Dopo un inverno grigio e triste la primavera portò a Carsely, villaggio dei Cotswolds, fiori, cieli azzurri e brezzoline tiepide.
Però in un punto imprecisato del cuore di un’investigatrice privata di nome Agatha Raisin stava covando una tempesta.
Quando Agatha faceva parte dell’ormai defunta Società delle Dame di Carsely, ogni volta che nel villaggio si trasferiva qualche nuovo abitante lei si prodigava per conoscerlo. Adesso però che il lavoro la teneva lontana dal paese per buona parte del tempo, una domenica, mentre stava portando fuori la spazzatura pronta per il ritiro, Agatha non riconobbe la donna esile che la salutò con un cenno della mano.
“La signora Raisin, giusto?” gridò quella con voce acuta.
Agatha si avvicinò al cancello del suo cottage dal tetto di paglia. “Sono Victoria Bannister,” disse la sconosciuta. “La ammiro molto, sa?”
Victoria doveva avere più di ottant’anni, aveva la faccia allungata, il naso lungo e affilato, e grandi occhi slavati.
“Oh, mi limito a fare il mio lavoro,” disse Agatha.
“Ma ne ha fatta di strada dalla sua misera infanzia,” disse Victoria.
“Quale misera infanzia?” ringhiò Agatha. Era nata e cresciuta in un quartiere malfamato di Birmingham e aveva sempre una gran paura che prima o poi qualcuno sarebbe riuscito a vedere attraverso la nuova patina di sofisticazione, e l’accento coltivato.
“Ho saputo che lei è nata in una famiglia disastrata, che i suoi genitori erano due ubriaconi. Quanto l’ammiro, davvero,” ripeté Victoria, con gli occhi acquosi piantati in faccia ad Agatha.
“Ma si cavi dai piedi!” disse Agatha inferocita e rientrò in casa sbattendo la porta.
Victoria ripercorse tutta contenta Lilac Lane. Stuzzicare le persone le piaceva moltissimo.
Nel cottage, Agatha fissò tetra la propria immagine riflessa nello specchio della sala. Aveva i capelli castani e lucidi, occhietti ursini e una bocca generosa, e pur essendo abbastanza piccola di statura era fornita di gambe lunghe e ben fatte. Negli anni si era rivestita con gli abiti giusti e aveva trovato l’accento giusto. Aveva passato da poco i cinquant’anni, che a quel punto, se lo ripeteva ogni giorno, erano ormai considerati i nuovi quaranta.
Sapeva che il suo ex marito, James Lacey, scrittore di viaggi, era appena tornato dall’estero. James era a conoscenza del passato di Agatha, come lo era anche l’amico baronetto, sir Charles Fraith. Certamente né l’uno né l’altro avrebbero mai fatto pettegolezzi. Aveva già affrontato James su questo tema e lui aveva negato di aver parlato con estranei dell’infanzia di Agatha. Però doveva esserne proprio certa. Quella psicoterapeuta che si era di recente trasferita a Carsely, Jill Davent, era venuta chissà come a conoscenza della vera storia della piccola Agatha. James aveva giurato di non averle mai detto un bel nulla, ma in quale altro modo poteva averlo saputo, quella donna?
Agatha era andata da Jill, spinta dalla gelosia perché James era stato visto farle da cavaliere in giro per il villaggio. Aveva raccontato alla psicoterapeuta una versione altamente romanzata della propria giovinezza, però era fuggita in preda alla collera quando Jill l’aveva accusata di mentire.
“Di questi tempi possono autodefinirsi psicoterapeuti proprio cani e porci,” disse Agatha ai gatti. “Un branco di ciarlatani!”
Puntò sul cottage di James e suonò il campanello. James venne ad aprire la porta e l’accolse sorridendo. “Accomodati, Agatha. Il caffè è pronto. Se devi fumare possiamo berlo in giardino.”
Lei accettò la proposta del giardino, non perché avesse questa gran voglia di fumare, ma perché l’interno del cottage di James, con quell’aria da casa da scapolo, le ricordava immancabilmente quanto poco avesse influito la sua presenza sulla vita di lui, quando erano sposati.
