A un convegno internazionale al quale ho partecipato recentemente, i convenuti si sentirono domandare: «La vostra organizzazione ha una missione dichiarata?» Circa due terzi dei presenti alzarono la mano.
Poi gli fu chiesto: «Quella dichiarazione descrive la realtà quotidiana dell'azienda?» Quasi tutte le mani si riabbassarono.
Quando esiste un evidente divario fra l'ideale sposato da un'organizzazione e la sua effettiva realtà, l'inevitabile ripercussione emotiva può spaziare da un atteggiamento di cinismo, adottato come autodifesa, alla rabbia e perfino alla disperazione. Le compagnie che conquistano i propri profitti con la violazione degli impliciti valori condivisi da coloro che vi lavorano, si ritrovano poi a scontarli sul piano emotivo, sotto forma di vergogna opprimente e di senso di colpa o ancora della percezione che quei guadagni siano sporchi.
Un'organizzazione intelligente a livello emotivo deve scendere a patti con eventuali divari fra i valori che proclama e quelli che vive. La chiarezza riguardo ai valori, lo spirito e la missione aziendali porta a un importante atteggiamento di fiducia nei processi decisionali della compagnia.
La dichiarazione di una missione da parte dell'organizzazione ha una funzione emotiva – l'espressione dei sentimenti positivi condivisi grazie ai quali sentiamo che ciò che facciamo insieme ha un valore. Lavorare per una compagnia che misura il proprio successo in modo molto significativo – e non solo in base al profitto – è di per sé una cosa che alza il morale e dà energia.
Sapere quali siano quei valori condivisi richiede ciò che – a livello di organizzazione – equivale all'autoconsapevolezza emotiva. Proprio come ogni persona ha un profilo di punti di forza e di debolezze nelle diverse aree di competenza, e in una certa misura ne è consapevole, lo stesso avviene anche nel caso delle organizzazioni Questi profili possono essere descritti a tutti i livelli – divisione per divisione, scendendo alle unità più piccole, fino a ogni singolo team – e per ogni competenza.
Tuttavia, le organizzazioni che si autovalutano attentamente in questo modo sono poche. Ad esempio: quante sono le compagnie in grado di individuare i dirigerti incapaci che contagiano la propria gente col rancore o la paura – o di scoprire dove si annidano, fra i venditori, dei piccoli tesori di intraprendenza? Probabilmente molte organizzazioni pensano di valutare queste cose nel momento in cui compiono indagini interne per sondare la soddisfazione sul lavoro o l'impegno dei propri dipendenti. Ma può succedere che questi strumenti standard non colgano nel segno.
Alcune delle misure più ampiamente usate dalle organizzazioni furono valutate dal Personnel Resources and Development Center dello U.S. Office of Personnel Management, sotto la direzione di Marilyn Gowing.12-1 L'interrogativo era: In quale misura queste indagini valutano l'intelligenza emotiva a livello di organizzazione?
Emersero, come dice Gowing, «alcune sconcertanti carenze» in ciò che veniva misurato. Esse indicavano il mancato sfruttamento della possibilità di riflettere sia su ciò che rende efficiente un'organizzazione, sia sui modi per diagnosticare eventuali cadute di prestazione. Fra le carenze più notevoli emergevano quelle nelle seguenti aree:12-2
• Autoconsapevolezza emotiva: interpretare l'impatto che il clima emotivo esercita sulla prestazione
• Realizzazione: analizzare l'ambiente per rilevare dati essenziali ed eventuali possibilità di iniziativa
• Adattabilità: essere flessibili di fronte a difficoltà e ostacoli
• Autocontrollo: dare prestazioni efficaci evitando reazioni dettate dal panico, dalla collera o dall'allarme, quando si è sotto pressione
• Integrità: dimostrare l'affidabilità che alimenta la fiducia
• Ottimismo: essere elastici di fronte agli insuccessi
• Empatia: comprendere i sentimenti e i punti di vista degli altri, indipendentemente dal fatto che si tratti di committenti e clienti o di figure interne all'azienda
• Sfruttamento della diversità: utilizzare le differenze come opportunità
• Consapevolezza politica: comprendere le tendenze economiche, politiche e sociali salienti
• Influenza: servirsi abilmente delle strategie di persuasione
• Costruzione di legami: stringere forti legami personali fra persone e componenti distanti di un'organizzazione.
Per una qualsiasi organizzazione, l'importanza di queste competenze sembra evidentissima. Mentre scrivo queste pagine, ad esempio, i massimi dirigenti della Microsoft stanno pubblicamente lamentando la mancanza di consapevolezza politica della loro organizzazione, una carenza che li ha messi in evidente svantaggio nello scontro con il Dipartimento di Giustizia riguardo alle accuse di monopolio.
Ciò nondimeno, resta da verificare in quale misura ciascuna di queste competenze collettive possa contribuire al miglioramento delle prestazioni dell'organizzazione. Proprio questo è il punto: sembra che nessuno lo stia verificando.
