L’altra arma, molto più efficace, cui la Chiesa fece ricorso per combattere l’eresia furono i grandi riformatori degli ordini religiosi.
Francesco nacque ad Assisi all’alba del 1182. Il padre si chiamava Bernardone, faceva il mercante di stoffe ed era un uomo grossolano e scarsamente devoto. I suoi affari lo portavano spesso fuori d’Italia, specialmente in Francia, dove aveva anche trovato moglie. Era laggiù quando gli nacque il figlio che, in ricordo di quel viaggio, chiamò Francesco. La madre, Pica, era una donna sottomessa e timorata.
Francesco frequentò le prime classi in una scuola annessa alla chiesa di San Giorgio. Quando ebbe conseguito la licenza elementare, poiché il padre lo voleva con sé negli affari, abbandonò gli studi in cui del resto non aveva mai brillato. Era un giovane esuberante, di media statura e piuttosto magro. Aveva la testa grossa, la fronte bassa, gli occhi neri, il naso diritto, le orecchie piccole, le mani lunghe e bianche. Vestiva con ricercata eleganza e passava le serate nelle taverne e per le strade giocando ai dadi, bevendo e cantando in allegra compagnia. Più d’una volta gli abitanti di Assisi furono svegliati dai clamori e dagli schiamazzi di questi «vitelloni» che per burla indossavano abiti femminili o sdrucite tuniche di sacco. Tommaso di Celano, suo biografo, racconta che Francesco era sempre pronto a far bisboccia e a cacciarsi nei guai, con gran disperazione della madre.
Quando nel 1201 Perugia dichiarò guerra ad Assisi, Francesco dovette abbandonare la dolce vita e arruolarsi. Partecipò alla battaglia fra i due Comuni umbri che si svolse l’anno dipoi presso il Ponte San Giovanni sul Tevere. Combatté con valore, ma fu fatto prigioniero e condotto come ostaggio a Perugia, dove rimase fino quasi alla fine del 1203, quando le città si riconciliarono.
Tornò ad Assisi e si tuffò negli affari. Ma dopo pochi mesi un attacco di tubercolosi contratta durante la prigionia lo inchiodò a letto. Quando guarì indossò di nuovo l’armatura e partì per la Puglia, ma a Spoleto una voce misteriosa lo arrestò. Era quella di Dio – riferisce un cronista dell’epoca – che gli ingiungeva di tornare ad Assisi. Francesco obbedì. Aveva appena compiuto i venticinque anni. Gli amici, vedendolo rimpatriare, lo festeggiarono e vollero organizzare in suo onore, e a sue spese, un banchetto. Il Santo pagò le spese, ma rifiutò l’onore e non partecipò. Il giorno dopo annunciò al padre che intendeva ritirarsi dagli affari. Invano Bernardone tentò di dissuaderlo.
Francesco cominciò a distribuire tutto ciò che possedeva ai poveri che incontrava per strada e a soccorrere i lebbrosi che infestavano Assisi. Un giorno, profittando dell’assenza del padre, vendette le stoffe più pregiate del suo magazzino e offrì il ricavato al parroco della vicina chiesa di San Damiano, che però lo ricusò. Quando Bernardone scoprì il furto, montò su tutte le furie e si mise alla caccia del figlio che si rifugiò in una grotta, dove restò rintanato per un mese nutrendosi di erbe e di ghiande.
Tornò a casa stremato dagli stenti e dal digiuno con un lurido e sfilacciato brandello di lana per vestito, i capelli lunghi e la barba ispida e folta. I suoi concittadini l’accolsero a sberleffi, lo chiamarono pazzo e alcuni giovinastri, suoi ex-compagni di gioco, lo bersagliarono d’escrementi. Francesco, a testa bassa, s’avviò verso casa. Il padre, piantato davanti all’uscio, l’aspettava con un nodoso randello con cui lo colpì ripetutamente. Solo l’intervento di Pica riuscì a strappare Francesco alla rabbia di Bernardone, che relegò il figlio in cantina con le catene ai piedi.