I merli becchettavano sul prato malconcio. Una magnolia in fondo al giardino era sul punto di esplodere nella fioritura, con i boccioli rosa protesi verso il cielo azzurro e terso.
James uscì con due tazze di caffè e un posacenere.
“Qualcuno è andato in giro a spettegolare sul mio conto,” disse Agatha. “Dev’essere stata Jill Davent. Qualcuno ha scoperto il mio passato.”
“Non ho mai capito perché te ne vergogni tanto,” disse James. “Che importanza ha?”
“Per me ne ha eccome,” disse Agatha. “Le classi medie del Gloucestershire sono molto snob.”
“Solo quelle che non vale la pena di conoscere,” disse James.
“Come qualcuno dei tuoi amici? Ne hai parlato con qualcuno?”
“Certo che no. Te l’ho già detto. Non parlo di te con altri.”
Però Agatha vide negli occhi azzurri di James un lampo d’imbarazzo. “Tu hai parlato di me, e anche di recente.”
Lui si passò le dita tra i capelli neri e folti, che solo sulle tempie mostravano un po’ di grigio. James maledisse l’intuito di Agatha.
“Non ho raccontato nulla del tuo passato, però ho portato Jill fuori a cena e lei mi ha fatto un mucchio di domande su di te. Io le ho parlato solamente dei tuoi casi.”
“Sta seguendo Gwen Simple. Sa che mi stavo occupando di quel caso quando ho rischiato di finire in uno dei pasticci di carne sfornati da suo figlio.”
L’ultimo caso del quale Agatha si era occupata aveva riguardato una serie di omicidi alla Sweeney Todd compiuti a Winter Parva. Sospettava che Gwen avesse aiutato il figlio nei suoi crimini, però contro la donna non era stata trovata nessuna prova.
“In realtà è stato più o meno per amor tuo se ho portato fuori a cena non solo Jill, ma anche Gwen.”
Agatha lo squadrò, notando che James con la sua figura alta e atletica era bello come sempre. Jill assomigliava a una lontra stitica, però Gwen Simple aveva un certo non so che, in grado di far cedere le ginocchia degli uomini.
“Quindi come si è giustificata la viscida, infida Gwen?”
“Agatha! Quella povera donna è ancora molto traumatizzata. Ha parlato quasi sempre Jill.”
Gwen probabilmente se ne stava lì seduta con un abito in stile medievale che faceva pendant con i suoi lineamenti, pensò Agatha con amarezza. Non ha nemmeno bisogno di aprire bocca. Lei se ne sta lì e attira a sé gli uomini.
“Jill aveva qualcosa da dire in merito al caso?” chiese. “E io che pensavo che Gwen avesse venduto il panificio e si fosse trasferita altrove.”
“Jill ovviamente non mi rivelerà mai ciò che le ha confidato un paziente,” osservò James. “E Gwen si è trasferita ad Ancombe.”
“Mi sarei aspettata che si allontanasse il più possibile da Winter Parva,” disse Agatha. “Insomma, immagino che molti abitanti di quel paesino la ritengano colpevole.”
“Al contrario, si sono mostrati assai solidali.”
“Ma tu pensa!” disse Agatha Raisin.
Agatha decise di andare a fare visita all’amica Margaret Bloxby. All’improvviso si chiese perché accidenti quella psicoterapeuta si fosse spinta a fare domande sul suo passato. Come al solito la moglie del pastore fu contenta di vederla, sebbene suo marito come al solito non lo fosse affatto. Alf Bloxby corse a chiudersi nello studio sbattendo la porta.
Mentre la signora Bloxby le faceva strada in giardino, Agatha le esternò i propri timori. “Ti vado a prendere un bicchiere di sherry,” disse dolcemente l’amica.
Mentre aspettava che la signora Bloxby tornasse, Agatha cominciò a sentirsi meno tesa. Nel camposanto le giunchiglie ondeggiavano nella brezza, tra le vecchie lapidi. Davanti a lei un merlo cercava vermi nel prato.
La signora Bloxby tornò con una caraffa di sherry e due bicchieri. Dopo aver servito il liquore, disse: “Trovo molto strano che quella tal signorina Davent si sia spinta a frugare nel tuo passato. Si vede che ti considera una minaccia. E se ti considera una minaccia, che cosa avrà mai da nascondere?”.
