Epilogo

Alla fine, dopo un mese, Agatha decise di accettare l’offerta di Charles e per una volta tutti i suoi amici furono felici di vederla partire. Era stata irritabile e pungente, si era buttata sul lavoro, sgobbando fino a ora tarda e rifiutando qualunque invito alla socialità. Bill Wong l’aveva pregata di rivolgersi all’associazione che sosteneva le vittime di violenza, ma la risposta di Agatha era stata furente: “Sto benissimo”.

Sembrava quasi si fosse convinta che vivendo in uno stato di rabbia permanente sarebbe riuscita a tenere lontana la paura che Anthony Tweedy tornasse per ucciderla.

Preoccupato per il benessere dell’amica, Charles aveva noleggiato una limousine con autista, un ex poliziotto di nome Dave Tapping, perché l’accompagnasse alla stazione Victoria a Londra. Tapping era un marcantonio e Charles si sentì rassicurato: Agatha avrebbe avuto non solo un autista, ma anche una guardia del corpo.

Lungo la strada per Londra, Dave chiacchierò amabilmente parlando della vacanza che aveva appena trascorso in Florida con la moglie Zoe e i due figlioli Harry e Hannah. Si interruppe quando Agatha scoppiò a piangere, e le porse una manciata di fazzoletti di carta. Era stata sopraffatta all’improvviso dal rimpianto di non essere mai riuscita a sposare un uomo di buonsenso e ad avere figli.

“George Clooney sta per sposarsi a Venezia,” disse Dave, nel tentativo di tirarla su di morale. “È per questo che piange?”

Agatha fece una risatina tirata. “Non è una delle mie fantasie,” disse.

Arrivati a Victoria chiese a Dave se non gli dispiacesse lasciare l’auto e poi scortare lei a piedi fino al treno di lusso Pullman, che sarebbe stato il suo mezzo di trasporto per la prima parte del viaggio. Avrebbe raggiunto l’Orient Express a Calais.

Sistematasi nella carrozza ristorante, Agatha rifletté amaramente che doveva accettare il fatto che i suoi nervi avessero ceduto e che la sua carriera di investigatrice fosse finita.

Però il morbido rollio del treno e la cucina di altissimo livello le risollevarono via via l’umore.

A Folkestone i passeggeri furono accolti da una jazz band tradizionale. Una matrona, rapita, ballava a ritmo di musica. Oh santi numi, pensò Agatha, ecco il ceto medio inglese in azione.

Furono poi informati che a causa di uno sciopero delle ferrovie francesi sarebbero stati fatti salire tutti a bordo di corriere per l’attraversamento della Manica, e che in quel modo sarebbero arrivati fino ad Arras, a metà strada per Parigi. La corriera era una di quelle con i tavolini da quattro posti, senza spazio a sufficienza per le gambe.

Ad Arras, Agatha arrivò che era già stanca e di malumore, ma poi un efficiente steward francese si prese cura di lei e la condusse alla minuscola cabina sull’Orient Express. Decise di cenare con il turno delle dieci di sera e cominciò a tirare fuori dalla valigia un po’ di cose, compreso un abito di velluto nero perché a cena l’abbigliamento formale era d’obbligo. Era un bel treno, tutto legni lucidi e intarsi. Il bagno, un locale ampio, si trovava in fondo al corridoio, e il gabinetto aveva uno scarico antiquato.

Quando quella sera entrò nel vagone ristorante si pentì di non aver scelto di cenare prima, perché i millantatori carburati dall’alcol erano presenti in massa e parlavano con voci alte e latranti, cercando di superarsi a vicenda in snobismo. Però perfino il palato poco sofisticato di Agatha riconobbe nel cibo il migliore che avesse mai assaggiato. Per la prima volta cominciò a rilassarsi e a ruota di questa sensazione arrivò il senso di colpa perché era stata sgarbata con gli amici che cercavano di aiutarla e non aveva ringraziato Charles a sufficienza.

Nel suo scompartimento c’era una piccola pila di cartoline postali omaggio, con l’indicazione che andavano semplicemente consegnate allo steward, il quale avrebbe provveduto a spedirle. Prima di andare a dormire Agatha scrisse a Charles, alla signora Bloxby e ai suoi dipendenti dell’agenzia, ringraziandoli per tutte le premure e dicendo che sentiva la loro mancanza.

Al mattino sollevò la tendina. Fuori c’era il panorama delle alpi svizzere e del lago di Ginevra, placido sotto il sole. L’umore di Agatha migliorò e sentì rinascere in sé le speranze. Magari a Venezia avrebbe incontrato un bell’uomo. Si accomodò per godersi il resto del viaggio.

