«Scoprimmo un modo per fare ancora meglio», racconta Jim Mitchell, presidente della IDS Life, la divisione assicurativa dell'American Express, che già allora era la compagnia operante nel ramo vita in più rapido sviluppo nel paese. Mitchell scoprì un'opportunità – una grossa opportunità. Nonostante i piani finanziari dei clienti dimostrassero che essi avrebbero dovuto stipulare una polizza vita, più di due su tre evitavano di farlo. La grande perdita di vendite potenziali non era un fenomeno temporaneo: le analisi delle vendite relative a diversi anni portavano alle stesse conclusioni.
La possibilità di aumentare le vendite era talmente grande che Mitchell istituì la propria operazione «Skunkworks» per trovare «qualcosa di decisamente nuovo che rendesse le polizze vita più convincenti agli occhi dei clienti.»10-1
Il loro primo passo fu un'indagine dettagliata di ciò che i consulenti e i clienti davvero sentivano relativamente alla vendita e all'acquisto di una polizza vita. La risposta, in una sola parola era: terribile.
L'indagine liberò, da entrambe le parti, un impressionante sfogo di sentimenti negativi. Il team si aspettava di scoprire qualche grave pecca nei prodotti – nelle polizze vita – offerti dalla compagnia, e invece scoprì che il problema aveva a che fare con il processo stesso di vendita. Si riduceva tutto a incompetenza emotiva.
I clienti dissero che non avevano fiducia nel rapporto di vendita con i consulenti, e che il solo pensiero di stipulare una polizza li faceva sentire «impotenti, male informati, inadeguati e sospettosi». La negatività era diffusa anche fra quei clienti che poi, effettivamente acquistavano la polizza. Il problema non stava nella paura della morte, nei costi o in un qualsiasi altro aspetto delle polizze; anzi, i clienti si dichiaravano perfettamente soddisfatti dei prodotti che venivano loro offerti. Piuttosto, era l'interazione con i venditori a mandare a monte tutto. C'era poco da meravigliarsi: molti consulenti confessarono che, mentre proponevano le polizze vita si sentivano «non qualificati, incompetenti, poco sinceri ed egoisti». Desideravano moltissimo sentirsi più fiduciosi e basarsi su dei principi. Molti di loro asserirono di lavorare sotto il peso della cattiva reputazione che circonda gli agenti assicurativi il generale, e che i giri di telefonate per stabilire nuovi contatti stavano in realtà alimentando un serbatoio di impotenza e depressione. Quando un cliente mostrava ansia o disagio, il buonsenso comune circolante nel settore sosteneva che la risposta migliore stesse non tanto nell'empatia, ma nell'opporre un'argomentazione razionale. Perciò ai consulenti non restava che cercare di mettere a tacere le emozioni del cliente, come pure le proprie. «Ai nostri consulenti era stato insegnato che se un cliente aveva una reazione emotiva, si trattava di una forma di resistenza – e quindi occorreva spiegargli le cose in modo logico, producendo altre cifre e ignorando i suoi sentimenti», spiega Kate Cannon, già membro del team Skunkworks e oggi responsabile dei programmi di competenza emotiva presso la American Express Financial Advisors.
In breve, i sentimenti che si agitavano nei clienti e nei consulenti davano all'incontro un pessimo tono emotivo; come si legge in un rapporto finale, «una montagna di negatività emotiva si ergeva fra il nostro processo di vendita e i nostri profitti».
Idealmente, i consulenti avrebbero potuto stabilire un tono emotivo più positivo, ma prima dovevano venire alle prese con il proprio stato di instabilità. Come disse uno di loro, «possiamo spendere milioni nella ricerca e nello sviluppo dei prodotti, ma se poi la loro collocazione è ostacolata dalle nostre limitazioni personali, che cosa abbiamo ottenuto?»
Come abbiamo visto nel Quarto Capitolo, il rimedio prese le mosse da un potenziamento della consapevolezza di sé dei consulenti. E questo processo portò alla luce quello che divenne poi noto come fattore «nausea». «Analizzammo la "nausea" sul lavoro – tutte le battaglie emotive fonte di disgusto e sofferenza che le persone affrontavano quotidianamente», mi spiegò Cannon.
L'elenco delle fonti di «nausea» era formidabile. Fra l'altro comprendeva:
• I rifiuti dei clienti – vissuti come demoralizzanti. Una serie di rifiuti poteva portare a pensieri catastrofici come «Non sono in grado di farlo – perderò il lavoro… Non sarò mai in grado di mantenermi.»
• Il volume di informazioni sui prodotti – da solo, bastava a generare un senso di sopraffazione in alcuni consulenti.
• La natura imprenditoriale del lavoro del consulente, in cui le entrate dipendono dalle vendite, spaventava molti di essi, che temevano di non riuscire a mantenersi.
• Le lunghe giornate di lavoro necessarie per farsi una solida posizione angosciavano alcuni consulenti per via dello squilibrio fra il tempo dedicato al lavoro e quello disponibile per la famiglia.
Ma per ogni problema emotivo esisteva un rimedio: una capacità che poteva essere acquisita, un atteggiamento da modificare. La soluzione fu, essenzialmente, quella di potenziare il livello di competenza emotiva dei consulenti.
Un consulente competente sul piano emotivo, per usare le parole di un analista della compagnia, «conserva la fiducia, è elastico nelle avversità, e agisce in base a principi e valori profondi». La logica è che i consulenti guidati dai propri principi, e non dalle pressioni a vendere, entravano in relazione con i clienti in un modo che ispirava fiducia. Mettendo il cuore nel lavoro, avrebbero saputo essere più convincenti. E controllando meglio le proprie paure e le proprie frustrazioni, sarebbero riusciti a resistere agli insuccessi. Le vendite sarebbero state un risultato naturale della loro migliorata capacità di soddisfare le esigenze dei clienti.
Gli stessi consulenti erano d'accordo; molti affermarono che, per loro, la competenza emotiva era l'ingrediente segreto del successo o del fallimento.
Fin dall'inizio, il team incaricato di valutare la situazione decise di concentrarsi solo su alcune competenze emotive. Essi sapevano che i consulenti non avrebbero potuto dare il giusto tono all'interazione, né affrontare le emozioni dei loro clienti finché non fossero stati in grado di dominare le proprie.
«Io sono una testa calda», mi confida Sharmayne Williams, consulente finanziaria presso la sede di Chicago dell'American Express. «Ero estremamente emotiva – mi prendevo tutto a cuore e avevo reazioni forti. Questo influenzava molto negativamente le mie relazioni con la gente in ufficio: se non vedevano le cose a modo mio, diventavo matta. O si faceva come dicevo io, o niente; non riuscivo a vedere le cose dalla loro prospettiva, non sapevo scendere a compromessi.»
Questa mancanza di autocontrollo emotivo giocò a sfavore di Williams. «Mi impedì di fare carriera, mi ostacolava quando dovevo prendere delle decisioni», mi raccontò. «Se c'era qualcosa che mi turbava, non riuscivo a passare al progetto successivo. Tutto questo mi è costato del denaro.»
Williams era stata per otto anni un agente di cambio autorizzato prima di andare a lavorare per la American Express Financial Advisors; un anno dopo, quando fece il suo primo training in competenza emotiva, fu una rivelazioni: «Non avevo mai incontrato, prima, niente di simile. Era il tassello mancante».