Un giorno che il marito era fuori città per affari, Pica lo liberò e Francesco fuggì di nuovo con la cassa. Bernardone lo denunciò ai consoli che intimarono al giovane di restituire il denaro. Poiché Francesco non se ne dava per inteso, intervenne il Vescovo d’Assisi che lo deferì al tribunale ecclesiastico. Francesco vi si presentò, e quando il Vescovo gli ordinò di riconsegnare il peculio, gettò ai piedi di Bernardone la borsa con queste parole: «Finora io chiamavo padre Bernardone, ma da questo momento voglio servire Dio e a Bernardone restituisco non solo questo denaro, che tanto desidera, ma anche gli abiti che ho ricevuto da lui». Ciò detto, si spogliò della lurida tunica e restò nudo, cinto alla vita da un rigido cilicio. Il Vescovo lo ricoprì con una vecchia mantellina, e lo congedò con un abbraccio. Francesco s’avviò cantando giulivo verso un vicino monastero dove trovò lavoro come sguattero.
Fu in questo periodo che adottò la divisa dell’eremita: una tunica stretta ai fianchi da una cinghia di cuoio, i sandali e un bastone, e cominciò la vita errabonda del mendicante. Il suo unico bagaglio era una sbocconcellata ciotola di terracotta. La sua fama di santità cresceva ogni giorno, aumentavano le elemosine, le visioni e le voci si moltiplicavano. Una mattina, mentre ascoltava la messa, gli apparve Dio che gli disse: «Va’ e annuncia che il mio Regno è vicino. Non portare né oro, né argento, né rame nella tua cintura; non bisaccia per il viaggio, non due vesti, non calzari, non bastone». Il Santo gettò via il bastone e i sandali, e al posto della cintura di cuoio cinse ai fianchi una grossa corda.
Il suo esempio era contagioso e molti giovani chiesero di seguirlo. Francesco non respingeva nessuno ma i più, dopo poche settimane o pochi giorni di quella vita, l’abbandonavano. L’eco delle penitenze e dei miracoli del Santo giunse anche a Roma. Nel 1212 papa Innocenzo III lo convocò in Laterano. Francesco si fece accompagnare dai suoi conversi che egli chiamava giullari di Dio. La comitiva s’incamminò alla volta dell’Urbe a piedi scalzi, cantando inni, recitando Salmi e vivendo, come sempre, di elemosine. Francesco si presentò al cospetto del Pontefice così male in arnese che Innocenzo finse di scambiarlo per un guardiano di porci.
«Il tuo posto» gli disse «è in mezzo ai maiali, non nel tempio di Dio.» Francesco umilmente si congedò, uscì dal Laterano e si diresse verso il cortile di un vicino cascinale dove, in mezzo al letame, grufolava una mandria di porci. Si tolse la tunica e s’avvoltolò nello sterco, eppoi tornò dal Papa che gli fece le sue scuse. Quel Papa intelligente e autoritario, ma pratico e terrestre, cercò di dimostrare a Francesco che la sua Regola era troppo austera per poter fare proseliti. Ma alla fine rimase disarmato dal candore di quel fraticello impermeabile agli argomenti della logica e della ragione, e gli dette il permesso di fondare l’Ordine dei Fratelli Minori, forse fidando nel suo fallimento.
Appena tornato ad Assisi, Francesco prese la tonsura coi suoi compagni e ottenne dall’abate benedettino del Monte Subasio l’uso di una cappelletta, chiamata per le sue modeste proporzioni la Porziuncola, circondata da un fazzoletto di terra su cui i fraticelli innalzarono piccole capanne d’argilla e di rami secchi.
Su tutti vigilava Francesco, coadiuvato dalla Madre, che era un frate anziano incaricato di provvedere ai minuti bisogni della comunità. I frati avevano fatto voto di povertà, umiltà, obbedienza e ignoranza. Vivevano di elemosine ma solo in natura poiché la Regola faceva loro divieto di maneggiare denaro, osservavano il più rigoroso silenzio e non potevano interloquire in questioni teologiche e dogmatiche per le quali si rimettevano ai canoni.
In poco tempo, decine di conversi affluirono alla Porziuncola. Venne anche una donna, Chiara, della ricca famiglia degli Sciffi. Per raggiungere Francesco aveva abbandonato, contro la volontà dei parenti, una vita di lusso e di agi.
Chiese e ottenne da Francesco l’autorizzazione a fondare un secondo ordine francescano di monache, di cui diventò badessa. Le Clarisse, come si chiamarono queste religiose, alternavano la preghiera ai lavori manuali e alla cura dei lebbrosi.