A Venezia, un assistente dell’Orient Express aiutò i passeggeri a scendere dal treno e ci fu una lunga attesa, bisognava indirizzare bagagli e passeggeri ai rispettivi alberghi. Faceva caldo per essere la fine di settembre. Poi Agatha fu accompagnata a un motoscafo che l’avrebbe portata al suo albergo sul Canal Grande, e lo splendore grandioso di Venezia si aprì davanti ai suoi occhi.

Il motoscafo percorse il canale passando accanto a palazzi antichi, superando le gondole, superando barche stracolme di paparazzi venuti a fotografare il matrimonio tra George Clooney e Amal Alamuddin, e si fermò all’imbarcadero dell’albergo. Charles aveva prenotato una stanza con un balcone che si affacciava sul canale, nella speranza che Agatha avesse un posto dove fumare, ma la finestra si apriva solo per pochi centimetri.

Aveva sentito dire che piazza San Marco era vicina a dove alloggiava, così dopo aver disfatto i bagagli e indossato un abito estivo uscì dal retro dell’albergo, percorse parecchie calli, un ponte, attraversò una zona di botteghe e arrivò sulla piazza. Si trovò un tavolino al sole al Florian, ordinò un gin tonic e le sembrò di essere rinata. Rimpianse che Charles non fosse venuto con lei. Erano già stati in vacanza insieme, in passato. Però a Venezia sarebbe rimasta appena quattro giorni – la generosità di Charles aveva dei limiti – prima di prendere il treno del ritorno. L’orchestra stava suonando vecchi successi come La paloma, i turisti andavano e venivano e Agatha sentì che la tensione stava abbandonando ogni singolo muscolo del suo corpo.

Tornò lentamente in albergo, sentendosi all’improvviso stanca, e andò a letto, dove cadde in un sonno profondo e ristoratore.

Charles stava tentando di mettersi comodo nello studio per leggere un giallo, ma fu distratto da Gustav, che sopraffatto dalla gratitudine per aver ricevuto in dono la motocicletta aveva deciso di sobbarcarsi del lavoro extra, ovvero di sgomberare la libreria e spolverare i libri.

“Oh, ma lascia perdere!” protestò Charles. “Voglio stare un po’ in pace. Prendi quel tuo accidenti di motocicletta e vattene a fare un giro lontano da qui.”

Gustav contrariato ricacciò i libri sugli scaffali e, mentre lo faceva, un piccolo e lucido oggetto nero di forma squadrata cadde sul pavimento. “Questo è suo, sir?” chiese, porgendolo a Charles.

Lui lo fissò inorridito. “È un registratore. Chi lo ha messo qui?”

“A saperlo,” disse Gustav.

“Ma chi ha avuto la possibilità di entrare in casa?”

“Non lo permetto a nessuno. Oh, tranne a quella festa del villaggio. Una vecchia aveva bisogno di andare in bagno.”

Sconvolto, Charles ordinò a Gustav di telefonare alla polizia e partì per l’aeroporto di Gatwick.

L’ultimo giorno di permanenza a Venezia vide Agatha molto stanca, aveva visitato tutto quello che c’era da visitare su e giù per i canali, e si sentiva “morta di turismo”. Aveva scoperto che si poteva fumare in un caffè all’aperto, su una piattaforma affacciata sull’acqua.

Era tarda sera. L’unico altro cliente era un uomo con in testa un panama, seduto accanto al bancone del bar. Questi si girò e fece un cenno con il capo ad Agatha e sorrise. Lei, ancora in allerta, come se ritenesse possibile che Anthony fosse riuscito a seguirla a Venezia, prima si irrigidì e poi si rilassò e ricambiò il sorriso. Il tizio aveva una barba bianca ben curata e occhi di un azzurro brillante. Indossava un abito bianco di lino sopra una camicia a righe con cravatta di seta, ed era di corporatura media, al contrario di Anthony che era massiccio e tozzo.

L’acqua scorreva nel canale. Un gondoliere ritardatario passò con il suo carico di quattro turisti. A causa della forte corrente, le gondole in una direzione viaggiavano veloci ma poi faticavano a risalire il canale. Agatha si era aspettata che l’acqua del canale fosse maleodorante, ma l’unico odore che si sentiva era quello del sigaro che l’uomo si era appena acceso. Il tizio si alzò e andò ad appoggiarsi alla ringhiera lungo il canale. “Ma che mi prenda un colpo!” esclamò. “Guardi là!”

Agatha lo raggiunse alla ringhiera. “Che c’è? Dove?”

“Mi sa che la vista mi ha tradito,” disse lui mestamente. “Avrei giurato che uno stupido stesse nuotando nel canale.”

Agatha scrollò le spalle e tornò a sedersi e a bere il suo brandy. Cominciò a sentirsi letargica, la stanchezza si impadronì del suo corpo e decise che era ora di andare a letto. Fu allora che si rese conto di non riuscire a muoversi. Aprì la bocca per gridare ma non ne uscì alcun suono.

L’uomo con il panama venne a sedersi accanto a lei.