“Avrei dovuto pensarci,” disse Agatha. “Sto perdendo colpi. E perché ha trasferito la sua attività a Carsely? Certamente in una cittadina avrebbe una clientela più vasta.”
“Io credo che la clientela quella se la crei,” disse la moglie del pastore.
“Che cosa intendi dire?”
“Tanto per dirne una, è passata a farmi visita. Ha buttato lì che per me deve essere bruttissimo non avere avuto figli. Cosa che, tu mi capisci, è un punto dolente. Stava cercando di tirarmi dentro in modo da spingermi a chiederle aiuto. Le ho detto che avevo molto da fare e l’ho messa alla porta. Ognuno di noi ha un punto debole, qualche fragilità. Non mi va di fare pettegolezzi, ma si è creata una bella base di clienti. Vengono dai villaggi qui attorno, oltre che da Carsely. È una donna molto astuta. Tu ti sei talmente offesa per il fatto che aveva scoperto la verità sul tuo passato che non ti sei fermata a riflettere sul perché ti avesse presa così di mira.”
Il lunedì mattina la squadretta di Agatha si riunì per fare il punto della situazione. C’erano Toni Gilmour, bionda, giovane e bella; Simon Black con la sua faccia da giullare; l’ex poliziotto Patrick Mulligan; Phil Witherspoon, gentile e bianco di capelli; e la segretaria, la signora Freedman.
Agatha aveva deciso di smettere di crucciarsi per il proprio miserabile passato e così raccontò ai dipendenti che Jill per qualche motivo l’aveva presa di mira, e che lei si stava chiedendo quale fosse la ragione di questo accanimento. “Abbiamo altri casi sui quali lavorare,” disse, “ma se avete del tempo libero, vedete che cosa riuscite a scoprire sul conto di quella donna. Di questi tempi chiunque può farsi passare per psicoterapeuta senza alcuna qualifica. Non riesco a ricordare se alle pareti avesse appeso qualche diploma.”
“Perché non posso andare semplicemente dalla signorina Davent a chiederle perché l’abbia presa di mira?” disse Phil. “Quella donna negherà, però intanto io potrei dare un’occhiatina alla casa.”
“Buona idea,” disse Agatha.
“Adesso chiamo e vedo se riesco a farmi dare appuntamento già per questa sera,” disse Phil.
“Sarà bene che si porti dietro sessanta sterline,” disse Agatha. “Sono certa che quella consideri ogni visita come un consulto.”
Quella sera Phil si recò al cottage di Jill, essendo riuscito a farsi dare un appuntamento per le otto. Il cottage si trovava lungo la strada che esce da Carsely. Un tempo era stata l’abitazione di un bracciante agricolo ed era un edificio in mattoni rossi, a due piani e con l’aria abbastanza trascurata. Phil, che abitava a Carsely, sapeva che era rimasto sfitto per un po’ di tempo. C’era un giardinetto incolto sul davanti, con un quadrato di erba muschiosa e due cespugli di alloro.
Le tende erano tirate ma Phil riuscì a vedere che le luci della casa erano accese. Suonò il campanello e aspettò.
Jill venne ad aprire la porta e lo scrutò per bene, dalla faccia mite e dalla chioma candida fino alle scarpe lucidissime.
“Si accomodi,” gli disse. C’era un piccolo andito buio. Jill aprì la porta sulla sinistra e fece entrare Phil nello studio. Lui osservò le pareti. Notò la presenza di parecchi diplomi incorniciati. I muri erano dipinti di un verde scuro, e il pavimento era coperto da una moquette di colore simile. Nella stanza c’era una scrivania in mogano sulla cui superficie lucidissima campeggiavano un calamaio in cristallo di epoca vittoriana, un telefono e null’altro. Di fronte c’era una comoda poltrona in pelle e in un angolo una lampada a stelo con il paralume a frange, che diffondeva una luce morbida.
Jill si sedette alla scrivania e con un cenno della mano invitò Phil ad accomodarsi sulla poltrona.
“Come posso esserle d’aiuto?” chiese. Aveva una voce profonda e roca.