Una decina d’anni dopo un terzo ordine venne ad affiancare gli altri due: quello laico dei Terziari. Vestivano abiti modesti e dimessi, calzavano semplici scarpe di cuoio, evitavano feste e banchetti, non consumavano più di due pasti al giorno, e quattro volte la settimana s’astenevano completamente dal cibo. Dal digiuno erano dispensati solo i malati, i lavoratori e le donne incinte. Dovevano recitare ogni giorno centocinquanta padrenostri e fare ogni sera l’esame di coscienza, confessarsi e prendere la comunione almeno tre volte l’anno. Ogni mese si riunivano per ascoltare un’omelia, pregare in comune e versare il loro obolo all’Ordine. Ogni tre, facevano testamento. Il Papa li aveva sottratti alla giurisdizione laica e assegnati a quella ecclesiastica. Aveva anche fatto loro divieto di combattere e di prestare giuramento senza l’autorizzazione della Chiesa. L’Ordine dei Terziari si diffuse rapidamente in Italia e in Europa. Nelle sue file annoverò Re, Principi, artisti, scienziati: San Luigi di Francia, Petrarca, Raffaello, Michelangelo, Liszt, Volta.
Il successo della Regola era dovuto in gran parte alla crisi che travagliava in quel tempo la Chiesa e ai primi fermenti di rivolta e di rinnovamento che ne stavano scuotendo l’edificio. Francesco non aveva saputo nulla dei Catari, dei Valdesi e degli Albigesi, ma aveva respirato l’aria di protesta contro la mondanità e la corruzione del Clero e se n’era fatto portavoce. Tuttavia l’austerità della Regola, in così stridente contrasto con la vita dissoluta e fastosa degli alti prelati, era dispiaciuta alla Curia Romana. In seguito alle proteste di alcuni Cardinali, Francesco dovette, su richiesta di papa Onorio III, annacquarla e modificarla. Egli vi si piegò con molta riluttanza. In quel momento aveva già rinunziato alla direzione dell’Ordine per motivi di salute. Ai numerosi acciacchi dai quali già era afflitto s’era aggiunta la malaria, contratta in uno dei suoi tanti giri missionari.
Ne aveva compiuti in varie parti d’Italia. Il suo arrivo era annunciato con giorni d’anticipo dai pulpiti delle chiese. I fedeli gli andavano incontro con canti, croci e bandiere, e s’inginocchiavano al suo passaggio. Una volta a Siena, la sua apparizione bastò a placare una guerriglia di parte. Le città se lo contendevano, e i più scalmanati gli laceravano la tunica per farne reliquie.
Nel giugno del 1219, Francesco decise di andare in Terrasanta a convertire al Cristianesimo il sultano Al Kamil. I suoi agiografi raccontano che Al Kamil fu conquistato dal Santo e non abiurò solo per paura di perdere il trono. In realtà Francesco non mise mai piede in Oriente. Imbarcatosi per raggiungerlo, fece naufragio sulle coste dalmate. Forse fu meglio così perché le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate in seguito a un attacco di oftalmia che lo rese mezzo cieco.
Nel 1224 si rinchiuse in un eremo, dove in sogno ebbe la visione di Gesù sul Calvario. Quando si svegliò si trovò tutto il corpo coperto di stigmate. Poco dopo tornò alla Porziuncola. La fine era prossima ma Francesco, indomabile e infaticabile, continuava a percorrere l’Umbria a dorso di mulo, evangelizzando decine di villaggi e contagiandoli della sua poetica gaiezza.
Prima di morire volle vedere per l’ultima volta Santa Chiara, che dirigeva un convento a San Damiano.
Fu in questo luogo, o nelle sue immediate adiacenze, che Francesco compose quel Cantico delle Creature, che gli valse il titolo di «Orfeo del Medio Evo», e che Renan definì il più bel pezzo di poesia religiosa dopo i Vangeli. Il Santo lo dettò ai suoi frati in volgare e vi adattò anche un’arietta. Fu intonando questo sublime inno e invocando «Sorella morte» che nel 1226, all’età di quarantacinque anni, morì, dopo essersi fatto ricoprire di cenere e di polvere. Due anni dopo salì all’onore degli altari.
