguaggio dei primi abitatori della Terra, segregò in un’ala del palazzo alcuni neonati e proibì alle nutrici alle quali li aveva affidati di rivolgere loro la parola.
Cavalcando nei boschi durante le lunghe partite di caccia, studiava gli uccelli, gli alberi, le pietre. Sapeva leggere nel Libro della Natura e svelarne gli arcani. Anche la medicina e l’anatomia l’appassionavano. Molti farmaci medievali portarono il suo nome. Di notte si calava negli anfratti del palazzo reale a sezionare i cadaveri: ne esaminava le viscere e ne prelevava gli umori. Era anche un esperto veterinario, e ogni giorno compiva un sopralluogo ai suoi numerosi zoo.
Ma negli ultimi tempi le sventure, i rovesci e le defezioni avevano trasformato questo «Re Sole» del Duecento, brillante, spregiudicato e spavaldo in un despota diffidente e sanguinario. Quando si accorse che alcuni suoi cortigiani avevano ordito un complotto contro di lui, prima li fece accecare, poi uccidere, e infine diede pieni poteri alla sua «ghepeu». Da quel momento la lotta fu senza quartiere contro tutti i nemici sia interni che esterni. Ma quando Enzo cadde prigioniero dei Bolognesi, nelle cui mani doveva trascorrere il resto della sua vita, per Federico, che adorava quel ragazzo, il colpo fu terribile. Il suo medico personale approfittò della sua prostrazione per cercare di avvelenarlo. Intorno a lui non c’era dunque che odio e tradimento?
Anche Pier delle Vigne, a quanto pare, aveva tramato contro di lui. Il vecchio Ministro e segretario era stato fin allora l’uomo di fiducia dell’Imperatore, il suo consigliere più fidato, l’ispiratore della sua politica ghibellina. Quando fu arrestato, molti si rifiutarono di credere alla sua fellonia. Dante lo fece oggetto di un accorato compianto, e ancora oggi la Storia non ha fatto luce su questo oscuro episodio. Qualcuno sostiene che Piero tentò di sedurre la moglie di Federico, ma ci pare impossibile: sia per la sua età, sia per lo scarso peso che l’Imperatore dava a queste cose. Qualche altro dice che fu Federico a insidiare la moglie di Piero, il quale venne tolto di mezzo come un fastidioso ingombro. Ma l’ipotesi più probabile è quella del complotto. Piero forse vide persa la partita imperiale e si accordò segretamente col Papa. Federico fece accecare Piero; e questi, mentre lo trasferivano di carcere da San Miniato a Pisa, spronò il mulo su cui lo avevano issato e si fece sfracellare su un sasso.
Stanco e deluso, vecchio anzi tempo (non aveva che cinquantasette anni), l’Imperatore si era ritirato a Foggia lasciando il comando delle operazioni militari a Manfredi ed Ezzelino, unici superstiti della sua «vecchia guardia» e affidando le sorti della casa Hohenstaufen in Germania al figlio Corrado. Non credeva più nella sua stella, e forse aveva ormai capito che i Comuni contro cui lottava erano, sì, delle forze eversive, ma le uniche vive del suo tempo; e perciò erano destinate a trionfare.
Con lui scomparve di certo il protagonista più inquieto e più moderno del Medio Evo. Nietzsche lo ha paragonato a Leonardo da Vinci. E rinascimentali furono infatti la sua curiosità, la vastità dei suoi interessi, la sua concezione dello Stato. Eppure nulla di ciò che aveva costruito era destinato a sopravvivergli.