Il programma, afferma Williams, ha cambiato la sua vita. «Mi rendo conto di come le mie emozioni mi controllassero. Ora, se qualcosa mi infastidisce, ne parlo con il mio socio, la scrivo sul mio diario, ne discuto senza tanti complimenti con il mio vicepresidente regionale. Faccio saper loro che ho un problema – non lo lascio incancrenire. Sono più conciliante. Mi rendo conto che puoi avere tutte le emozioni possibili, ma non devi permettere che siano loro a manovrarti.»
Williams ha trovato dei sistemi per controllare la tensione. «Ora, quando la sento montare, me ne vado alla scuola di danza che sta nello stesso edificio, e mi alleno un po'. Il rilassamento fisico mi tranquillizza per giorni.»
Adesso Williams, che ha sempre avuto un alto rendimento, sta ottenendo risultati ancora migliori. Durante il suo primo anno all'American Express ha venduto per circa 1,7 milioni di dollari. Nel suo secondo anno, mi racconta di aver raggiunto i 2,4 milioni e di essere ancora sulla strada del miglioramento.
Il punto sta proprio nel miglioramento. Nella prima fase-pilota del programma, i consulenti che si erano sottoposti al training realizzarono, rispetto all'anno precedente, un aumento del volume delle vendite compreso fra l'8 e il 20 per cento: significativamente di più dei gruppi di riferimento che non si erano sottoposti all'addestramento, e ottenendo comunque risultati migliori rispetto alla media della compagnia.
«I risultati del programma ci hanno soddisfatti al punto che lo abbiamo incluso nel normale training per i nuovi venditori, e abbiamo anche deciso di proporlo ai manager e ad altre persone che occupano posizioni di leadership», mi disse Doug Lennick, vicepresidente esecutivo della American Express Financial Advisors. Tutto questo rappresenta per Lennick un trionfo personale, dal momento che egli ha sempre difeso il programma per l'acquisizione della competenza emotiva.
Quando Lennick assunse la direzione della forza vendite dell'American Express Financial Advisors estese il programma e lo offrì a una fascia più ampia di utenti. Oggi il training dura due giorni – che si concentrano sulla consapevolezza di sé, sulle capacità interpersonali e sull'abilità di far fronte alle situazioni – seguiti poi da un'altra sessione di tre giorni, a distanza di qualche settimana o di qualche mese. Il programma è diretto a tutti i nuovi consulenti finanziari e ai nuovi supervisori, come pure ai membri dei gruppi dirigenti impegnati nel settore delle vendite, ad altri team leader e ai loro diretti sottoposti.
Per Lennick, il successo del programma sulla competenza emotiva conferma una concezione che egli sostiene da tempo, e cioè che il ruolo del consulente finanziario dovrebbe essere meno simile a quello del tradizionale venditore e avvicinarsi di più a quello di un consigliere di fiducia con il quale si stringe una relazione a lungo termine.
«Non ho mai pensato che i clienti volessero una relazione con cinque o sei consulenti, ma piuttosto che preferissero avere un rapporto duraturo con un solo interlocutore», afferma Lennick. «I consulenti che hanno le relazioni migliori con i propri clienti non si limitano ad aiutarli a realizzare i loro obiettivi finanziari: li aiutano a pianificare la propria vita. Questa è una revisione radicale del loro ruolo, che comporta quindi non solo di aiutare il cliente a mantenersi finanziariamente sano, ma anche a vivere in linea con i propri scopi.»
Lennick afferma: «Abbiamo dimostrato che se si aiutano le persone ad affrontare le proprie emozioni, esse avranno un maggior successo professionale senza compromettere i propri valori personali».
Come dice Sharmayne Williams: «Essere una persona controllata e che ispira fiducia mi aiuta con i miei clienti». Le relazioni emotivamente intelligenti rendono bene.
Alla Promega, una compagnia che lavora nel campo delle biotecnologie con sede a Madison, nel Wisconsin, un gruppo di scienziati si riunisce ogni giorno per praticare un metodo di concentrazione e rilassamento – una forma particolare di attenzione – che ha imparato nel corso di un programma di training di otto settimane. Gli scienziati affermano che con quel metodo si sentono più calmi, concentrati e creativi.
Benissimo. Ma quel che è ancora più impressionante è che i ricercatori hanno documentato alcuni cambiamenti positivi nella funzione cerebrale degli scienziati come diretto risultato dell'addestramento alla pratica dell'attenzione. Il loro lobo prefrontale sinistro – l'area del cervello che sopprime i sequestri emotivi innescati dall'amigdala e genera sentimenti positivi – è diventato significativamente più attivo di quanto non fosse prima del programma.10-2 La loro sensazione di essere mentalmente più pronti e rilassati non è dunque una mera illusione, ma scaturisce da una modificazione che ha avuto luogo a livello cerebrale. Tale modificazione è analoga a quella riscontrata negli individui più elastici e adattabili a condizioni di stress (come abbiamo visto nel Capitolo Quinto). Questo risultato indica che quando si rafforza una competenza come l'autocontrollo, lo stesso potenziamento ha luogo nei circuiti cerebrali corrispondenti.
Tutte le competenze emotive possono essere coltivate, con il giusto esercizio. Consideriamo, ad esempio, le persone descritte nel Secondo Capitolo, che non avevano ottenuto buoni risultati nei test sull'empatia. Quando venne chiesto loro di leggere i sentimenti di uomini e donne videoregistrati – con l'audio indistinto – mentre manifestavano reazioni spontanee (gioia, rabbia e così via), essi esitarono e sbagliarono. Ma quando, dopo ciascuna delle loro ipotesi, costoro ricevettero un feedback su ciò che le persone riprese nel video stavano realmente provando, la loro accuratezza empatica migliorò sensibilmente.10-3 Perfino un feedback minimo e immediato sull'accuratezza emotiva ha una ripercussione sorprendentemente importante sull'empatia in altre situazioni.10-4
Le buone notizie, dunque, stanno nel fatto che l'intelligenza emotiva – a differenza del QI – può essere migliorata per tutta la vita. In modo al tempo stesso fortunato e inatteso, la vita sembra offrirci una possibilità dietro l'altra per affinare la nostra competenza emotiva. Nel normale corso di una vita, l'intelligenza emotiva tende ad aumentare via via che impariamo a essere più consapevoli dei nostri stati d'animo, a controllare meglio le emozioni che ci fanno soffrire, ad ascoltare e a empatizzare – in breve, via via che diventiamo più maturi. In larga misura, la maturità stessa consiste nel processo attraverso il quale diventiamo più intelligenti per quanto riguarda le nostre emozioni e le nostre relazioni.
In un confronto fra diverse centinaia di adulti e adolescenti, effettuato da John D. Mayer – lo psicologo dell'Università del New Hampshire che sviluppò la teoria pionieristica dell'intelligenza emotiva insieme a Peter Salovey, di Yale – gli adulti risultarono in genere migliori.10-5 Una valutazione, effettuata da Reuven Bar-On, dell'intelligenza emotiva in più di tremila uomini e donne – di età diverse, dall'adolescenza ai sessant'anni – riscontrò un aumento piccolo, ma costante e significativo, nel passaggio da una fascia di età all'altra, con un picco fra i quaranta e i cinquant'anni.10-6 Come conclude Mayer, «l'intelligenza emotiva si sviluppa con gli anni e l'esperienza, dall'infanzia all'età adulta».
Quando si tratta di coltivare le competenze emotive, la maturità resta un vantaggio –- i giovani possono risultare meno adattabili. Ad esempio, in uno studio che valutava la capacità di padroneggiare nuovi livelli di competenza emotiva mostrata dai partecipanti a un programma di scienze aziendali, tutti di età compresa fra i venti e i sessant'anni, i miglioramenti più cospicui ebbero luogo negli individui di età pari o superiore a ventinove anni, rispetto a quelli che ne avevano meno di venticinque.10-7
Resta da vedere se questo risultato possa essere estrapolato ad altri gruppi. Tuttavia esso dimostra che, purché siano motivati, gli individui più anziani possono essere bravi come i più giovani, o addirittura migliori, nel padroneggiare nuovi livelli di queste capacità.