La Regola non s’allentò col tempo e continuò a ribadire quel suo perentorio e imbarazzante impegno alla povertà come condizione di purezza cristiana. Il tono di requisitoria e di condanna che essa conteneva indusse alla fine il papa Giovanni XXII a tacciare di eresia coloro che la praticavano. E così, cento anni dopo la morte di Francesco, molti suoi seguaci furono condannati dall’Inquisizione al rogo. A mandarveli furono soprattutto i domenicani, a cui la Chiesa aveva dato in appalto la lotta contro l’eresia. Ciò valse a scavare un solco di odio tra i due ordini. Coloro che tuttavia fanno risalire questa animosità a un personale conflitto tra Francesco e Domenico sbagliano. I due Santi infatti, sebbene di carattere così diverso tra loro, furono amici e nutrirono sempre una reciproca ammirazione.
Domenico nacque in Spagna, a Calaruega, città della Castiglia, nel 1170, da nobile famiglia. La madre, la Beata Giovanna, prima di partorirlo, sognò un cane che imboccando un tizzone ardente incendiava il mondo. In questa allegoria qualcuno vide un’allusione ai roghi dell’Inquisizione, accesi dai seguaci del Santo. Fino all’età di sette anni Domenico visse in famiglia. Poi fu mandato a studiare nella vicina città di Osma, ospite di uno zio arciprete. A quindici si trasferì a Palencia, la futura Salamanca, dove frequentò la celebre scuola di grammatica.
Era un giovane di media statura e di pelo rosso, barbuto, magro e delicato. A differenza di Francesco, non ebbe mai dubbi sulla propria vocazione e mai si mescolò a compagnie ribalde e scollacciate. Nacque Santo, non lo diventò. Quando finì gli studi, ottenne una cattedra di teologia che abbandonò, a trentun anni, per diventare canonico del capitolo di Osma e poi sottopriore. Nel 1201 accompagnò il suo Vescovo a Tolosa, ch’era uno dei centri dell’eresia albigese. Dicono che albigese fosse anche l’oste che l’ospitò in una vecchia taverna e che Domenico in poche ore riuscì a convertire all’ortodossia. Fu questo il primo della serie innumerevole di miracoli che gli agiografi gli attribuirono.
Domenico restò a lungo a Tolosa, risoluto a combattere e a schiacciare l’eresia adottando le stesse armi dei suoi nemici: la povertà, l’umiltà e la tolleranza.
Indossò una semplice tonaca e a piedi scalzi cominciò a percorrere in lungo e in largo quelle regioni infettate dalla dissidenza, predicando, promuovendo dibattiti, incoraggiando contraddittori. Era un oratore nato e possedeva una voce calda, pacata e suadente. Non assumeva mai il tono della requisitoria o quello dell’invettiva, non minacciava castighi e più che a strappare l’applauso mirava a ottenere il consenso. La collera e le rampogne le riservava ai preti che vivevano nel lusso, agli abati concubini, ai Vescovi simoniaci, che avevano sprofondato la Chiesa nella palude della mondanità, screditandone le istituzioni e minandone la compattezza. Allora Domenico dimenticava anche la disciplina e le gerarchie e gridava – lui semplice frate – ai legati papali Arnoldo, Raoul e Pietro di Castelnau: «Non è sfoggiando come voi il potere e la pompa, cavalieri e palafrenieri, vestiti e gioielli, che l’eresia fa proseliti. Li fa col suo zelo, con la sua austerità, con la sua santità». Era un invito a imitare le virtù del nemico e a farne uno strumento di lotta. Il «persecutore degli eretici», come poi fu chiamato Domenico, fu a un passo dal diventarlo egli stesso. E certamente lo sarebbe diventato se la Chiesa fosse rimasta sorda ai suoi gridi d’allarme.
