CAPITOLO VENTITREESIMO

BERNARDO DI FRONTE AD ABELARDO

Nel 1115 un fraticello dell’ordine cistercense aveva abbandonato la casa madre di Cîteaux, presso Digione, dove aveva preso i voti, e con dodici giovani conversi si era ritirato a Clairvaux, o Chiaravalle.

Il posto somigliava poco a quel nome allettante. Era un fitto bosco in alta montagna, completamente disabitato, non servito da strade, lontano da centri di rifornimento, e sepolto nella neve per otto mesi all’anno. Il monastero che quei tredici pionieri vi fondarono era una capanna di legno a due piani. Sotto, c’erano la cappella e il refettorio. Sopra, dove si saliva con una scala a pioli, il dormitorio, fatto di giacigli di paglia. Forse gl’inquilini avevano scelto quella disagiata e inaccessibile residenza perché non avevano altro programma che di salvare l’anima dalle tentazioni del mondo seppellendosi nella preghiera. E invece vi diedero l’avvio alla rivoluzione della Chiesa.

Il capo di quella sparuta pattuglia si chiamava Bernardo. Apparteneva a una nobile famiglia di Digione. Ma sin da ragazzo si era sentito irresistibilmente attratto dalla vita monastica, e perciò entrò a Cîteaux. Quel monastero era stato fondato proprio allora da Roberto di Molesnes, un benedettino della vecchia scuola che invano aveva cercato di ricondurre all’austerità i conventi di cui era stato Priore.

Non era stato il solo a provarcisi. Anche Bruno di Colonia, pochi anni prima, aveva addirittura rifiutato l’Arcivescovato di Reims per dedicarsi unicamente alla riforma della regola benedettina, fondando il monastero di Chartres sulle Alpi vicino a Grenoble. Esiste tuttora, ed è quello che più si è serbato, in otto secoli di vita, fedele allo spirito del fondatore.

Roberto ne imitò l’esempio con Cîteaux. I Cistercensi, come si chiamarono i suoi seguaci, ripristinarono in tutta la sua severità la regola benedettina dei tempi eroici: povertà assoluta, dieta strettamente vegetariana, lavoro manuale nei campi, astinenza, silenzio e analfabetismo. Questo rigore ebbe un effetto scoraggiante. Reclute ne affluirono poche. E forse Cîteaux sarebbe morto coi suoi fondatori, se fra costoro non si fosse arruolato come novizio quel tale Bernardo di Digione. Non ci venne da solo. Prima ancora di prendere il saio, aveva esercitato le sue qualità di apostolo e propagandista sui suoi coetanei, accendendone o risvegliandone il fervore. Riscosse tale successo che – si dice – le ragazze lo presero in odio per le falcidie di giovanotti ch’egli operò. Ne convertì una trentina, alla loro testa si presentò a Cîteaux, con loro vi fece il suo noviziato, e due anni dopo chiese e ottenne il permesso di fondare la succursale di Chiaravalle.

Era un curioso miscuglio di carità e d’intransigenza. Viveva come il più umile dei suoi seguaci. Non amava che il suo eremo e la sua solitudine. La sua eloquenza era disadorna e povera di argomenti, ma animata da un tale calore di convinzione ch’era impossibile resistergli. Perfino i suoi familiari dovettero arrenderglisi: suo padre si fece frate, sua madre e le sue sorelle suore. La fama di questa sua forza redentrice condusse a Chiaravalle coscienze inquiete e tormentate dal dubbio. Ci venne anche Enrico, fratello del Re. Dopo poche ore di conversazione con Bernardo, chiese un saio e andò in cucina a lavare i piatti. Ci vennero anche dei filosofi che non riuscivano a conciliare la fede con la ragione. Ma a costoro Bernardo non seppe che dire, se non la sua meraviglia che qualcuno tenesse la ragione in sì gran conto da cercarvi la spiegazione di qualche perché. L’uditorio che preferiva erano i pastori e i boscaioli di quelle remote contrade alpine, per i quali l’Universo era un gran mistero di cui l’unica chiave era Dio.