Uomini e donne sembrano ugualmente in grado di migliorare la propria intelligenza emotiva. Sebbene le donne tendano a essere più dotate nelle competenze basate sull'empatia e le abilità sociali, e gli uomini in quelle imperniate sul controllo di sé, lo studio già citato sui partecipanti al programma di scienze aziendali ha messo in luce che entrambi i sessi possono migliorare nella stessa misura, indipendentemente dal loro punto di partenza in una data competenza.
Questa possibilità di miglioramento pone l'intelligenza emotiva in netto contrasto con il QI, che rimane in larga misura immodificato per tutta la vita. Mentre le capacità puramente cognitive rimangono relativamente costanti, le competenze emotive possono dunque essere apprese in qualsiasi momento della vita. Non ha importanza quanto insensibile, timido, irascibile, goffo o desintonizzato possa essere un individuo – con la motivazione e uno sforzo adeguato potrà coltivare la propria competenza emotiva.
Ma come?
Consideriamo il caso di Henry e Lai, che cominciarono a lavorare ai Bell Labs pressappoco nello stesso periodo, più o meno con le stesse credenziali, una laurea in ingegneria elettrica. Entrambi avevano conseguito una media di diploma di 3 8 presso università prestigiose, ed erano accompagnati da espansive raccomandazioni dei loro professori. Entrambi avevano fatto degli stage estivi presso aziende che trattavano computer.
Ma fin dal momento in cui misero piede ai Bell Lab, ogni somiglianza svanì. Henry si comportava come se non avesse mai lasciato l'università: restava incollato allo schermo del computer, divorando con avidità la documentazione tecnica e imparando nuovi programmi. Si isolava – i suoi nuovi colleghi riuscivano a vederlo raramente, salvo che in occasione delle riunioni. Pensava: «In questo lavoro, è l'esperienza tecnica che conterà per me più di ogni altra cosa».
Lai assunse un approccio diverso. Anche lei si assicurava di dedicare un tempo sufficiente al proprio lavoro. Ma il tempo libero lo impiegava per conoscere i suoi colleghi, per scoprire i loro interessi, i loro progetti, le loro preoccupazioni. Quando avevano bisogno di una mano, lei era pronta a offrire la sua – quando qualcuno doveva istallare un software nuovo e poco maneggevole, si offriva di farlo lei. Pensava: «Uno dei modi migliori per essere accettata nel gruppo è quello di dare una mano».
Dopo sei mesi di lavoro, Henry aveva dato prestazioni tecniche leggermente migliori, ma Lai era vista da tutti come una capace di prendere l'iniziativa e di lavorare bene in team – e aveva già imboccato la strada più veloce per far carriera. Henry non si era reso conto del fatto che stringere dei legami fosse una competenza essenziale per il suo lavoro; si sentiva più a suo agio da solo. I suoi colleghi capivano che tecnicamente era in gamba, ma non erano molto fiduciosi che fosse in grado di fare un buon lavoro di squadra.
Lai si dimostrava eccellente in diverse competenze emozionali, ma anche Henry, se voleva mettere a pieno profitto i suoi talenti tecnici, doveva riuscire a dominarle. Come si fa ad aiutare uno come Henry a migliorarsi?
Robert Kelley, della Carnegie-Mellon University, che racconta il caso di Henry e Lai, spiega che quest'ultima aveva appreso alcune strategie tipiche degli individui capaci di prestazioni eccellenti, ad esempio l'abilità di stringere legami e di prendere l'iniziativa.10-8 Ma il suo comportamento non si basava solo sulla conoscenza di una strategia vincente – l'abilità nel mettere in pratica una strategia come la cooperazione e la formazione di reti informali dipende infatti dalla competenza emotiva necessaria. Affinché uno come Henry apporti i necessari cambiamenti, non basta che ne comprenda l'utilità sul piano intellettuale. La semplice conoscenza del fatto che gli servirebbe stringere delle relazioni probabilmente non basterà a smuoverlo dal suo ufficio – né, se ci provasse, gli darebbe la capacità di farlo.
Esiste una differenza essenziale fra conoscenza dichiarativa – conoscere un concetto e i suoi dettagli tecnici – e la conoscenza procedurale – essere in grado di tradurre quei concetti e quei dettagli in azione. Conoscere non equivale a fare – non importa se si tratta di suonare il pianoforte, di guidare un team o di agire sulla base di un consiglio essenziale al momento giusto.
Uno studio sul training dei manager in una catena di supermercati rilevò una minima correlazione fra la conoscenza che essi avevano delle competenze oggetto del corso e il modo in cui si comportavano quando tornavano nei loro negozi. Molti di costoro uscivano dal programma con un elevato livello di comprensione su quello che avrebbero dovuto fare una volta tornati al lavoro – solo che una volta là proprio non ci riuscivano. La comprensione intellettuale di una competenza è probabilmente necessaria, ma di per se stessa non basta a dar luogo a una modificazione del comportamento.10-9
Il fatto che un individuo abbia una comprensione a livello cognitivo del da farsi non ci dice assolutamente se egli sia o meno pronto a cambiare il suo modo di agire, né ci informa sulla sua motivazione o sulla sua capacità di cambiare; e neppure sul metodo col quale quella persona potrà cambiare stile o sul suo livello di padronanza della nuova capacità. Per aiutare qualcuno a dominare una competenza emotiva occorre una nuova comprensione del modo in cui impariamo.
Come afferma una delle fonti più spesso citate sul training e lo sviluppo del personale, coloro che si occupano di formazione «hanno avuto la tendenza a considerare tutto il training alla stessa stregua, senza prenderne in considerazione lo scopo o il tipo di apprendimento implicato».10-10 Per la competenza tecnica e cognitiva, la conoscenza dichiarativa può essere sufficiente – ma non per l'intelligenza emotiva. È ora di smettere di fare di tutta l'erba un fascio; dobbiamo usare la nostra nuova comprensione del funzionamento del cervello per compiere distinzioni significative e di valore pratico – e per promuovere un reale apprendimento della competenza emotiva.
Insegnare qualcosa su una competenza – in altre parole fornire una comprensione intellettuale dei concetti implicati – può sembrare l'approccio più semplice al training, ma se lo si confronta con gli altri che discuterò fra breve, produce un effetto minimo a livello di reale cambiamento della prestazione. La comprensione intellettuale è un processo-soglia, necessario per apprendere, ma non sufficiente a produrre un miglioramento duraturo. Un cambiamento profondo esige la riorganizzazione di abitudini di pensiero, sentimento e comportamento ben radicate.
Consideriamo il caso di Henry, l'ingegnere troppo riservato dei Bell Labs, che non si avventura fuori del suo ufficio e non parla coi colleghi. Perché si comporta così?
Il suo isolamento potrebbe esser dovuto alla timidezza, oppure all'inettitudine sociale, o semplicemente alla mancanza di esperienza nel lavoro di squadra. Quale che sia la causa specifica del suo isolamento, Henry è vittima di un'abitudine appresa. Con tempo e impegno, ciò che è stato imparato può essere disimparato, e si può apprendere un'abitudine più efficace. Questo apprendere e disapprendere avviene a livello delle connessioni cerebrali.