“Incredibili le meraviglie che riescono a fare la chirurgia plastica, le lenti a contatto, una barba e una dieta rigorosa,” disse. L’unica parte ancora funzionante del corpo di Agatha era il cervello. Che ne era stato del suo famoso intuito? Quello era Anthony Tweedy e stava per ucciderla.

“Le ho messo una droga nel brandy,” disse. “È una droga che dà paralisi. Voglio vederla soffrire prima di ucciderla con un’iniezione di eroina, maledetta impicciona che non è altro. Sì. Mi ero rivolto a Jill Davent. Sembrava così facile parlare con lei, e io volevo rivelare il mio segreto a qualcuno, a una persona, a una sola. E poi quella ha cercato di ricattarmi! Una cosa del genere a me! È stato un piacere afferrarla per il collo, girarci attorno una sciarpa e tirare finché non è morta soffocata.

“Lei, signora Raisin, mi preoccupava un po’, per quanto avessi la convinzione che tutte quelle storie sulla sua abilità di investigatrice fossero abbondantemente esagerate. Sapevo chi era Tremund perché prima di uccidere Jill mi ero appostato per vedere chi andava a parlare con lei, e avevo identificato tutti. Tremund aveva accettato di incontrarmi sulla riva del canale perché gli avevo detto di sapere cose compromettenti sul conto di Jill, e così ciao ciao. E ciao ciao anche alla Bannister, a Herythe e a Dell. Si sta annoiando, Agatha? Tra poco la farò finita con lei. Oh, che c’è?”

“Desiderano ordinare qualcos’altro da bere?” chiese il cameriere.

Agatha cercò di fargli in qualche modo un segnale ma erano paralizzati perfino i suoi bulbi oculari.

“No, siamo a posto così.” Anthony posò la mano sopra quella di Agatha.

Il cameriere li lasciò soli e andò a dire ai colleghi che quella simpatica signora inglese aveva trovato un innamorato. Agatha era considerata simpatica perché lasciava mance generose.

Anthony soffocò uno sbadiglio. “Sono stanco. Facciamola finita, e poi me ne andrò in Sudamerica e mi scorderò della sua esistenza.”

Tirò fuori dalla tasca una siringa. Dio, pensò Agatha, salvami e smetterò di fumare.

Anthony tirò a sé il braccio inerte di Agatha. “Belle braccia nude. Mi facilitano il compito.”

In quel momento Charles, sulla soglia del bar, afferrò una bottiglia di champagne dal carrello delle bevande e la lanciò con tutta l’abilità che aveva acquisito giocando, con precisione letale, nei tornei paesani di cricket. Colpì sulla testa Anthony, che si accasciò a terra come un sasso.

Lo staff, inorridito, si affollò davanti alla porta. “Ambulanza!” gridò Charles. “Polizia!”

Prese Agatha tra le braccia. “Che ti ha fatto? Non puoi parlare? Quello è Anthony che ha cambiato faccia?”

Aspettò con angoscia l’arrivo di una motolancia della polizia che accostò rombando all’imbarcadero, seguita dall’ambulanza. Charles insisté per andare con Agatha in ospedale e disse che lì avrebbe reso una deposizione, ma si dichiarò comunque certo che l’uomo che aveva colpito fosse l’assassino ricercato dall’Interpol, Anthony Tweedy.

Charles fu sollevato quando in ospedale scoprì che i parametri vitali di Agatha erano stabili. I medici dissero che per sapere quale droga le fosse stata somministrata si sarebbero dovuti attendere i risultati delle analisi. Però rimase perplesso quando la polizia gli disse di non aver ricevuto alcuna segnalazione che Agatha Raisin fosse in pericolo. Il baronetto era certo di aver chiesto a Gustav, prima di precipitarsi in aeroporto, di telefonare alla polizia.

Anthony Tweedy aveva subito una grave commozione cerebrale, ma sarebbe sopravvissuto. Viaggiava con un passaporto falso, ma quello vero era stato trovato tra i suoi bagagli, sebbene la polizia aspettasse i risultati del test del DNA per avere la certezza che si trattasse veramente di lui.

Anthony riprese conoscenza ma continuò a fingersene privo. Aspettò finché non arrivò un’infermiera a fargli delle spugnature per lavarlo, e un poliziotto aprì il lucchetto della catena che lo teneva vincolato al letto. Attraverso le palpebre semichiuse vide che l’agente di guardia era tornato al suo posto in corridoio. Poi ebbe un colpo di fortuna. Un’altra infermiera mise dentro la testa e gridò che George Clooney e sua moglie stavano passando sul canale a bordo di un motoscafo.

L’infermiera corse via. Anthony si tirò su a sedere. Contro il muro c’era un carrello con i farmaci. Con sforzo sovrumano si alzò dal letto. Sul carrello trovò una siringa e alcuni flaconcini di morfina. Se ne iniettò una dose massiccia, si accasciò lentamente sul pavimento e morì con nelle orecchie le urla di giubilo della folla al passaggio del motoscafo di George Clooney.