Eppure quest’uomo mite diventava spietato quando avvertiva puzzo di eresia o di peccato. Contro gli eretici giustificò «la prova di Dio», cioè la tortura. E contro il Clero mondano pronunciò invettive famose. Rimproverava alla Chiesa di essere «troppo ricca di fuori, e troppo povera di dentro. Impreziosisce la facciata della sua casa, e tiene nudi i suoi figli». La chiamò anche «una caserma, una scuola di satana, un allevamento di ladri». Un altro suo bersaglio fu la regina Eleonora d’Aquitania, la first lady, la grande patrona della nuova cultura. Nel suo acceso antifemminismo riecheggiavano gli accenti dei quaresimalisti medievali che in ogni donna vedevano un’Eva, strumento del Maligno per indurre l’uomo in tentazione. E certamente anche in questo Bernardo incarnava una specie di reazione sanfedista che saliva dal basso contro la riqualificazione della donna provocata dal culto di Maria.

Malgrado l’estremismo e il suo totale rifiuto del mondo e del tempo in cui viveva, l’autorità morale di Bernardo crebbe al punto che Papi, Concili e Re ricorrevano a lui quando c’era da districare qualche matassa ingarbugliata. Lo chiamarono anche a Roma per decidere a chi, fra Anacleto II e Innocenzo II, spettasse la tiara. Bernardo accettava queste missioni senza entusiasmo. Viaggiava come un pellegrino povero, dormendo nei conventi o nelle capanne dei pastori. Una volta, passando lungo le sponde di un lago svizzero illuminato dal sole, si tappò gli occhi con la mano per non cedere al piacere sensuale di quello spettacolo che gli pareva un peccato.

Quando morì poco più che sessantenne, nel 1153, il suo ordine contava settecento monasteri con sessantamila monaci. Ma ancora una volta il successo gli fu fatale: ennesima riprova della precarietà dei regimi fondati sulla mortificazione della personalità e dei suoi istinti. Non erano trascorsi che pochi decenni dalla scomparsa del fondatore che già alcuni monasteri da lui fondati affidavano il lavoro dei campi a schiavi saraceni incettati sul mercato, com’era avvenuto ai tempi del più sfrenato capitalismo romano. Era il rinnegamento di tutti i princìpi su cui Bernardo aveva basato la sua regola. E ricominciava la corsa alla corruzione mondana.

Il fatto è che Bernardo aveva lottato contro un nemico invincibile, contro cui non valeva nemmeno la «prova di Dio». E questo nemico era la cultura, che dopo secoli di monopolio ecclesiastico sfuggiva alla Chiesa e diventava laica. Bernardo se l’era trovata drammaticamente di fronte, incarnata in uno dei più singolari personaggi di tutt’i tempi e certamente il più «rappresentativo» di un’epoca: Abelardo. I due uomini furono i protagonisti di un clamoroso processo, dove Bernardo fece naturalmente da accusatore e Abelardo da imputato.

Abelardo era un bretone e apparteneva anche lui alla piccola nobiltà di provincia. Nato un secolo prima, forse sarebbe diventato un trovatore. Ne aveva tutt’i requisiti: la prestanza, la spavalderia, la facondia e, come in seguito dimostrò, l’ispirazione poetica. Invece s’indirizzò verso la filosofia, forse anche sotto la spinta del maestro che gli diedero come precettore, Roscellino. Era costui un prete, naturalmente, ma piuttosto ribelle e anticonformista, che avanzava dubbi sul pericoloso argomento della Trinità. Cosa sono, si chiedeva Roscellino, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo? Se sono una cosa sola, perché vengono specificati con tre nomi diversi? E se sono tre cose diverse, non è un’astrazione e arbitrio identificarle in una sola entità?

Roscellino forse non se ne rendeva conto. Ma così ragionando, si faceva il portavoce di tutta una nuova corrente di pensiero che di cristiano non aveva nulla: né l’etichetta di origine, né quella della ditta d’importazione. Si trattava della filosofia aristotelica. Ed erano stati gli Arabi e gli Ebrei a farsene gl’interpreti e i mediatori in Occidente.

Cerchiamo di ricostruire quest’avventura.

La grande eredità culturale del mondo antico era stata rotta in due dalla divisione politica dell’Impero d’Occidente da quello d’Oriente. L’Europa era rimasta col retaggio latino, ch’era servito a darle una lingua comune e a conservare le fondamentali concezioni del diritto pubblico e privato. Il genio di Roma, tutto pratico e amministrativo, si era sfogato in questi campi. E la Chiesa ne aveva raccolto quanto le serviva per la propria organizzazione. La filosofia e le scienze erano monopolio della cultura greca, da cui l’Occidente era rimasto irrevocabilmente escluso dopo l’occupazione longobarda e l’esplosione musulmana.