Mentre acquisiamo il nostro repertorio abituale di pensiero, sentimento e azione, le connessioni neurali alla base di quel repertorio vengono rafforzate, diventando le vie di trasmissione preferenziali degli impulsi nervosi. Mentre le connessioni che non vengono usate si indeboliscono e vanno addirittura perdute, quelle continuamente usate si fanno sempre più robuste.10-11
Fra due risposte alternative, prevarrà quella che si avvale della rete di neuroni più ricca e più forte. Quanto più spesso quella risposta avrà luogo, tanto più importanti diventeranno le vie che la sostengono. Una volta che le abitudini sono state bene apprese, attraverso infinite ripetizioni, per il cervello i circuiti neurali che le sostengono assumono il carattere di opzioni default, in altre parole, noi agiamo in modo automatico e spontaneo.
Le competenze possono essere considerate un insieme di abitudini coordinate: quel che noi pensiamo, sentiamo e facciamo per portare a compimento un lavoro. Quando quest'abitudine è disfunzionale, sostituirla con una più efficace richiede che quest'ultima venga sufficientemente esercitata – e che l'altra venga inibita – affinché i circuiti neurali legati al vecchio comportamento appassiscano (gli psicologi parlano di «estinzione») mentre quelli associati al comportamento migliore diventano sempre più robusti. Infine, l'abitudine migliore sostituirà quella vecchia assumendo il ruolo di risposta automatica nelle situazioni-chiave.
Pertanto, il test definitivo per questo tipo di apprendimento – per questo ricablaggio – di una competenza emozionale sta nell'osservare la reazione automatica di un individuo nel momento cruciale. Il test per capire se un tipo come Henry si è impadronito dei fondamenti della cooperazione e dell'arte di stringere legami avrà luogo in situazioni in cui egli si troverà di fronte a una scelta: restare nel suo ufficio sgobbando da solo su un. problema, o uscire e andare a consultare diversi colleghi che abbiano le informazioni e l'expertise necessari? Se egli uscisse spontaneamente dal suo ufficio per avvicinare un collega – e lo facesse in modo efficace – allora significherebbe che ha acquisito la nuova abitudine.
Un ricercatore che lavora per il governo degli Stati Uniti presso l'Ufficio per la Gestione del Personale, mi sta informando sui risultati di un'imponente analisi sulle competenze necessarie in un'ampia gamma di posizioni amministrative. «Il training relativo alla parte tecnica del lavoro è facile – ma è molto più difficile insegnare a essere flessibili, a dimostrare integrità, a essere coscienziosi o abili nelle relazioni interpersonali.»
L'addestramento tecnico è semplice se paragonato a quello necessario allo sviluppo dell'intelligenza emotiva. Tutto il nostro sistema educativo s'ingrana su abilità cognitive. Ma quando è il momento di insegnare le competenze emotive, esso è penosamente carente. Capacità come l'empatia o la flessibilità differiscono in modo essenziale dalle abilità cognitive – si basano su aree cerebrali diverse.
Le abilità puramente cognitive hanno sede nella neocorteccia, il cervello «pensante». Ma nel caso delle competenze sociali e personali, entrano in gioco altre aree cerebrali, e principalmente i circuiti che collegano i centri emotivi – in particolare l'amigdala – situati in profondità nel centro del cervello, con i lobi prefrontali, che sono il centro esecutivo del cervello. L'apprendimento delle competenze emotive comporta una riaccordatura di questi circuiti.
Poiché l'apprendimento intellettuale differisce in modo fondamentale dalla modificazione di comportamento, i modelli di educazione sono significativamente diversi nei due casi. Per le capacità intellettuali, l'aula scolastica è un ambiente adatto, e la semplice lettura – o il semplice ascolto – di un concetto, anche una sola volta, può essere sufficiente a impadronirsene. Il pensiero strategico e la programmazione dei computer possono essere insegnati in questo modo con profitto, estraniandosi da tutti quegli scambi che hanno luogo nella vita lavorativa reale.
Nel caso della modificazione comportamentale, invece, è la vita stessa a rappresentare l'autentica arena dell'apprendimento, che richiede un prolungato esercizio. L'apprendimento scolastico consiste, essenzialmente, nell'aggiungere informazioni e conoscenze alle banche della memoria localizzate nella neocorteccia. La neocorteccia impara immettendo nuovi dati nelle strutture di associazione e comprensione preesistenti, così da estendere e arricchire i circuiti neurali corrispondenti.
Ma l'apprendimento di una competenza emozionale comporta questo e altro: richiede anche il coinvolgimento dei circuiti emotivi, nei quali è immagazzinato il nostro repertorio di abitudini sociali ed emotive. Modificare tali abitudini – imparare ad accostarsi in modo più positivo agli altri invece di evitarli, imparare ad ascoltare meglio o a saper fornire un valido feedback – è un compito più difficile di quello che aspetta chi debba semplicemente aggiungere nuovi dati ai vecchi. L'apprendimento emotivo richiede un cambiamento più profondo a livello neurologico: l'indebolimento dell'abitudine preesistente e la sua sostituzione con una migliore.
La comprensione di questa differenza nella funzione cerebrale alla base dei due processi è essenziale per trovare i modi davvero efficaci di insegnare le competenze emotive. Un comune errore compiuto dalle organizzazioni è quello di cercare di istillare una competenza emotiva come l'empatia o la leadership usando le stesse tecniche utili per insegnare a redigere un piano d'affari. Ma in questo caso, tutto ciò non basta: modificare un'abitudine fondata sull'intelligenza emotiva richiede una strategia di apprendimento completamente nuova. Finalmente, alcune scuole, aziende e anche certi governi hanno cominciato a capirlo.
Molti dei principi di apprendimento standard adottati per il training e lo sviluppo nelle organizzazioni derivano da studi effettuati su studenti di college impegnati a esercitarsi in capacità motorie elementari o in semplici compiti cognitivi, ad esempio la memorizzazione di elenchi di parole.10-12 Ma questi principi sono insufficienti per il compito molto più complicato di potenziare le competenze emotive. Coltivare le competenze emotive richiede la comprensione degli elementi fondamentali della modificazione comportamentale. La mancata considerazione di ciò provoca ogni anno lo spreco di immensi investimenti nel training e nello sviluppo. Mentre scrivo queste pagine, milioni e milioni di dollari vengono gettati via in programmi di training che non avranno alcun impatto duraturo – o che comunque sortiranno effetti minimi – nel potenziamento dell'intelligenza emotiva. Questo equivale a un errore da un miliardo di dollari.
Il direttore generale di una delle principali case farmaceutiche americane era spazientito. Aveva constatato un enorme aumento nei costi del training e voleva sapere una cosa: che cosa otteneva l'azienda in cambio di tutto quel denaro?
Una domanda ragionevole che, provenendo dal direttore generale, ottenne risposta immediata. Ben presto egli si vide presentare un rapporto redatto in fretta e furia – interamente basato su aneddoti.