Nei giorni successivi Agatha fu più volte interrogata da Wilkes e Bill Wong, che avevano preso un aereo per raggiungerla in Italia, e da parecchi tizi dell’Interpol con le facce da duri affiancati dagli inquirenti italiani, e fu costretta ogni volta a ripetere le stesse cose fino al punto di aver voglia di urlare. La droga paralizzante che le avevano messo nel bicchiere aveva un nome così lungo e complicato che non riusciva mai a ricordarselo. Accolse con sollievo la notizia della morte di Tweedy. Agatha aveva la sensazione che se non fosse morto lei non avrebbe mai smesso di averne paura, perché certamente quell’uomo avrebbe trovato il modo di fuggire.

Finalmente poté lasciare l’ospedale. Riemerse in una Venezia stranamente vuota a confronto con l’ultima volta che aveva visto il Canal Grande. George Clooney era ripartito, portandosi appresso tutta la stampa internazionale e i turisti venuti a godersi lo spettacolo.

Charles aveva suggerito di passare un’altra notte in albergo, si era già trasferito allegramente in camera di Agatha visto che questa conteneva due letti separati, e che lui aveva la sensazione di aver già speso abbastanza per la vacanza dell’amica. Avvalendosi dell’assicurazione di Agatha, il baronetto aveva annullato il viaggio di ritorno in treno e prenotato invece due posti su un volo.

Mentre sedevano insieme al bar, l’ultima sera, Charles guardò il viso sereno di Agatha e per una volta non rimpianse nemmeno un penny delle sterline spese per lei. La vecchia Agatha era tornata. Più tardi Charles ebbe la tentazione di infilarsi nel suo letto, però si trattenne, riflettendo sul fatto che magari lei glielo avrebbe permesso, mossa dalla gratitudine, e non era questo che lui desiderava, anche se poi si chiese come mai all’improvviso gli si stesse risvegliando una coscienza. Agatha gli aveva chiesto perché non avesse avvisato la polizia prima di partire per l’aeroporto. Charles le aveva detto di aver incaricato Gustav di fare quella telefonata. “È meglio che tu lo licenzi,” disse Agatha. “È evidente che quella telefonata non l’ha fatta e per poco io non ci ho rimesso la pelle per colpa sua.”

Tornata a Carsely, Agatha aveva la sensazione d’essere ringiovanita e che nulla sarebbe riuscito più a turbarla. Questo fino a quando la domenica, dopo la messa, la signora Bloxby venne a farle visita per vedere come stava e per farsi raccontare nei dettagli tutte le ultime avventure. Agatha riferì diligentemente quel che aveva vissuto, ma quella storia l’aveva raccontata alla polizia talmente tante volte che la sua stessa voce le risuonava nelle orecchie come un’eco.

“Comunque mi sarebbe piaciuto poter incastrare Gwen Simple per qualcosa,” disse.

“Oh,” fece con riluttanza la signora Bloxby, “ti sei persa il matrimonio.”

“Quale matrimonio?”

“La signora Simple e Mark Dretter si sono sposati nella nostra chiesa. Adesso sono in luna di miele a Dubai.”

“Quindi lui stava facendo piccipucci con me solo per poi riferire ciò che dicevo a quella subdola baldracca!”

“Agatha!”

“Oh, insomma,” fece lei, seccata, “è vero.”

Una volta andata via la moglie del pastore, Agatha si sedette, rimuginando nervosamente. Gwen non solo l’aveva sfangata senza pagare alcuno scotto, ma si era pure accaparrata quel po’ po’ di marito. Ma quella donna non poteva essere pulita, doveva esserci qualcosa.

Magari nella scrivania di Jenny Harcourt a Sunnydale? Non è che magari lì c’era qualcos’altro?

Spinta dalla gelosia, Agatha partì per Sunnydale. Si presentò nuovamente come cugina di Jenny. “La signora Harcourt è a pranzo,” disse un’infermiera. “Le spiace aspettare?”

“Se potessi aspettarla nella sua stanza andrebbe bene.”

“Benissimo.”

“D’accordo,” disse Agatha. “La strada per arrivarci la conosco già.”

Corse leggera su per le scale con le sue nuove scarpe basse. Non aveva promesso a Dio che non avrebbe più portato i tacchi a spillo, però aveva promesso che non avrebbe più fumato, e fino a quel momento aveva rispettato superstiziosamente quel voto.

Agatha aprì lo scompartimento segreto della scrivania. C’era un assortimento da gazza ladra, dai rossetti alla bigiotteria. Era sul punto di arrendersi quando vide una busta quadrata incastrata contro la parte anteriore del cassetto. La tirò fuori e l’aprì. Conteneva un CD. Lo infilò nella borsa proprio nel momento in cui un’infermiera stava facendo rientrare Jenny in camera.