I crescenti malintesi fra le due Chiese avevano perfezionato questo divorzio. E così la cultura europea si era sviluppata, per così dire, su una gamba sola. «Intellettuale» nel Medio Evo era colui che conosceva il latino e le leggi. Se non era prete, era notaio. Anche se aveva qualche altra curiosità, gli mancavano gli strumenti per soddisfarla. Non sapeva nulla per esempio di medicina né di geometria: ignorava il compasso, ignorava lo zero. L’uomo medievale era rassegnato al mistero. La realtà che lo circondava per lui era solo il «sogno di Dio». Era troppo in balìa della fame, del freddo e della paura per cercare una «spiegazione del mondo» al di fuori di quella che offrivano le Sacre scritture coi loro sette giorni della Creazione, la costola di Adamo e il peccato originale.

Certamente a scuoterlo da questo torpore mentale ci fu anche, dopo il Mille, quel po’ di progresso economico e quella maggiore stabilità che gli consentirono di pensare anche a qualcos’altro che non fosse lo stomaco. Ma ancora più decisivo fu il contagio della cultura araba.

La cultura araba non era più soltanto il Corano. Gl’indomiti guerrieri di Maometto, quando traboccarono fuori dell’Arabia, erano analfabeti, ma dotati di un fortissimo potere di assimilazione. Dovunque piantassero bandiera, assorbivano la cultura locale. E siccome fra le terre di conquista ce n’erano di avanzatissime come l’Egitto e la Persia, la loro maturazione intellettuale fu non meno rapida della conquista militare. Quando, al termine della lunga cavalcata lungo il Nord-Africa, giunsero in Spagna, nei loro zaini c’era già tutto il retaggio della cultura greca. Le Università del Cairo e di Bagdad lo avevano rielaborato in lingua araba. E il seme del razionalismo aristotelico, trasportato in Spagna, fiorì a Cordova e a Saragozza per merito di due grandi maestri musulmani: Averroè e Avicenna.

I primi europei che vennero in contatto con gli arabi furono i soldati visigoti di Pipino e Carlo Martello che arrestarono l’Islam a Poitiers. Ma in quel momento l’Islam era soltanto un esercito, Averroè e Avicenna non erano ancora nati, i Franchi erano troppo rozzi per sentire l’attrazione della cultura, e infine mancavano i mediatori che la rendessero intelligibile ai popoli europei.

Questi mediatori furono gli Ebrei. Snidati dalla Palestina, travolti e dispersi dalle orde dei Califfi, essi vi si mescolarono, e al loro seguito approdarono a Gibilterra. Erano gli unici che conoscevano sia l’arabo che il latino. E tradussero l’uno nell’altro. Una loro dinastia, gli Halévi, regalò da sola all’Europa gli Elementi di Euclide, il Canone di Avicenna e i commentari di Averroè ad Aristotele.

È difficile oggi rendersi conto dello stupore e dell’entusiasmo che queste opere suscitarono nella rozza e imbarbarita Europa medievale. Naturalmente ad apprezzarle non furono le masse analfabete, ma le piccole minoranze colte o aspiranti alla cultura che si stavano lentamente formando. Esse si accorsero a un tratto non solo di non sapere nulla, ma di non avere nemmeno i mezzi per imparare qualcosa. Scoprirono la geometria, l’algebra, il sistema decimale. Ma soprattutto scoprirono la logica e la meccanica del sillogismo, cioè lo strumento per articolare il pensiero e svilupparlo con ordine razionale. «La filosofia» disse più tardi Bacone «ci è venuta dagli Arabi.» Era vero, anche se si trattava in sostanza di filosofia greca. E lo dimostra il fatto che la sua prima «centrale» cristiana fu la Francia, che aveva gli Arabi all’uscio dei Pirenei. I Crociati – quasi tutti francesi – che tornarono dalla Terrasanta contribuirono al contagio.