Questo non era accettabile: medico per formazione e con un PhD in statistica biomedica, egli stesso ex scienziato ricercatore, il direttore generale pretendeva dati obiettivi. Così le persone coinvolte si rimisero al lavoro e stilarono un piano più accurato per valutare l'equivalente in dollari e il valore strategico a lungo termine del training. Chiamarono due esperti esterni – Charley Morrow della Linkage, un'azienda di consulenze, e Melvin Rupinski della Tulane University. Il risultato fu una vera rarità nel mondo delle organizzazioni: un progetto quadriennale, rigoroso, che si avvaleva di metodi quantitativi scientifici per valutare se i programmi di training adottati dalla compagnia giustificassero i costi.10-13
Il fatto che tutto questo sia una rarità nel mondo aziendale è già di per sé un paradosso. Nonostante i miliardi di dollari spesi in tutto il mondo per i programmi di training aziendali, l'efficacia di questi sforzi viene raramente valutata dalle aziende che ne sostengono i costi – né, se è per questo, viene valutata da altri. La stima della misura in cui le abilità insegnate nei programmi di training vengono trasferite alla quotidiana prassi lavorativa si ferma a un triste 10 per cento. Ma nessuno sa per certo quale sia l'autentico miglioramento di prestazione sul lavoro conseguito grazie all'addestramento, perché questi dati vengono raccolti solo di rado.10-14
Nell'ottobre 1997, l'American Society for Training and Development compì un'indagine su un gruppo selezionato di trentacinque società, che godevano di una grande reputazione – autentici «punti di riferimento». Ventisette di esse dichiararono di cercare in qualche modo di promuovere la competenza emotiva attraverso programmi di training e sviluppo.10-15 Di queste, però, più di due terzi non avevano mai tentato di valutare l'impatto dei loro sforzi. Quelle che lo avevano fatto, in massima parte, si affidavano a misure soggettive come le reazioni alle sedute di training e i sondaggi sulle opinioni espresse dai dipendenti.
Una più ampia indagine dell'ASTD rilevò che solo il 13 per cento delle aziende valutava i propri programmi di training sulla base della prestazione sul lavoro.10-16 «La sola misura oggettiva di cui disponiamo sul training è il numero di corpi sulle sedie – sappiamo soltanto che la gente partecipa al training, ma non se riesce a ricavarne qualcosa», mi confidò il direttore delle risorse umane presso una delle più grandi compagnie di servizi finanziari del mondo. «A volte chiamiamo questo fenomeno "spruzza e raccomandati a Dio": sottoponi tutti al training e augurati che a qualcuno resti attaccato qualcosa».
I dirigenti che si riunirono per un seminario in un albergo isolato di montagna erano i vertici del management della grande casa farmaceutica il cui direttore generale si era dimostrato tanto puntiglioso. La settimana di training si concentrò in larga misura sulle «capacità sociali» e sui modi per guidare più efficacemente altri manager in un ambiente aziendale sempre più competitivo e dinamico.
Gli argomenti trattati comprendevano tutta una gamma di competenze emotive, compreso come farsi un modello per un'«efficace gestione delle risorse umane», come motivare i subordinati e valutare i loro punti di forza e le loro debolezze, come dare loro dei feedback sulle prestazioni, e ancora come guidare dei team, gestire i conflitti e mettersi alla testa dell'innovazione. Veniva anche dedicato un po' di tempo a qualche riflessione sul comportamento dei dirigenti e sull'impatto che esso esercita sulle persone con cui essi hanno a che fare.
Si trattava di un programma di sviluppo articolato su cinque giornate piene – abbastanza rappresentativo delle migliaia di corsi simili diretti a dirigenti di vario livello e offerti da organizzazioni sparse in tutto il mondo. Ma valeva il suo prezzo, come si era chiesto il direttore generale della casa farmaceutica?
No.
Non solo non ci furono miglioramenti ma, in media, relativamente alle competenze oggetto del training, i superiori giudicarono i dirigenti che avevano partecipato al seminario meno efficaci di quanto non lo fossero prima di partire. «Confrontando la valutazione del loro comportamento manageriale prima e dopo il seminario, si riscontrava un leggero cambiamento negativo», mi disse uno dei valutatoli. «Erano un po' meno capaci.»
Questo fu uno dei risultati più deludenti fra le decine di programmi valutati dallo studio commissionato dalla casa farmaceutica. Nel complesso, i risultati furono vari; mentre alcuni programmi dimostrarono di valere decisamente lo sforzo, di altri non si poteva dire altrettanto.
I programmi di training erano molto diversi per i temi su cui si concentravano, per il pubblico al quale erano rivolti, e per i risultati ottenuti. I loro scopi andavano dall'insegnare agli alti dirigenti a motivare i loro subordinati, ad aiutarli a comunicare più efficacemente, a risolvere i conflitti e a gestire il cambiamento – fino a migliorare la capacità dei supervisori di offrire un feedback ai subordinati e di coltivare relazioni positive con i dipendenti.
Tutti i programmi furono valutati sulla base dei loro effetti osservabili sulla prestazione di coloro che ne avevano usufruito, sulla base di valutazioni formulate prima e dopo la frequenza da superiori, colleghi o subordinati, a seconda dei casi. Un'elegante tecnica statistica consentiva di convertire questi risultati in calcoli di utile sull'investimento. I metodi usati rappresentavano lo stato dell'arte di queste valutazioni del training – un modello che dovrebbe essere ampiamente imitato.10-17
I risultati di questa valutazione tanto scrupolosa – e troppo rara – fanno riflettere, soprattutto coloro che lavorano nel campo del training rivolto ai dirigenti. Degli undici programmi concentrati sulle capacità interpersonali essenziali nel management, tre risultarono decisamente privi di valore. Si trattava del ritiro montano di cinque giorni per alti dirigenti, concentrato sulle abilità sociali; di un training rivolto a capi di laboratorio mirato a guidare le prestazioni individuali; e di un programma sulla creazione di team efficienti.
Il calcolo del tempo necessario affinché questi programmi si ripagassero dei propri costi – in altre parole, il tempo necessario per andare in pareggio – dimostrò che il corso per la costruzione dei team avrebbe impiegato sette anni, sempre che i suoi effetti potessero durare tanto a lungo (un assunto dubbio). Quanto agli altri due corsi, non si sarebbero ripagati mai. Nessuno dei due produceva un effetto sulla prestazione lavorativa abbastanza forte da giustificare il proprio costo!
La valutazione rivelò che cinque degli undici programmi avrebbero impiegato più di un anno per ripagarsi, sempre assumendo che producessero risultati duraturi. Quei cinque programmi, tanto inefficaci in retrospettiva, costarono un totale di quasi 700.000 dollari per i 147 dipendenti che furono valutati dopo avervi partecipato.
Per gli altri cinque programmi di training sulla leadership e il management, le cose andarono meglio.10-18 In questi casi, il reddito sull'investimento era compreso fra il 16 e il 192 per cento. E un altro programma sulla gestione del tempo (una capacità di gestione dello stress che fa appello al controllo degli impulsi e ad altre competenze di dominio di sé) si ripagava in un tempo straordinariamente breve – circa tre settimane – producendo un reddito sull'investimento del 1989 per cento nel primo anno. In termini di reddito sull'investimento, questo corso, messo a punto internamente all'azienda, diede prestazioni di gran lunga migliori di un training molto noto a livello nazionale, che si prefiggeva scopi analoghi – e questo in larga misura perché il primo costava solo 3000 dollari rispetto ai 68.000 di quello più famoso.
In breve, quando i programmi funzionano, si ripagano da soli, la maggior parte di essi già nel primo anno o pressappoco, e i costi sono giustificati da un miglioramento quantificabile della prestazione sul lavoro. Quando i programmi falliscono, comportano uno spreco di tempo e denaro.
E il progetto quadriennale per la valutazione dei risultati del training presso la casa farmaceutica valeva il tempo e il denaro che era costato? Senza dubbio. Intanto, fu un affare: l'intera impresa era costata 500.000 dollari – in un periodo in cui l'azienda ne spendeva 240 milioni in training. In altre parole i costi della valutazione rappresentavano solo lo 0,02 per cento del budget del training.10-19
Da allora la casa farmaceutica ha completamente modernizzato i suoi programmi di training e sviluppo; quelli dimostratisi uno spreco di denaro sono stati cancellati. Lo studio di valutazione è diventato un autentico punto di riferimento, lo standard di come le aziende potrebbero ottenere un'interpretazione empiricamente ragionevole del valore dei propri programmi di training.