“Oh, eccoti di nuovo qui, mia cara!” gridò Jenny.

“Ti ho portato una cosa,” disse Agatha, porgendole una scatola di cioccolatini.

“Ma che gentile. Jenny adora il cioccolato. E belga, per giunta!”

Gli occhi della donna si fissarono avidi sulla borsetta di Agatha, che si affrettò a richiuderla. Non vedeva l’ora di andarsene. “Mi dispiace, Jenny, devo scappare, non sapevo che tu fossi andata a pranzo e adesso ho un altro appuntamento.”

“Non fa nulla, cara. Tra poco danno in tivù Caccia all’affare. Vai, vai pure.”

Una volta risalita in macchina, Agatha fu sopraffatta dal desiderio di una sigaretta. “Scusami tanto, Dio,” mormorò. Prima di mettere in moto cercò nella tasca della gonna di lino il pacchetto che si portava appresso nell’eventualità che la sua determinazione venisse meno. Si girò a dare un’ultima occhiata all’edificio. In corrispondenza di quella che giudicò essere la stanza di Jenny la finestra era aperta e nell’aria stava fluttuando un filo di fumo azzurrognolo.

Tornata al cottage Agatha infilò il CD nel lettore e poi si sporse in avanti da tanta era la smania. Era una registrazione delle sedute di terapia di Jill. C’era Victoria che confessava di avere affogato il cane, Doris che si lamentava delle spalle, Anthony Tweedy che non stava esattamente confessando ma era impegnato in un lungo e arroventato discorso sull’odio che aveva provato nei confronti del “fratello” e parlava dei timori che il fuoco potesse rivelarsi di natura non accidentale. Agatha ascoltò solo distrattamente la registrazione delle poche sedute successive e poi si irrigidì quando sentì la voce di Gwen Simple. Con delusione sempre più viva udì Gwen lamentarsi del figlio e chiedersi come accidenti avesse potuto fare una cosa così orribile senza che lei, la madre, se ne accorgesse. Non c’era proprio un bel nulla di incriminante.

“Non posso nemmeno consegnarlo alla polizia,” disse Agatha rivolgendosi ai gatti. “Non posso permettere che vengano alla luce i tristi segretucci di questa povera gente.”

Nonostante l’estate indiana sembrasse durare in eterno, Doris Simpson aveva preparato il fuoco in salotto. Agatha lo accese e quando la fiamma si levò ci buttò dentro il disco.

Quella sera infilò nel microonde un pasticcio di carne e purè di patate e quando fu pronto cominciò a spilluzzicarlo, prima di rinunciare e buttare l’avanzo sulle braci ardenti.

Fu ancora una volta assalita da una voglia incontenibile di nicotina. Corse al pub. Si era levata una brezza umida. Il cielo serale era coperto da nuvoloni neri. In lontananza si sentiva un rombo di tuoni, come se lassù dei giganti stessero spostando i mobili di casa.

Al pub prese un pacchetto di sigarette, un bicchiere di vino e un tramezzino al prosciutto e poi attraversò il locale per andare in giardino, salutata solo con freddi cenni del capo. I compaesani stavano cominciando a pensare che la pericolosa presenza di Agatha Raisin stesse facendo scendere il valore delle case di Carsely.

Agatha mangiò il tramezzino e poi aprì il pacchetto di sigarette, ne tirò fuori una e inalò beata. In cielo saettò un fulmine che si abbatté a pochi passi da lei.

Buttò la sigaretta e riattraversò in fretta e furia il pub e corse a casa sotto uno scroscio di pioggia torrenziale.

“Pura coincidenza,” borbottò disperatamente, mentre si cambiava con indumenti asciutti.

Nello stesso momento la signora Bloxby sentì suonare alla porta. “Se è ancora quella Raisin, dille che vada a quel paese!” urlò il pastore.

La signora Bloxby aprì. Sulla soglia c’era un tizio alto, con la faccia seminascosta sotto un largo ombrello. “Sono un vostro nuovo compaesano,” disse l’uomo. “Mi chiamo Gerald Devere.”

“Entri, si levi dalla pioggia,” lo incalzò la moglie del pastore. “Benvenuto a Carsely. Lasci l’impermeabile sull’attaccapanni e mi dia l’ombrello. Venga a mettersi vicino al fuoco. Che serata da lupi. Le andrebbe uno sherry?”

“Sì, grazie.”

La signora Bloxby tornò portando un vassoio con la brocca dello sherry e due bicchieri. Sulla soglia si fermò un istante a studiare il visitatore. Aveva una faccia espressiva e interessante con il naso sottile, begli occhi grigi e strane sopracciglia nere inclinate verso l’alto sotto una folta chioma di capelli neri con pochissimi fili bianchi. Aveva l’aria atletica, il corpo snello era fasciato da un abito grigio scuro di buon taglio.