“Lavoro per Agatha Raisin,” disse Phil, “e qui in paese sappiamo tutti che lei, signorina Davent, è andata in giro a diffondere notizie sul suo passato di miseria e infelicità. Perché?”
“Perché mi aveva fatto perdere del tempo. Ci sono altre domande?”
“Da lei, signorina Davent, ci si aspetta che sia di aiuto al prossimo,” disse Phil con la sua solita voce gentile. “Non dovrebbe cercare di infangare la reputazione delle persone. Il suo comportamento non è stato degno di una psicoterapeuta coscienziosa.”
“Ma si cavi dai piedi, accidenti!” strillò Jill con improvvisa e sorprendente violenza.
Phil si alzò, si portò una mano al petto aggrappandosi alla scrivania per avere un sostegno e poi crollò a terra.
“Vecchio imbecille,” disse Jill. “Non hai più l’età per lavorare. Meglio chiamare un’ambulanza.” Prese il telefono posato sulla scrivania e uscì dalla stanza.
Phil si rialzò in fretta e furia, tirò fuori una microcamera e fotografò i certificati appesi al muro prima di lasciarsi ricadere a terra e chiudere gli occhi.
Jill tornò e lo guardò. “Con un pizzico di fortuna sei già morto,” disse malignamente e poi uscì dalla stanza. Non si era presa nemmeno la briga di controllare se avesse ancora il battito o di allentargli il colletto.
Phil si alzò una seconda volta e raggiunse silenziosamente l’andito. Sentì la voce di Jill nell’altra stanza ma non riuscì a distinguere che cosa stesse dicendo.
Aprì la porta d’ingresso e ridiscese la collina. Avrebbe stampato le foto e le avrebbe inviate via e-mail ad Agatha.
Quella sera Agatha decise di fare due passi fino al pub per bere qualcosa. Nell’uscire vide che James stava aprendo la porta del cottage a Jill e provò un’amara fitta di gelosia.
In un angolo del pub c’erano tre donne bionde che i locali avevano soprannominato “le mogli trofeo”. Erano sposate tutte e tre con dei ricconi e si diceva in giro che fossero le terze o addirittura quarte mogli. Durante la settimana restavano sole in campagna e ognuna delle tre sembrava desiderare ardentemente di ritornare a Londra. Erano parecchio simili tra loro, tutte con le labbra a canotto, l’abbronzatura da salone di bellezza, gli abiti costosi e i corpi mantenuti snelli a colpi di diete rigorose e di personal trainer.
Ma le donne hanno mariti trofeo? si chiese Agatha. Forse, pensò malinconicamente, adesso che non provava più alcun desiderio nei confronti di James, voleva che comunque lui restasse single in modo da potersi beare della compagnia di un bellone, qualcosa del genere “ma guarda che cosa ho acchiappato”.
La porta del pub si aprì e sir Charles Fraith entrò con fare rilassato, era ben vestito e ben rasato, come al solito ricordava un po’ un gatto con i capelli biondi e lisci e i lineamenti delicati. Il baronetto vide Agatha, si andò a prendere da bere al bar e poi la raggiunse.
“Come va?” le chiese.
“Malissimo.” Lei gli raccontò di Jill Davent.
“Dunque Jill ti vede come una minaccia,” disse Charles. “Che cos’ha da temere?”
“È quello che sto cercando di scoprire,” disse Agatha. “Sono furibonda. Phil è andato da lei, questa sera, e ha scattato alcune foto ai suoi diplomi. Me le sta inviando.”
“Scommetto che hai fatto il gioco di Jill andando in giro a fare scenate,” disse Charles. “Sei una snob antiquata, Aggie. La nostra è un’epoca nella quale chi ha fatto fortuna partendo da umili origini non fa che vantarsene.”
“Non sono affatto snob,” latrò Agatha, e le mogli trofeo ridacchiarono.
“Oh, non ridete troppo forte,” ringhiò lei. “Vi si sta crepando il botox.”
“Ma sei una fonte di imbarazzo ambulante,” disse Charles. “Torniamo al tuo computer e diamo un’occhiata a quelle foto.”
Agatha vide la sacca da viaggio di Charles parcheggiata nell’atrio del cottage e fece una smorfia. Spesso la infastidivano i modi del baronetto, quell’entrare e uscire a proprio piacimento nella sua vita, e a volte, di rado, entrare e uscire dal suo letto.