Dopo aver cercato in lungo e in largo dei programmi di training aziendale sulle competenze emotive che fossero stati valutati istituendo un gruppo di riferimento e utilizzando misure imparziali dei risultati – il metodo aureo di valutazione – Cary Cherniss, uno psicologo della Rutgers University (con il quale divido la carica di presidente del Consortium on Emotional Intelligence in the Organization) osservò sorpreso: «Poche aziende verificano effettivamente i programmi di training sui quali scommettono milioni di dollari. Quando si tratta di relazioni umane, aziende altrimenti dure diventano morbidissime: non insistono per avere risultati dimostrati. Moltissimi alti dirigenti sembrano non rendersi conto del fatto che si possono pianificare degli studi che valutino i programmi per i quali stanno spendendo tanto denaro».
A volte questo è il risultato dell'ingenuità – a volte sono colpevoli le politiche aziendali. Cherniss racconta di un'azienda nel campo dell'alta tecnologia che aveva investito più di un milione di dollari in un programma di training per insegnare ai suoi dipendenti a lavorare meglio in team. E tuttavia non fece alcun tentativo di valutare la sua efficacia. Perché? «Era un progetto che stava molto a cuore a un vicepresidente esecutivo. A nessuno importava davvero sapere che funzionasse, ma solo se alla gente piacesse o meno. Le aziende non valutano i risultati per capire se i programmi hanno un impatto reale sulla prestazione.»
E quando lo fanno, i risultati possono essere sgradevoli. «Cercammo di valutare i vantaggi comportati da un programma di training che usavamo da anni e nel quale avevamo speso milioni di dollari», si lamentò con me un dirigente di una delle cento compagnie americane con il massimo fatturato annuo. «Abbiamo scoperto una correlazione nulla fra training e produttività – comunque la misurassimo.»
Troppo spesso l'unico effetto reale di un programma di training, indipendentemente dai suoi scopi dichiarati, è che i partecipanti sperimentano un breve fermento di energia che non dura più di qualche giorno o di alcune settimane – dopo di che ritornano al loro modo di essere precedente il training, quale che esso fosse. L'effetto più generale degli interventi formativi, indipendentemente dal loro contenuto apparente, è che aumentano la fiducia in se stessi dei partecipanti – almeno per un po'.10-20
Ma se tutto quel che viene potenziato è la fiducia del partecipante, allora questi costosi programmi sono come la piuma magica del vecchio cartone animato di Dumbo. Quando il timido elefantino con le enormi orecchie riceve la piuma magica dal suo tutore, un furbo topo di campo, la stringe con tutte le sue forze nella proboscide, sbatte le orecchie – ed ecco, comincia a volare.
Naturalmente, un giorno Dumbo perde la sua piuma, e si rende conto che può volare lo stesso. Nel caso delle competenze emotive non è sempre così facile. Sebbene l'entusiasmo e la filosofia del «posso farcela» siano utili, funzionano solo nella misura in cui le persone hanno le abilità fondamentali e apprendono le competenze di base per farli funzionare. Se non avete empatia, o siete socialmente incapaci, o se non avete imparato a gestire i conflitti e ad assumere la prospettiva del cliente, il semplice entusiasmo non sostituirà ciò che vi manca, e potrà condurvi a commettere errori, sia pure animati dalle migliori intenzioni.
Il mondo del training sembra soggetto ai capricci e alle mode. Così almeno lamenta un'analisi sull'attuale stato del training e dello sviluppo, che conclude affermando che troppi programmi vengono «adottati grazie all'effetto di un venditore persuasivo, di un opuscolo ben fatto o di testimonianze di persone che vi hanno già partecipato.»10-21
Ma quando si tratta della valutazione, il rigore lascia il passo alle impressioni. Valutazioni oggettive come quelle effettuate dalla casa farmaceutica di cui abbiamo accennato sono estremamente rare. Invece di una stima oggettiva degli effetti del training, la tipica valutazione si basa sul feedback dato dai partecipanti, che spiegano se il programma è loro piaciuto, e in che cosa sia loro piaciuto di più: un sistema di valutazione che evidentemente favorisce le esperienze belle e divertenti a scapito di quelle di sostanza. Il divertimento diventa il segno dell'eccellenza, a dimostrazione di una maggior considerazione dell'intrattenimento rispetto all'educazione.
Questa mancanza di dati favorisce l'abbattersi di infinite ondate di programmi «caldi» sulle aziende. Negli anni Sessanta e al principio del decennio successivo, le aziende fecero partecipare migliaia di dipendenti ai «gruppi di incontro» e ai «training sulla sensibilità»: sedute non strutturate in cui gli individui sfogavano i loro sentimenti più primitivi (un esercizio di emotività spesso inutile contrapposto all'essere intelligenti riguardo all'emozione). Lo facevano nonostante l'assenza della benché minima prova che queste sedute aiutassero le persone sul lavoro, e a dispetto dei dati emergenti che tali gruppi, se malamente guidati, potevano avere ripercussioni negative.
I responsabili dello sviluppo del personale presso le cinquecento aziende americane con il massimo fatturato annuo furono intervistati su quali fossero le difficoltà che incontravano nella valutazione dei loro programmi di training; la lamentela più comune era la mancanza di standard e di criteri per il training delle cosiddette abilità soft – ad esempio le competenze emotive.10-22
Per contribuire a modificare questa situazione, ho fondato, insieme ad altri, il Consortium on Personal and Social Competence in the Workplace, un gruppo di ricercatori e professionisti provenienti da scuole aziendali, dal governo federale, da studi di consulenza e da aziende.10-23 Il nostro gruppo ha cercato i dati scientifici disponibili sulla modificazione del comportamento e ha studiato programmi di training esemplari, al fine di ricavare delle linee-guida fondamentali che indichino le prassi ottimali nell'insegnamento delle competenze basate sull'intelligenza emotiva.10-24
Le linee-guida risultanti sono riassunte in Tabella 2.
1) Ogni elemento è necessario, ma di per se stesso non sufficiente, a un apprendimento efficace
2) L'impatto di ciascun elemento aumenta nella misura in cui esso fa parte di un processo che include tutti gli altri.
• Valutare il lavoro. Il training dovrebbe concentrarsi sulle competenze maggiormente necessarie per eccellere in un dato lavoro o in un dato ruolo.
Avvertimento: Il training mirato a competenze irrilevanti è fuori luogo.
Prassi ottimali: Progettare il training sulla base di una valutazione sistematica delle esigenze dell'utente.
• Valutare l'individuo. Il profilo individuale di talenti e limitazioni dovrebbe essere valutato in modo da identificare ciò che occorre migliorare.
Avvertimento: Non ha senso sottoporre gli individui a un training su competenze che già posseggono o di cui non hanno bisogno.
Prassi ottimali: Personalizzare il training adattandolo alle esigenze individuali.
• Presentare le valutazioni con delicatezza. Il feedback relativo ai talenti e ai punti deboli di una persona ha una valenza emotiva.
Avvertimento: Un feedback offerto in modo improprio può disturbare, mentre se presentato in modo abile, sarà motivante.
Prassi ottimali: Usare l'intelligenza emotiva nel presentare all'interessato la valutazione iniziale della sua competenza emotiva.
• Giudicare esattamente la preparazione. Persone diverse si trovano a un livello diverso di preparazione.