Roscellino era uno di quelli che forse inconsapevolmente lo avevano subìto: il suo ragionamento sulla Trinità era di stampo aristotelico. E l’allievo Abelardo, col suo pronto intuito, ne assimilò subito la meccanica. Con l’impazienza propria dei giovani rimise in discussione tutte le verità su cui l’Occidente aveva sonnecchiato sin allora, comprese quelle «rivelate», anzi solo quelle perché altre non ce n’erano. E fin qui, nulla di strano. Ma per predicare le sue teorie, o meglio i suoi dubbi dovette salire sull’unica cattedra che i tempi mettevano a disposizione: il pulpito. Voleva farsi prete, anzi accarezzò l’idea di diventare Vescovo, e magari Papa. Se la sua vocazione fosse autentica, non sappiamo. Forse gli era imposta dal fatto che allora, lo abbiamo già detto, la cultura era monopolio della Chiesa: fuori di essa non c’erano strumenti per interferirvi.

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Ancora studente, s’immerse fino al collo nelle diatribe filosofiche, che forse lo salvarono da una vita di dissipazione. Le sue polemiche con Guglielmo Champeaux fecero la curiosità e la delizia di tutta la goliardia parigina. Egli si servì senza scrupoli di tutte le malizie dei sofisti greci per confutare le tesi tradizionaliste del suo professore e avversario. Forse più che la dottrina, furono lo spirito, l’ironia, i paradossi, l’oratoria brillante e di una tersità voltairiana avanti lettera, che gli valsero i galloni di caposcuola: una scuola che fu chiamata Modernismo: parola che ha fatto sempre rizzare le orecchie e il pelo della Chiesa.

Dapprincipio evitò i temi che potevano esporlo all’accusa di eresia. E ci riuscì così bene che Fulberto, soggiogato dal fascino della sua eloquenza, gli mise a disposizione la cattedrale di Parigi di cui era canonico. Poi, non contento di questo, se lo prese anche a pensione in casa perché facesse da tutore a sua nipote Eloisa. Fu come mettere la polvere accanto al fuoco. Abelardo ci perse il sonno e il senno, diventò un pessimo predicatore e un poeta squisito. Quando Eloisa fu incinta, la mandò in Bretagna a sgravarsi di un bambino, cui mise il nome di Astrolabio. E chiese a Fulberto il permesso di sposarla, ma morganaticamente, per non compromettere la propria carriera ecclesiastica cui tuttora pensava. Fulberto, per tutta risposta, divulgò la notizia. E Abelardo, per smentirla, indusse Eloisa a rinchiudersi in un convento. Lo zio inferocito se ne vendicò nel modo più orrendo. Due suoi sicari sorpresero Abelardo nel sonno e lo evirarono. Parigi fu più deliziata dal lato piccante di questa vicenda che commossa del suo lato patetico. Abelardo si credette naufragato nel ridicolo, e si disponeva a rinchiudersi anche lui in convento, quando gli studenti vennero a chiedergli di riprendere le lezioni.

Fu un trionfo. L’oratoria di Abelardo, che la passione aveva appannato, ritrovò il suo smalto. Egli svolse un corso sulla Dialettica di Aristotele e ne fornì un limpido saggio con le sue esposizioni. Le categorie del pensiero, l’analisi logica, le forme della proposizione furono studiate e approfondite. I suoi allievi forse non appresero da lui nulla di nuovo in fatto di dottrina. Ma certamente impararono a parlare. Abelardo diede alla lingua francese quell’ordine e quella razionalità che ancora oggi ne costituiscono il privilegio. Non svelò nulla di originale. Ma fabbricò gli strumenti per dare l’assalto a «questo grande mistero del sapere» come lui lo chiamava. Dio non può, diceva, essere in contrasto con la ragione ch’Egli stesso ci ha dato. Quindi l’indagine della verità è una collaborazione con Lui, non un sacrilegio.

I preti si trovarono nei guai, anche per mancanza di direttive. Una vera e propria dottrina su cui confrontare le proposizioni di Abelardo non era stata ancora elaborata. Molti articoli di fede non erano stati sistemati in dogmi, il numero dei sacramenti non era stato fissato, e nemmeno la messa aveva ancora trovato la sua forma definitiva. La stessa parola «Chiesa» non aveva quel significato di organismo e di gerarchia che noi oggi le diamo. Significava soltanto l’edificio in cui si svolgevano i riti. Sin allora il Clero non aveva sentito il bisogno d’imprigionare Dio in un sistema teologico perché al gregge si chiedeva di riverire e di amare il Signore, non di comprenderlo.