Si sedettero entrambi davanti al computer. “Eccoci qui,” disse Agatha. “Il bravo vecchio Phil. Vediamo un po’. Una laurea all’Università di Maliumba. Dov’è?”
“In Africa. Basta che paghi, ti rilasciano una laurea su qualunque cosa. L’ho letto una volta su Internet.”
“Un diploma in aromaterapia di Alternative Health a Bristol. Un diploma in Tai Chi.”
“E quello da dove viene?”
“Da Taiwan.”
“Questa Jill è una ciarlatana, Agatha. Lasciala perdere.”
“Non posso, Charles. Jill sta seguendo Gwen Simple come paziente e sarei pronta a giurare che quella donna è stata complice negli omicidi di Winter Parva. Mi piacerebbe vedere se ha qualche precedente penale.”
“Oh, dimentichiamocela, questa tizia maledetta,” disse Charles, soffocando uno sbadiglio. “Vado a letto. Vieni?”
“Più tardi. E andrò nel mio letto.”
Agatha non avrebbe mai ammesso di soffrire di tanto in tanto di solitudine, ma avvertì una piccola fitta dolorosa quando a colazione Charles annunciò con tono noncurante che sarebbe rientrato a casa.
Per il resto della settimana lei e i colleghi dell’agenzia furono molto impegnati e così fu costretta a dimenticarsi di Jill.
Ma il sabato e la domenica arrivò quello che viene definito “un colpo di coda dell’inverno”, portando tempestosi scrosci di pioggia mista a nevischio.
Agatha decise di prendere l’auto per andare a Oxford e concedersi un pranzo degno di tale nome. I suoi gatti Hodge e Boswell le si strusciarono attorno alle caviglie e lei rimpianse di non poterli portare con sé.
Posteggiò a Gloucester Green, trasalendo di fronte alla tariffa cara come il fuoco del parcheggio a pagamento, e poi si avviò a piedi verso Cornmarket. Era la strada principale di Oxford, ed era ignorata nella serie televisiva dell’ispettore Morse, visto che i produttori erano giustamente convinti che i telespettatori volessero vedere le guglie da sogno e i collegi universitari e non folle di gente impegnata nelle compere e grandi catene di negozi.
Agatha aveva pianificato inizialmente di concedersi un pranzo all’Hotel Randolph, invece entrò in un fast food, ignorando la donna con lo sguardo da pazza che le strillò: “Porci capitalisti”. Agatha ordinò un hamburger, patatine e un caffè e si accaparrò un tavolo piazzandosi davanti a due studenti finché questi non furono indotti ad andarsene. Si pentì di non essere andata al Randolph. Era tutta colpa del politicamente corretto e delle persone come quella tizia che le aveva gridato dietro, rifletté. Era quel genere di atteggiamento che ti spingeva a desiderare di comprare una pelliccia di visone, a fumare venti sigarette al giorno e a mangiare in un fast food per puro sfregio.
Si rese conto di essere osservata da un ometto con i capelli grigi seduto dalla parte opposta del ristorante. Quando questi vide che Agatha lo stava guardando, fece un mezzo sorriso e alzò un braccio in segno di saluto.
Lei finì di mangiare, e nell’uscire si fermò al tavolo di quell’uomo. “Ci conosciamo?” chiese.
“No, però siamo colleghi,” disse lui. “Mi chiamo Clive Tremund. Mi piacerebbe che confrontassimo gli appunti. Le andrebbe di lasciar perdere questo posto e andare invece a bere qualcosa? Che ne dice del Randolph? Un po’ di lusso non mi dispiacerebbe.”
Mentre percorrevano Cornmarket, il signor Tremund le raccontò come si fosse di recente trasferito da Bristol a Oxford per aprire un’agenzia investigativa.
Al bar del Randolph, Agatha, che aveva preso nota del suo abito da pochi soldi, disse: “Offro io”.
“Posso metterla in nota spese,” ribatté il signor Tremund.
Agatha aspettò che il cameriere prendesse gli ordini e tornasse con le loro bevande, e poi chiese al collega che cosa avesse voluto dire. “Non mi dica che io sono uno dei suoi casi!”