Avvertimento: Quando le persone non sono pronte, molto probabilmente il training andrà sprecato.
Prassi ottimali: Valutare la preparazione e, se l'individuo non dovesse risultare pronto, fare di essa un primo obiettivo.
• Motivare. Gli individui imparano nella misura in cui sono motivati – ad esempio rendendosi conto del fatto che una particolare competenza è importante per svolgere bene il loro lavoro, e facendo di essa un obiettivo personale di cambiamento.
Avvertimento: Se le persone non sono motivate, il training non risulterà efficace.
Prassi ottimali: Chiarire in che modo il training ripagherà sul lavoro, ai fini della carriera o attraverso altri tipi di gratificazione.
• Fare in modo che il cambiamento sia auto-guidato. Quando è l'interessato a guidare il proprio programma di apprendimento – adattandolo su misura a esigenze, situazioni e motivazioni proprie – esso risulta più efficace.
Avvertimento: Programmi di training «che-vanno-bene-per-tutti», in realtà non vanno bene per nessuno.
Prassi ottimali: Fare in modo che sia l'interessato a scegliere i propri obiettivi di sviluppo e a progettare il proprio piano per raggiungerli.
• Concentrarsi su obiettivi chiari e raggiungibili. L'individuo ha bisogno di chiarezza sulla natura della competenza e sui passi necessari per migliorarla.
Avvertimento: Programmi di cambiamento poco concentrati o scarsamente realistici conducono a risultati confusi o al fallimento.
Prassi ottimali: Spiegare chiaramente le specifiche della competenza e offrire un piano praticabile per raggiungerla.
• Evitare le ricadute. Le abitudini cambiano lentamente, e incappare in ricadute e scivoloni non è necessariamente un segno di sconfitta.
Avvertimento: La lentezza del cambiamento o l'inerzia delle vecchie abitudini possono scoraggiare.
Prassi ottimali: Aiutare l'individuo a usare gli errori come lezioni per prepararsi meglio la volta successiva.
• Offrire un feedback sulla prestazione. Un feedback continuo incoraggia e contribuisce a guidare il cambiamento.
Avvertimento: Un feedback confuso può mandare fuori strada il training.
Prassi ottimali: Inserire nel piano di cambiamento momenti di feedback, da parte di supervisori, colleghi, amici – chiunque possa contribuire a guidare, formare o fornire un'appropriata analisi dei progressi.
• Incoraggiare l'esercizio. Il cambiamento duraturo richiede un esercizio prolungato sia sul lavoro che al di fuori di esso.
Avvertimento: Un seminario o un corso possono rappresentare un punto di partenza, ma di per se stessi non bastano.
Prassi ottimali: Servirsi delle opportunità che si presentano spontaneamente per esercitarsi, a casa come al lavoro, e sperimentare i nuovi comportamenti in modo ripetuto e costante per un periodo di mesi.
• Organizzare forme di sostegno. Persone con idee simili, che stiano anch'esse cercando di effettuare un cambiamento analogo, possono offrire un sostegno essenziale nel processo.
Avvertimento: Affrontare il percorso da soli può renderlo più duro.
Prassi ottimali: Costruire una rete di supporto e incoraggiamento. Anche un solo vecchio amico, o una figura tutoriale, possono essere di aiuto.
• Fornire modelli. Individui di grande efficienza e di elevato status che incarnano la competenza possono essere modelli capaci di ispirare il cambiamento negli altri.
Avvertimento: L'atteggiamento di chi predica bene ma razzola male da parte dei superiori compromette il cambiamento.
Prassi ottimali: Incoraggiare i supervisori ad apprezzare ed esibire la competenza; assicurarsi che anche i responsabili del training facciano altrettanto.
• Incoraggiare. Il cambiamento sarà più pronunciato se l'ambiente dell'organizzazione lo incoraggerà, darà valore alla competenza e offrirà un'atmosfera sicura per la sperimentazione.
Avvertimento: Quando non c'è alcun reale sostegno, soprattutto da parte dei superiori, lo sforzo di cambiare sembrerà privo di scopo – o troppo rischioso.
Prassi ottimali: Dimostrare che la competenza in questione è importante ai fini dell'assegnazione del lavoro, delle promozioni, dell'analisi delle prestazioni e simili.
• Rinforzare il cambiamento. Gli individui hanno bisogno di riconoscimenti – di sentire che i propri sforzi di cambiamento sono importanti.
Avvertimento: La mancanza di rinforzo è scoraggiante.
Prassi ottimali: Assicurarsi che l'organizzazione si dimostri coerente nell'apprezzare il cambiamento con lodi, aumenti di stipendio o maggiori responsabilità.
• Valutare. Stabilire metodi per valutare lo sforzo di cambiamento in modo da capire se avrà effetti duraturi.
Avvertimento: Molti programmi di sviluppo, forse la maggior parte, restano senza valutazione, e così non si correggono gli errori né si eliminano i programmi inutili.
Prassi ottimali: Trovare il modo di misurare la competenza o l'abilità sul lavoro, idealmente prima e dopo il training, come pure a distanza di diversi mesi (e – se possibile – di uno o due anni).
Questa donna faceva la contabile nel settore sanitario, e aveva un problema serio. Non riusciva a sopportare le critiche; quando sentiva che le sue idee, o il suo carattere, erano attaccati, prendeva fuoco e diceva cose di cui di lì a poco si sarebbe vergognata.
Ma era decisa a fare qualcosa. Iscrittasi a un programma di scienze aziendali, ebbe l'opportunità di coltivare l'autocontrollo emotivo – una competenza che sapeva di dover migliorare.
Il suo piano prevedeva un attacco concertato:
1) Apprendere e dominare i passi da intraprendere per migliorare l'autocontrollo – ad esempio anticipare situazioni «a rischio» e prepararsi in modo da non «perdere le staffe». Ricordare a se stessa che quello che tende a interpretare come una «critica» o un «attacco» è più spesso un feedback offerto con l'intenzione di aiutarla a migliorarsi.
2) Cogliere ogni occasione per esercitare quelle reazioni. Ripassarle mentalmente due volte al mese.
3) Coinvolgere altri studenti nella simulazione di situazioni problematiche, così da provare nuove strategie di autocontrollo.
4) Mettersi d'accordo con un membro del suo team affinché la avverta quando la vede assumere atteggiamenti testardi, inflessibili o altrimenti iperreattivi, per ricordarle di esercitare il proprio autocontrollo.
Questo insieme di tattiche di apprendimento, così ben congegnato per coltivare l'intelligenza emotiva, può sembrare fuori luogo in un programma di scienze aziendali. Ciò nondimeno, esso fa parte del programma alla Weatherhead School of Management della Case Western Reserve University di Cleveland, all'avanguardia nel preparare i suoi studenti in queste capacità essenziali.
La Weatherhead School prese a cuore un certo numero di critiche comunemente rivolte ai laureati in scienze aziendali, compresa quella di essere troppo analitici e di mancare di capacità interpersonali, di comunicazione e di lavoro in team. Così la scuola intraprese un piano per reinventare la formazione aziendale, sviluppando un corso innovativo, Managerial Assessment and Devehpment, che incorpora molte, se non la maggior parte, delle linee-guida proposte dal Consortium.10-25
Il corso, diretto da Richard Boyatzis, associato della Weatherhead School, offre ai suoi studenti gli strumenti per un apprendimento che possa durare tutta la vita: metodi per valutare e sviluppare le abilità personali che serviranno loro nel management durante tutta la loro carriera. Dal 1990 questo corso è stato offerto a gruppi diversi di studenti. La maggior parte di essi sono uomini e donne di età compresa fra i 20 e 40 anni, che hanno deciso di riprendere gli studi per conseguire un diploma in scienze aziendali dopo aver avviato la propria carriera. Un secondo gruppo è costituito da medici, avvocati e altri professionisti, la maggior parte dei quali fra i 40 e i 60 anni, che frequentano presso la Weatherhead School un programma annuale speciale che non conferisce titoli.