Una volta riempiti i bicchieri, Gerald si appoggiò contro lo schienale della poltrona con un sospiro di soddisfazione. “Che cosa piacevole.”

“Quale cottage ha preso?” chiese la signora Bloxby.

“Quello del povero signor Dell.”

“È un parente?”

“No, ho comprato la casa da un nipote. Ho abitato a Londra per tutta la vita e ho pensato che mi sarebbe piaciuto andarmi a seppellire in campagna. Sono in pensione.”

“Mi sembra un po’ troppo giovane per essere un pensionato,” osservò la signora Bloxby, valutando che l’ospite dovesse avere sui cinquantacinque anni.

“Lavoravo nella polizia metropolitana di Londra, a Scotland Yard. Ho poi ricevuto un’eredità cospicua. Il crimine mi aveva stancato. Però forse ho scelto il villaggio sbagliato.”

“Oh, ma adesso qui siamo tranquillissimi, c’è pace.” Questo signore andrebbe bene per Agatha, pensò la signora Bloxby. Gerald aveva una voce roca e attraente.

“Mi racconti un po’ di lei, signora Bloxby,” disse l’uomo. “Immagino che debba avere una vita faticosissima, piena di impegni.”

La signora Bloxby sbatté le palpebre stupefatta. A parte Agatha, nessun altro sembrava mai interessarsi alle sue giornate.

“Sempre le solite cose,” disse.

Lui sorrise. “Lo so, fa la psicologa, aiuta le mamme, organizza le feste, dirime litigi, tanta fatica e niente ringraziamenti. Dovrei forse presentarmi a suo marito?”

“Sta scrivendo un sermone. Glielo vado a chiedere.”

La signora Bloxby entrò nello studio del marito e gli disse del visitatore. “Te ne puoi occupare tu, mia cara?” le chiese lui. “Sono presissimo.”

Tornando in salotto Margaret Bloxby passò dal bagno e si guardò allo specchio. I capelli castani striati di grigio erano raccolti sulla sommità del capo. Se li sciolse e li spazzolò prima di tornare da Gerald.

Rimasero seduti a chiacchierare per un’ora mentre fuori il temporale si allontanava lentamente. Alla signora Bloxby pareva di essere ritornata ragazzina.

Gerald se ne andò e dopo un po’ squillò il telefono. Era Agatha. “Ho sentito dire che a Carsely è arrivato un tizio nuovo,” disse.

Se gliene parlo, pensò la moglie del pastore, lei si precipiterà da lui, dopo essersi messa in gran tiro.

Con orrore sentì la propria voce mentire d’istinto. “Chissà chi sarà mai,” disse, arrossendo nel dirlo.

L’indomani mattina in ufficio Agatha apprese da Phil Witherspoon tutte le notizie sul conto del nuovo venuto, però non le fece piacere sapere che a Carsely era piombato un detective, sebbene in pensione. Per quanto la riguardava, l’unica investigatrice sulla scena doveva essere lei.

“C’è un’unica cosa che ancora mi preoccupa,” disse. “Mi piacerebbe sapere chi eredita la proprietà dei fratelli Tweedy. Insomma, in quella famiglia corre una vena di pazzia e vorrei essere certa che non si tratti di un loro parente, pronto a venire a farmi visita con un’ascia. Patrick, è in grado di scoprirlo?”

Si dimenticò quasi del tutto di questa faccenda fino a che Patrick qualche ora dopo le disse: “Agatha, lei sta perdendo il polso di quello che succede in quel suo villaggio, a Carsely. L’eredità è toccata a una quarta cugina piuttosto avanti negli anni, e la signorina è già venuta a dare un’occhiata a casa Tweedy. Il suo nome è Delphinium Farrington”.

“Se quei fuori di testa dei Tweedy sono arrivati a lasciarle tutto, è ragionevole pensare che sia pazza pure questa Farrington. Credevo che le persone non potessero trarre beneficio da un atto criminale.”

“Possono, se non lo hanno commesso loro, o almeno così mi pare,” disse Patrick. “Sebbene io creda che la compagnia di assicurazioni vorrà farsi restituire i soldi.”

“Sa,” disse Agatha, “quando sognavo di trasferirmi in un villaggio dei Cotswolds, mi ero immaginata paesani dalle guance color pesca, le cui famiglie abitavano qui da generazioni, non una serie di nuovi arrivati che ammazzano la gente.”

“Le vecchie famiglie dei villaggi sono state buttate fuori a suon di soldi,” disse Phil.

“Ebbene, non avrebbero dovuto vendere,” ribatté impietosamente Agatha.

Alla fine di un’altra settimana, Agatha aveva deciso di prendersi un sabato e una domenica liberi. Si chiedeva dove fosse finito Charles, ma preferì non chiamarlo. Chissà se aveva licenziato Gustav.