Papa Onorio intuì in Domenico un alleato formidabile, lo volle conoscere e nel dicembre del 1216 lo autorizzò con due bolle a fondare l’Ordine dei Frati Predicatori. Domenico l’organizzò, da buon spagnolo, come una truppa scelta, come un intrepido Commando da lanciare alla disperata in mezzo ai nemici. Reclutava i suoi uomini nelle università perché li voleva istruiti, polemici e pugnaci, com’erano gli avversari. Per lui le armi francescane della povertà e dell’umiltà non andavano disgiunte da quelle della dialettica e della logica, perché l’eresia non colpiva solo la depravazione del Clero ma intaccava alle radici la struttura stessa della Chiesa, rimettendone in discussione la gerarchia e i dogmi. Francesco negava ogni significato e importanza alla cultura come strumento di lotta e di propaganda in un mondo che aborriva e dal quale predicava la fuga. Domenico, al contrario, spingeva i suoi ad affrontarlo, a combatterne le tentazioni e a vincerle. All’ascesi preferiva l’azione e il confronto delle idee.
Domenico operò tutta la vita per ricondurre la Cristianità nell’alveo della ortodossia, e in questa Crociata non conobbe soste né tentennamenti. Stremato da una lotta durata oltre vent’anni, morì nell’agosto del 1221 a Bologna, dove i frati predicatori avevano fondato una delle più importanti case dell’Ordine.
Dalla scuola domenicana vennero i grandi missionari, i grandi diplomatici, i grandi dottori della Chiesa. Se essa produsse anche i persecutori, la colpa non fu certamente di Domenico, che fu un uomo giusto, mite e generoso. Finché visse, il suo Ordine non si macchiò di alcun delitto, forse perché egli riuscì con la santità del suo esempio e il prestigio della sua autorità a impedire che lo zelo dei suoi adepti degenerasse in fanatismo. Ma dopo la sua scomparsa ci fu chi, accecato dall’odio per gli eretici, si abbandonò a eccessi che nocquero all’Ordine più di quanto non giovassero alla Fede, dimenticando che il «persecutore degli eretici» una sola volta si era trovato coinvolto in un episodio di persecuzione, ma solo per salvare dalle fiamme un condannato al rogo.
Francesco e Domenico sfidarono l’eresia sul terreno della morale e del costume. Ma solo Domenico intuì che c’era un altro campo su cui ortodossia e dissidenza erano in conflitto: quello intellettuale. Egli non combatté questa battaglia, si limitò ad annunziarla e ad affilare le armi per colui che ne sarebbe diventato il campione: San Tommaso.
Tommaso nacque quattro anni dopo la morte di Domenico, nel castello di Roccasecca, a tre chilometri da Aquino, a mezza strada tra Roma e Napoli. Il padre, il conte Landolfo, di sangue tedesco, era imparentato col Barbarossa e occupava una carica molto importante alla Corte di Federico II, a Foggia. Anche la madre apparteneva a nobile casata, ma la sua origine non era teutonica ma normanna. Di nordico, Tommaso aveva le stigmate somatiche: i capelli biondi, gli occhi celesti, le spalle quadrate, il tronco robusto, il volto largo e un po’ tonto, il portamento grave, che con l’età diventò goffo e pesante. Da ragazzo questo suo aspetto gli aveva valso il nomignolo di «bue muto».
Era chiuso e taciturno e consacrava allo studio e alla preghiera il tempo che i suoi coetanei dedicavano al gioco. Quando, a quattordici anni, si fu diplomato a Montecassino, il padre lo mandò a Napoli, a frequentare quell’università laica e ghibellina che Federico aveva fondato e dove insegnavano i più celebri maestri di diritto e di grammatica d’Europa. S’iscrisse ai corsi di Pietro d’Irlanda, esegeta e illustratore di Aristotele, e ne diventò il pupillo. A diciannove anni, entrò nell’ordine domenicano contro il volere del padre che voleva fare di lui, al pari dei fratelli, un uomo d’arme e di Corte.
Un giorno al castello di Roccasecca giunse la notizia che Tommaso era partito per Parigi dove intendeva perfezionarsi in teologia. I fratelli si lanciarono al suo inseguimento e riuscirono a raggiungerlo prima che passasse in Francia. Lo rispedirono alla madre che lo fece rinchiudere in una segreta del castello dove lo sottopose a un vero e proprio «lavaggio del cervello» e a ogni sorta di tentazioni. Dapprincipio fece ricorso agli argomenti della ragione, poi a quelli, molto più convincenti, per un giovane di vent’anni, della carne. Gli mandò nella cella una bella e procace ragazza completamente nuda. Vedendola, Tommaso brandì un tizzone acceso e con minacce l’obbligò a fuggire. Anche la sorella Marotta tentò di scoraggiare la vocazione di Tommaso, ma dopo aver parlato a lungo con lui, non solo ci rinunziò ma si fece suora. Di fronte a tanta ostinazione, i familiari decisero di liberarlo, forse per timore che trasformasse il castello in un convento. Se fosse rimasto ci sarebbe certamente riuscito. Ma non ci rimase e, riacquistata la libertà, ripartì per Parigi, di dove, dopo un breve soggiorno, raggiunse Colonia.