Il corso comincia con un periodo di autoesame, durante il quale gli studenti riflettono sui propri valori, le proprie aspirazioni e i propri obiettivi. Poi essi effettuano tutta una serie di valutazioni sulle proprie competenze, identificando così punti di forza e limitazioni.
Il corso fornisce una mappa delle competenze emotive simile a quella riportata nella Tabella 1 del Secondo Capitolo.10-26 Da questa mappa, e alla luce dei risultati della propria valutazione e delle esigenze dettategli dalla carriera, ogni studente sceglie un insieme di competenze da rafforzare. Invece dell'approccio uguale-per-tutti così tipico dei programmi di training aziendale, qui gli studenti mettono a punto il proprio piano di apprendimento personalizzato.
Il gruppo si incontra ogni settimana per una seduta di tre ore. Le prime due settimane si concentrano sulla valutazione; le successive sette sono dedicate a una riflessione sui risultati. Solo allora, quando le valutazioni e le loro implicazioni sono state più approfonditamente ponderate, gli studenti impiegano cinque settimane a sviluppare i propri piani di apprendimento – come quello della contabile irascibile, che aveva bisogno di coltivare l'autocontrollo.
Funziona? Per scoprirlo, studenti della Weatherhead School diplomatisi in corsi successivi seno stati sottoposti a una serie di rigorose valutazioni, usando misure oggettive comuni nell'industria.10-27 Rispetto a valutazioni analoghe effettuate al loro ingresso alla scuola, essi mostrarono un miglioramento nell'86 per cento delle abilità valutate. Monitoraggi effettuati tre anni dopo la conclusione del programma dimostrarono che questi miglioramenti reggevano alla prova del lavoro.10-28
La morale, ai fini della formazione aziendale, è che gli individui possono dominare le capacità dell'intelligenza emotiva necessarie nel mondo del lavoro – purché si diano loro gli strumenti giusti per apprenderle.
Nel mondo del lavoro, una delle applicazioni più innovative del training dell'intelligenza emotiva non è da ricercarsi in un'azienda, ma è un programma rivolto a chi il proprio lavoro lo ha perso, con lo scopo di aiutare a coltivare le risorse interiori utili per trovarne uno nuovo.
Poiché dopo aver perso il posto le persone sono scosse, incerte sul proprio futuro, spaventate da questioni economiche e tormentate dai dubbi su se stesse, le competenze emotive possono aiutare molto nella ricerca del lavoro. Questa fu proprio la strategia adottata in un progetto di ricollocamento di straordinario successo, il Michigan JOBS Program, messo a punto da un gruppo dell'Università del Michigan dopo un'ondata di tagli ai posti di lavoro che aveva avuto luogo nell'industria dell'automobile.
Il programma ebbe un successo enorme – e rappresentò un'altra applicazione-modello delle linee-guida del Consortium. Le persone che lo intrapresero impiegarono) circa il 20 per cento di tempo in meno per trovare posti di qualità superiore rispetto ad altre persone che non avevano ricevuto quel tipo di aiuto.
«Questo funziona per tutti: per il vicepresidente licenziato come per il tizio che gli vuotava i posacene re», afferma Robert Caplan, capo dell'Organizational Behavior Program della Georgetown University e fondatore delJOBS Program con Richard Price, uno psicologo dell'Università del Michigan.
Il principio di fondo è semplice: molte delle stesse competenze emotive che fanno eccellere le persone sul lavoro le rendono anche più abili a trovarsi un nuovo lavoro. Aiutare gli individui a potenziare quelle competenze significa aiutarli a tornare prima al lavoro, e a far meglio una volta rientrate.
«Se dopo aver perso il lavoro uno è timido, oltre che pessimista e depresso, è a doppio rischio», afferma Caplan. «E una combinazione paralizzante.»
Ciò nondimeno il JOBS Program ha messo in evidenza come siano proprio gli individui con le minori probabilità di trovare un nuovo impiego a trarre maggior beneficio dal training. «Funziona perfino per chi è clinicamente depresso, come sono effettivamente molte persone dopo aver perso il posto», commenta Caplan.
JOBS istilla due tipi di abilità in coloro che cercano un lavoro: alcune capacità pratiche (ad esempio saper identificare i propri talenti vendibili, saper far uso di reti per essere informati sulle opportunità) e l'elasticità interiore che farà loro trarre vantaggio dalla propria vendibilità.
In un semplice formato di cinque sedute, due formatori lavorano con gruppi di quindici-venti partecipanti, la maggior parte reclutati attraverso i programmi con i quali le aziende cercano di aiutare i propri dirigenti in eccedenza a trovarsi un altro lavoro.10-29 Le sedute si concentrano sull'apprendimento attraverso l'azione, impiegando strumenti come la ripetizione mentale, la drammatizzazione e il gioco di ruolo sulle capacità-chiave.
Una di queste capacità è l'ottimismo. Date le incertezze e gli insuccessi che le persone in cerca di lavoro devono affrontare, occorre vaccinarle dal disfattismo emergente di fronte al fallimento. I rifiuti sono una componente inevitabile di ogni ricerca di lavoro. Lo scoraggiamento può sfociare nell'abbattimento e nella disperazione. E la disperazione è un atteggiamento privo di valore di mercato.
Non fa dunque meraviglia che la depressione, i problemi di alcol e le liti coniugali aumentino fra coloro che rimangono senza lavoro, e che si attenuino nel momento in cui l'individuo trova un lavoro gratificante.10-30 Il programma insegna ai partecipanti ad anticipare il rifiuto e a ripassare che cosa dire a se stessi qualora vi si imbattano. Anticipare questi momenti difficili e disporre di una reazione interna attuabile riduce i costi emotivi e accelera il tempo necessario alla ripresa.
Ecco alcune fra le altre abilità potenziate dal programma:
• la capacità di assumere la prospettiva dell'altro – per aiutare chi cerca lavoro a pensare come un datore di lavoro
• la fiducia in se stessi – la fondamentale sensazione di poter riuscire, indispensabile per intraprendere uno sforzo
• la capacità di utilizzare reti – dal momento che la maggior parte dei posti di lavoro viene trovata attraverso contatti personali
• la capacità di prendere decisioni per gestire la propria carriera – la prima offerta non è necesariamente quella da accettare e ogni impiego deve essere considerato in rapporto ai valori e agli obiettivi di carriera dell'individuo
• l'autocontrollo emotivo – in modo che i sentimenti negativi non sopraffacciano la persona rendendole più difficile lo sforzo necessario.
Naturalmente, è probabile che tutte queste capacità dell'intelligenza emotiva siano preziose anche dopo essere approdati a un posto di lavoro. Ecco che cosa accadde con il programma JOBS: a metà del secondo anno di lavoro gli ex partecipanti avevano guadagnato 6420 dollari in più di persone simili che avevano cercato lavoro senza usufruire del programma (estrapolata a tutta la vita lavorativa, la stima dei guadagni degli ex partecipanti era superiore di 48.000 dollari a quella degli altri).10-31
Il programma JOBS, come quelli della Weatherhead School e dell'American Express, rappresenta un modello degli interventi con i quali è possibile aiutare gli individui a rafforzare la propria competenza emotiva.