“L’unico motivo per il quale sto violando il segreto professionale che mi vincola a un cliente,” disse Clive, “è che quella stronza finora non ha scucito un quattrino e ha tutta l’aria di non volerlo fare mai.”
“Ma per caso quella stronza sarebbe una psicoterapeuta di nome Jill Davent?”
“Proprio lei. Ero stato incaricato di scoprire sul suo conto, signora Raisin, tutto quello che mi era possibile. Mi sono procurato il suo certificato di nascita e sono partito da lì.”
“Ma io l’ammazzo, quella! Le ha detto anche perché?”
“Ha detto che era in procinto di sposare un certo James Lacey, il suo ex. Sosteneva che dato che lei, signora Raisin, era riuscita a farsi sposare da Lacey, raccogliendo tutte le informazioni possibili magari avrebbe imparato qualcosa di utile.”
“Io penso che la verità sia che quella donna sta nascondendo qualcosa e vuole tenermi alla larga,” disse Agatha.
“Non le vada a raccontare che noialtri due ci siamo parlati,” disse Clive. “C’è ancora la possibilità che la signorina Davent mi paghi, anche se probabilmente mi toccherà portarla davanti a un giudice di pace. È stata una delle mie prime clienti.”
“Perché ha lasciato Bristol?”
“Ho divorziato. Non avevo voglia di vedere la mia ex moglie in compagnia del suo nuovo tipo. Sono cose che fanno male. E poi ho dovuto procurarmi la licenza per fare l’investigatore privato.”
“L’ho appena presa anch’io,” disse Agatha. “Come vanno gli affari?”
“In crescita. Studenti scappati di casa, studenti che si drogano, parenti ansiosi, cose così.”
“Che impressione le ha fatto quella Davent?”
“Mi è sembrata abbastanza a posto finché non le ho consegnato quel rapporto su di lei, a quel punto si è mostrata felice in un modo maligno. Le ho chiesto di essere pagato secondo la mia tariffa e lei ha preteso che indagassi ancora. Mi ha detto che il suo primo marito era stato assassinato e che magari la polizia aveva commesso un errore, e in realtà a ucciderlo era stata lei, signora Raisin. Io non ho poi fatto nulla. Le ho spedito una e-mail dicendo che finché non mi avesse pagato non avrei potuto proseguire con le indagini. Prima di trasferirsi a Carsely la signorina Davent aveva uno studio a Mircester.”
“La pagherò io, invece,” disse Agatha. “Mi faccia avere una dichiarazione scritta sulle motivazioni che Jill le ha dato, quando l’ha ingaggiata.” Tirò fuori il libretto degli assegni. “La pago subito, anche.” Scribacchiò un assegno e lo porse a Clive.
“È stata generosa,” disse lui. “Mi auguro di non rivedere più quella donna, se non in tribunale, magari. Mi mette i brividi.”
Agatha tornò a Carsely e lungo il tragitto sentì montare la collera. Quando imboccò la strada che scendeva al villaggio e al cottage di Jill, si trovò il passo sbarrato da una vecchia Ford che procedeva in mezzo alla carreggiata. Suonò furiosamente il clacson, ma l’auto proseguì al centro della strada a venti miglia all’ora.
Al volante c’era Victoria Bannister. Alla fine la signora Bannister vide che Agatha stava accostando davanti a casa di Jill, e si fermò poco più avanti. Con il lungo naso fremente per la curiosità, Victoria decise di cercare di scoprire che cosa avesse intenzione di fare Agatha.
La finestra dello studio di Jill era aperta e la voce di Agatha ne uscì forte e chiara.
“Come hai osato assumere un investigatore per ficcare il naso nella mia vita? Lasciami in pace, altrimenti ti ucciderò. Ma prima di ammazzarti, razza di inutile sacchetto della spazzatura che non sei altro, ti denuncerò per violazione della mia privacy.”
Jill disse: “Ma che bella barzelletta, raccontata da una che si guadagna da vivere facendo esattamente questo”.
Agatha uscì di furia mentre Victoria correva lungo la strada per tornare all’auto, e ripartire, questa volta, a una velocità di cento chilometri orari.