A quei tempi v’insegnava un celebre monaco domenicano, gran conoscitore della filosofia greca e di Aristotele. Si chiamava Alberto Magno, apparteneva a una nobile e ricca famiglia sveva, aveva studiato a Padova ed era Vescovo di Ratisbona. Tommaso ne aveva sentito parlare all’Università di Napoli da Pietro d’Irlanda. Alberto s’era guadagnato una certa fama commentando, capitolo per capitolo, tutte le opere di Aristotele, nel tentativo di conciliare il pensiero del filosofo greco con quello cristiano. Tommaso ne diventò l’assiduo discepolo, e quando giudicò di saperne abbastanza tornò in Italia per insegnare allo Studio della Corte papale.
Nella Chiesa la corrente per così dire razionalista aveva preso il sopravvento su quella conservatrice o agostiniana, ligia agli antichi padri. Insomma aveva «aperto», e si era arresa al pensiero filosofico classico e pagano. Si metteva al passo con i tempi, che non erano più quelli di Ambrogio, di Agostino e di Gregorio. La Chiesa avvertiva che l’uomo medioevale, dopo il letargo dei secoli bui, s’era svegliato, nuovi problemi l’assillavano, nuove domande gli gremivano la testa, nuovi perché l’agitavano. Spettava a essa rispondere, e non solo con gli argomenti della Fede, che non bastavano più, ma soprattutto con quelli della Ragione, a cui avevano fatto ricorso le eresie. Ma la Chiesa sapeva bene che Aristotele non poteva essere presentato così com’era. Prima bisognava depurarlo degli elementi più difficilmente conciliabili con l’ortodossia. A questo compito designò Tommaso, che ad assolverlo si dedicò con teutonico zelo. Tornò a Parigi dove infuriava la battaglia filosofica tra i seguaci estremisti delle nuove idee e i depositari di quelle vecchie. Dovette vedersela con entrambe le fazioni, contemperarne gli opposti punti di vista e difendersi dagli attacchi del francescano John Peckham che rifiutava in blocco la Ragione, ritenendola inconciliabile con la Fede. Tommaso era un polemista formidabile, cauto, pacato e rispettoso dell’avversario. Non perdeva mai la calma, né faceva ricorso a facili istrionismi. Prima di un dibattito ascoltava la messa, faceva la comunione e si raccoglieva in preghiera. Quando, invece che da una cattedra o da un pulpito, polemizzava da un tavolino, imprimeva alla sua prosa lo stesso flemmatico nitore che contraddistingueva le sue conferenze e le sue prediche.
Era continuamente ossessionato dall’idea di armonizzare la Fede con la Ragione. Un giorno, mentre era seduto alla mensa di Luigi IX il Santo, improvvisamente, nel bel mezzo del banchetto, batté un pugno sul tavolo ed esclamò: «Ecco la risposta ai manichei!». Un vicino, dandogli di gomito, gli fece notare, scandalizzato, ch’era al cospetto del Re. Ma questi cortesemente ordinò a un cameriere di portare in tavola una penna e della carta perché Tommaso potesse appuntarvi l’idea che l’aveva illuminato.
Nel 1272, quando fu chiamato in Italia, le maggiori università gli misero a disposizione le loro cattedre. Tommaso scelse Napoli. Fu nominato professore di teologia con lo stipendio di un’oncia d’oro al mese. Dopo un anno dovette però abbandonare l’insegnamento perché papa Gregorio X lo voleva come esperto al Concilio di Lione, dove si stava discutendo la riunificazione della Chiesa romana con quella greca.