Il maggiordomo era il motivo principale che aveva indotto Charles a non mettersi in contatto con Agatha. Il baronetto aveva riflettuto sul fatto che al giorno d’oggi nessuno disponeva più di una squadra di servitori e Gustav era uno che si faceva carico di un sacco di incombenze. Il maggiordomo giurava e spergiurava di aver telefonato alla polizia, e si era addirittura annotato il nome dell’agente con il quale aveva parlato. Quando alla fine interrogò in proposito Bill Wong, Charles scoprì con sollievo che Gustav aveva chiamato davvero, però aveva contattato la centrale di Mircester invece di comporre il 999 e l’agente da poco assunto che aveva preso la chiamata aveva interpretato l’accento straniero di Gustav come il farfugliamento di un tizio inaffidabile che parlava di chissà quali registratori, e così non si era preso la briga di fare rapporto.

Appresa la notizia, Charles passò dal cottage di Agatha, e non trovandola a casa pensò di fare visita invece alla signora Bloxby.

Trovò seduti nel giardino della canonica Agatha, la signora Bloxby e un tizio che gli fu presentato come Gerald Devere. Notò che Agatha era tutta imbellettata con i colori di guerra ed era circondata da una nube di greve profumo francese. Oh, santi numi, pensò Charles. Ecco qui l’ossessione numero 102.

Poi i suoi occhi curiosi si posarono sulla moglie del pastore. Non l’aveva mai vista con i capelli sciolti e aveva perfino un rossetto rosa. Com’era possibile?!

“Agatha!” disse bruscamente Charles. “Detesto interrompere la festa ma ti devo parlare in privato.”

“Ma qui siamo tutti amici,” disse lei, scoccando a Gerald un’occhiata civettuola da sotto le ciglia abbondantemente spalmate di mascara.

“È una questione privata e molto urgente,” disse Charles.

Agatha acconsentì di malavoglia ad allontanarsi insieme a lui.

“Andiamo al pub,” propose lui. “Ho bisogno di qualcosa di forte.”

“Speriamo solo che tu abbia con te il portafogli,” disse acidamente Agatha.

Una volta seduti al pub, Charles disse: “Lascia in pace Gerald, Aggie”.

“Perché diamine…?”

“La signora Bloxby si è presa una cotta per lui.”

“Ma figuriamoci! Non lo farebbe mai. È una santa, lei!”

“È umana e conduce una vita tristissima. Non succederà niente, non farà alcun passo concreto, Aggie, però consentile di vivere questo piccolo sogno, l’unico che ha, ed evita di calpestarlo con i tuoi tacchi a spillo.”

Agatha aprì la bocca per ribattere seccamente e poi la richiuse. Si era ricordata del rossetto rosa e dei capelli lasciati liberi di ricadere sulle spalle. Come se non bastasse, la moglie del pastore aveva un bel vestito verde di lana che Agatha non le aveva mai visto prima.

Però Gerald era così, sì insomma, così un buon partito. E la signora Bloxby era sposata. Quindi, se Agatha glielo avesse portato via avrebbe salvato l’amica da una catastrofe, da un dolore e magari dalla fine di un matrimonio.

Charles osservò le emozioni muoversi lestissime sulla faccia di Agatha. “Sono tuo amico e mi vuoi bene, vero, Agatha?”

“Ma certo,” disse lei. “Mi hai salvato la vita.”

“Non voglio la tua gratitudine,” la rimbeccò lui. “Io semplicemente voglio che tu non faccia nulla che possa rovinare la nostra amicizia. E competere con la signora Bloxby per me è proprio inaccettabile.”

“Oh, d’accordo,” concesse. “Se lo dici tu.”

Charles se ne andò quando ormai era sera. In chiesa domattina, pensò allegramente Agatha. Gerald domattina a messa ci sarà di sicuro.

Agatha uscì di casa per andare in chiesa in una mattinata di vero autunno – alla fine era arrivato – vestita e truccata in modo più sobrio del solito, nel caso in cui a Charles fosse venuto in mente di controllare se lei stesse obbedendo agli ordini. Per tutto il tempo della messa Agatha litigò con il Dio nel quale credeva solo nei momenti di stress, a proposito di quel suo vizio del fumo, e gli fece notare che in fondo si trattava di un peccatuccio. Non riuscì a vedere la signora Bloxby ma riconobbe l’alta figura di Gerald.

Agatha si fermò all’esterno e aspettò che lui riemergesse. Finalmente Gerald uscì e al suo fianco c’era una signora Bloxby inedita, con i capelli tinti di un ricco color castano e raccolti a coroncina sulla testa. Per di più indossava una pelliccetta ecologica bianca molto carina. Il viso dai tratti gentili era leggermente truccato.

Mentre Agatha si avvicinava a loro, Gerald disse: “Ci vediamo dopo, Margaret,” poi salutò Agatha con un cenno del capo e se ne andò in tutta fretta.