Di fronte ad Abelardo che tentava di spiegarlo, il Clero si divise. Il Vescovo di Chartres lo accusò di eresia, non gli permise nemmeno di discolparsi e lo fece rinchiudere in un monastero. Sebbene il Papa ne ordinasse il rilascio, Abelardo non trovò più nessuna cattedrale disposta a offrirgli il pulpito. E allora se ne costruì uno per proprio conto in una baracca di legno nella foresta. In pochi mesi un villaggio le crebbe intorno per iniziativa degli studenti che non volevano perdere il loro maestro.

Questi si mostrò abbastanza cauto e si guardò bene dal porsi in contrasto con le Sacre scritture. Ma fornì gli argomenti per rimetterle in discussione, e fra i suoi allievi ci fu chi ne approfittò, come Gilberto de la Porrée e Guglielmo di Conches.

Fu allora che Bernardo intervenne. Egli forse non aveva una chiara idea di ciò che Abelardo diceva. Ma vi sentiva risuonare tutte le note che più dispiacevano alla sua Fede semplice, fatta per gli uomini semplici. A lui importava poco sapere come Abelardo spiegava Dio. Trovava sacrilego che si tentasse di spiegarlo. E fu per questo che con la forza del suo altissimo prestigio impose al Vescovo di Sens di convocare il reprobo davanti a un tribunale di ecclesiastici e di dotti laici (ma anch’essi naturalmente di formazione ecclesiastica perché di altre origini a quei tempi non ce n’erano, tutta l’istruzione essendo monopolio dei preti). Vi partecipò anche il Re. E tutta l’intellighenzia francese accorse per assistere all’appassionante dibattito.

Naturalmente essa era in maggioranza per Abelardo. Ma era intimidita dal grosso del pubblico, cui i preti avevano detto che l’imputato predicava l’esistenza di tre dèi. In quell’aria di linciaggio, Abelardo rinunziò a difendere le sue tesi, e si rifugiò in una scappatoia procedurale: disse che il tribunale era incompetente, che solo il Papa aveva il diritto di giudicarlo. Il primo che si alzò a parlare contro di lui fu, con suo grande stupore, il suo vecchio maestro Roscellino, riconvertitosi coi reumatismi all’ortodossia, o desideroso di farsi perdonare i propri deviazionismi.

Ma la vera requisitoria la pronunciò Bernardo, e fu lo scontro frontale fra le due grandi istanze che d’allora in poi avrebbero sempre diviso l’umanità: la Fede e la Ragione. Fu in quell’occasione che la Chiesa sentì il bisogno di conciliarle, come poi avrebbe cercato di fare con la filosofia Scolastica. Ma quel giorno non ne aveva ancora gli strumenti, e dovette decidersi fra l’una e l’altra. Più col suo calore e col suo appassionato impeto che coi suoi argomenti, Bernardo indusse il tribunale a schierarsi dalla parte della Fede e a condannare come eretiche le più importanti proposizioni di Abelardo.

Questi si mise in cammino per Roma. Voleva spiegare il caso al Pontefice e ottenerne giustizia. L’età e gli acciacchi lo bloccarono a Cluny, dove Pietro il Venerabile lo accolse caritatevolmente e lo dissuase dal continuare il viaggio. Abelardo rimase nel convento. E i suoi ultimi anni furono un edificante esempio di pietà e di fervore. Fra preghiere e penitenze, compose i più begl’inni sacri di tutta la letteratura medievale. Ma sotto banco scrisse anche a Eloisa le più belle lettere d’amore: un amore così intriso di carnalità che alcuni storici, non sapendo come conciliarlo con l’esaltazione spirituale degl’inni, dubitano dell’autenticità di quella corrispondenza. Ma a torto, crediamo. L’amore può benissimo colorarsi insieme di sacro e di profano. Lo slancio dello spirito e la violenza dei sensi sono abituati da sempre a coabitare. Senza queste contraddizioni, non ci sarebbe umanità, ma solo una collezione di manichini.

Eloisa, che frattanto era diventata badessa grazie alla sua esemplare condotta, venne a riprendersi il cadavere di Abelardo, quando questi morì nel 1142, e lo sotterrò nel cimitero del suo convento. Forse lei sola, col suo intuito femminile, aveva compreso il dramma di quell’uomo singolare e tormentato che aveva predicato in nome della Ragione, ma era vissuto sotto il segno della passione, ed era perciò la prima vittima del conflitto ch’egli stesso aveva aperto.