Tommaso si rimise in cammino per la Francia; ma a Teano, cadendo da cavallo, batté la testa contro un tronco d’albero. Lì per lì sembrò trattarsi di un incidente di poco conto, anche perché la ferita non era vasta. Infatti poté quasi subito riprendere la marcia. Ma giunto a Maenza fu colto da improvvisi e violenti capogiri. Fu ricoverato in un castello e visitato da un medico. Dopo alcuni giorni, sentendosi meglio, rimontò a cavallo e s’avviò verso Roma.
A Fossanova fece tappa e fu ospitato nel locale convento, che gli mise a disposizione la cella dell’abate. Qui si sentì di nuovo male e vane furono tutte le cure che i monaci gli prodigarono. Il 7 marzo 1274, all’età di quarantanove anni, Tommaso morì. Il suo cadavere fu immerso in un bagno di acqua bollente e scarnificato. Il colore rossastro che assunsero le ossa fece sorgere il sospetto che Tommaso fosse stato avvelenato. Ma si tratta con tutta probabilità di un sospetto infondato. L’infortunio occorsogli a Teano e la malferma salute furono le vere cause della sua morte, che suscitò profondo cordoglio in tutta Europa, ma specialmente a Parigi, che gli dedicò uno dei suoi quartieri e ne reclamò le spoglie mortali. Esse finirono invece nella chiesa dei Predicatori di Tolosa per essere traslate, dopo la Rivoluzione, in quella di San Saturnino, mutilate di una mano che l’abate di Fossanova aveva donato alla sorella del Santo.
Tommaso lasciò alla Chiesa un’eredità immensa, e non solo dal punto di vista teologico. La Summa, che fu la sua opera di maggior mole, comprende ventun massicci volumi. È una specie d’enciclopedia cattolica in cui l’autore espone tutta la filosofia scolastica. Lo stile è freddo e compassato ma lucido e stringato, privo di scorci poetici e di quei bagliori di sentimento che illuminano, riscaldano e fanno vibrare la prosa di un Sant’Agostino e di un San Girolamo. La Summa si divide in trentotto trattati, seicentotrentuno questioni e diecimila obiezioni riguardanti non solo la teologia ma anche la metafisica, l’ontologia, l’etica, la politica e il diritto.
Tommaso formula il problema sotto forma di domanda, cui risponde prima secondo la Bibbia, poi secondo la dottrina dei Padri e infine secondo la Ragione. Quindi muove a tutte e tre le risposte le obiezioni di un immaginario avversario, e vi risponde secondo il vecchio metodo aristotelico. Tommaso svolge l’argomento contrario alla sua tesi con una pignoleria che testimonia la sua onestà intellettuale. È assolutamente imparziale e non si lascia mai fuorviare o accecare dalla passione religiosa.
La Summa non è un’opera di polemica, come La Città di Dio di Sant’Agostino, ma di conciliazione. Forse, proprio per questo, non è filosoficamente originale. Tommaso infatti più che enunciare nuove dottrine cercò in essa di mettere d’accordo quelle antiche pagane con quelle ufficiali cristiane. Ci riuscì forse perché ebbe tutte le qualità necessarie per svolgere un simile compito: la logica limpida, l’ordine metodico, la misura del giusto mezzo. Nessuno, meglio di lui, seppe ridurre a sistema una così vasta congerie di dottrine contraddittorie.
Eppure quest’uomo, che i posteri battezzarono Dottore Angelico e Serafico, a tre anni dalla morte fu accusato di eresia per aver scritto che gli angeli non hanno corpo, che la materia è il principio delle individuazioni e che senza di essa Dio non può creare la specie. Solo molto tempo dopo fu riabilitato e nel 1323 proclamato Santo. Al Concilio di Trento, che sanzionò la spaccatura del mondo cristiano in cattolicesimo e protestantesimo, la Summa fu posta sull’altare a fianco dei Vangeli, e la filosofia scolastica o tomista (cioè di Tommaso) diventò quella ufficiale della Chiesa. Essa aveva aperto la porta a tutta la cultura classica, che contagiò l’Occidente cristiano arricchendolo e contaminandolo coi suoi pericolosi elementi razionalistici. La scolastica, rimettendo in circolazione la dialettica di Aristotele, recò anche un notevole apporto alla formazione delle nuove lingue nazionali, specialmente a quella francese, conferendo loro l’ordine e la precisione che le caratterizzano.