A parlare con la moglie del pastore arrivarono altri parrocchiani e Agatha si allontanò con la mente in tumulto. Sì, se fosse riuscita a portarsi via Gerald avrebbe davvero fatto un favore alla signora Bloxby.

Si rammentò che Doris le aveva preparato un dolce al limone, che lei aveva riposto nel congelatore. Lo avrebbe portato a Gerald come regalo di benvenuto nel villaggio. Lo tirò fuori dal freezer. Era coperto di ghiaccio e duro come un mattone. Lo ficcò nel microonde ma si dimenticò di girare la manopola sulla funzione “scongela”. Quando lo tirò fuori, sembrava mezzo sciolto. Determinata a non farsi fermare da questo intoppo, avvolse strettamente con la pellicola l’ammasso caldo e molliccio, se lo ficcò in borsa e si avviò verso la villa di Gerald. Questi venne ad aprire la porta e rimase a guardarla. “Signora Raisin?”

“Le ho già detto di chiamarmi Agatha,” disse lei con quello che sperava fosse un sorriso conquistatore. “Le ho portato un dolce.”

“Oh, santi numi. Che signore ospitali siete voialtre! Ho così tanti dolci. È sicura di non volerlo tenere?”

“No, la prego, lo prenda.”

“Mi deve scusare. Sono nel pieno di una telefonata importante. Un’altra volta?”

Le prese di mano il sacchetto, rientrò e chiuse la porta.

Ma porca pupazza, pensò furiosamente Agatha. Quella telefonata mi sa tanto di palla. Non è che si comporta così perché la signora Bloxby è lì con lui?

Si allontanò un po’, ma poi la curiosità ebbe il sopravvento. Si avvicinò silenziosamente al lato della villa, sperando di riuscire a sbirciare dentro le portefinestre che si affacciavano sul giardino sul retro.

Si accostò quatta quatta. A parte il proprio riflesso non vide un bel nulla. Si appoggiò con la faccia al vetro e si fece schermo con le mani.

“Ma che diavolo ha intenzione di fare?” disse una voce aspra alle sue spalle.

Agatha sobbalzò innervosita e si girò trovandosi faccia a faccia con Gerald. “Ero nel capanno in giardino e l’ho vista ficcare il naso in casa mia.”

“Me ne stavo andando, ma a un certo punto mi è parso di vedere uno sconosciuto avvicinarsi alla casa, sul lato. Mi è sembrato opportuno andare a controllare,” disse Agatha, disperata.

“Come può vedere, sto bene. Arrivederci.” Gerald girò i tacchi e tornò a grandi passi nel capanno del giardino.

Agatha se ne andò mortificata. Se solo avesse deciso di lavorare, quel fine settimana… Adesso le si parava davanti una lunga giornata vuota, nel corso della quale non avrebbe fatto altro che pensare a quanto era stata stupida.

Entrò nel cottage mentre il telefono stava squillando. Si precipitò a rispondere. Era la signora Bloxby. “Hai mica il tempo di passare qui da me?” chiese. “Vorrei chiederti un parere su una cosa.”

“Ma certo,” disse Agatha, in preda al rimorso. “Arrivo subito.”

Non è che Gerald sarà andato a raccontarle di avermi vista spiare? pensò Agatha. E che cosa potrei dire se Margaret mi confessasse di essere innamorata di lui?”

In canonica, la signora Bloxby fece accomodare l’amica in salotto. Agatha era troppo nervosa per accettare l’offerta di bere qualcosa, e chiese: “Di che si tratta?”.

“Degli orti in affitto.”

“Quelle strisce di terra appena fuori dal villaggio?” chiese Agatha, stupita.

“Sì. Il problema è che appartenevano a un fondo fiduciario che però si è estinto e il terreno adesso appartiene a lord Bellington. Lui vuole vendere a un costruttore che ci realizzerà un complesso residenziale.”

“Se ha il diritto di farlo non vedo come qualcuno potrebbe opporsi,” disse Agatha.

“Però mi chiedevo se tu non potessi creare dell’attenzione attorno a questo caso, e far partire una petizione,” disse la signora Bloxby.

Agatha chiuse gli occhi mentre le tornava incontrollabile alla mente l’orribile ricordo di essere quasi stata sepolta viva in uno di quegli appezzamenti di terra.

Si alzò di scatto.

“Mi spiace, ma a essere sincera credo che farà in tempo a raffreddarsi l’inferno prima che a me torni la voglia di avere a che fare con uno di quegli orti.”

La signora Bloxby rimase lì a fissare, delusa, la schiena dell’amica che usciva dalla canonica e si allontanava attraversando il villaggio.

Agatha Raisin non sapeva che si stava sbagliando di grosso e che quelle maledette strisce di terra sarebbero state la causa di altri omicidi.