Proviamo a immaginare i vantaggi di cui godranno le compagnie che coltiveranno queste competenze, e i problemi in cui incorreranno le altre. A tal fine descriverò, nelle organizzazioni, le differenze comportate nel bene e nel male da tre tipi di competenze: l'autoconsapevolezza, la capacità di controllare le emozioni e la spinta alla realizzazione.
In una calda giornata d'agosto, sulla spiaggia, una famiglia di quattro persone, messi via asciugamani, giocattoli e altre cianfrusaglie da mare, sta arrancando sulla sabbia bollente quando la bambina più piccola, di circa cinque anni, comincia a piagnucolare: «Voglio un po' d'acqua. Mi dai un po' d'acqua?».
Il padre, infastidito dal tono lagnoso, se la prende con la madre: «Dove ha imparato a frignare così?».
Poi, rivolto alla bambina lamentosa, dichiara brevemente, «Nessuno ti ascolta quando sei così lagnosa», e continua a camminare, ignorando studiatamente i suoi lamentevoli piagnistei.
Attraverso infiniti scambi come questo – spesso più coperti e impliciti – ciascuno di noi ha imparato, nella sua famiglia d'origine, un insieme di regole sull'attenzione e le emozioni.
La prima regola: Noi notiamo queste cose
La seconda regola: Ecco come le consideriamo
La terza regola: Noi non notiamo queste cose
La quarta regola: Dal momento che non le notiamo, non le consideriamo
Lo stesso accade nelle organizzazioni. In ciascuna di esse esiste un'area caratteristica di esperienza collettiva – di comune sentire e informazione condivisa – che resta inespressa (o viene espressa solo in privato, non apertamente) cadendo così nell'abisso di quello che equivale a un punto cieco.
Queste zone di inattenzione possono nascondere dei potenziali pericoli. Alla filiale di Singapore della Barings Bank, a esempio, il fatto che un operatore finanziario senza scrupoli fosse responsabile di tutte le fasi delle transazioni c che nessuno controllasse le sue manovre gli permise di perdere centinaia di milioni di dollari, facendo così naufragare la compagnia. Per la Archer Daniels Midland, il colosso dell'agricoltura, una collusione ad alto livello portò i vertici a chiudere un occhio sulla determinazione dei prezzi; questo comportamento, una volta smascherato, si tradusse nell'incriminazione di diversi dirigenti.
Le regole che ci informano su ciò che possiamo – e ciò che non possiamo – esprimere nell'ambiente di lavoro fanno parte del tacito contratto imposto da ciascuna azienda ai suoi dipendenti. Rispettare quelle regole è il prezzo da pagare per essere un membro della famiglia rappresentata dall'organizzazione. A titolo di esempio, fingeremo di non sapere che questo manager è un alcolizzato fallito, uno che anni fa era in una posizione migliore ma finì parcheggiato qui perché i vertici volevano levarselo dai piedi. Proprio come tutti gli altri, ci limiteremo a trattare con il suo assistente (che in realtà svolge il lavoro che dovrebbe fare lui).
La paura vincola la gente al silenzio, il che non è irragionevole. Prendiamo quelli che denunciano la cattiva gestione di un'azienda – gente che rivela pubblicamente i misfatti dell'organizzazione di cui fa parte. Studi compiuti nel mondo delle aziende su queste particolari figure hanno rilevato che costoro solitamente non sono spinti da motivazioni egoiste o vendicative, ma da ragioni nobili quali la fedeltà all'etica professionale o alla missione e ai principi dichiarati dall'organizzazione. Ciò nondimeno, invece di ringraziarli, nella maggior parte dei casi l'azienda ne fa delle vittime, licenziandoli, perseguitandoli o denunciandoli.
Costoro commettono il peggiore dei peccati: danno voce all'indicibile. E la loro espulsione dall'organizzazione invia un tacito segnale a chiunque altro: «Cercate di farvi andare bene le collusioni presenti al nostro interno, o perderete anche voi lo status di membri dell'organizzazione». Nella misura in cui impedisce che si pongano questioni fondamentali ai fini dell'efficienza dell'organizzazione, tale collusione rappresenta una minaccia per la sua stessa sopravvivenza.
Essa contribuisce anche a frustranti simulazioni collettive, come emerge da questo esempio, tratto da uno studio che analizzò gli incontri durante i quali venivano prese decisioni ad alto livello:
I subordinati erano d'accordo nell'affermare che si dedicasse troppo tempo a lunghe relazioni per far contento il presidente. In confidenza, però, il presidente dichiarò che non gli piaceva affatto stare a sentire lunghe relazioni, a volte anche aride – specialmente se già conosceva la maggior parte dei dati. Tuttavia, pensava che fosse importante farlo, perché probabilmente ciò dava ai dipendenti la sensazione di un maggiore impegno nei confronti del problema!12-3
Al principio degli anni Novanta, Cari Frost, un consulente aziendale, si incontrò in Svezia con alcuni team di lavoro della Volvo.12-4 Si parlò delle lunghissime vacanze di quell'anno, che tutti stavano pregustando. Ma Frost era preoccupato dal fatto che quel lungo stacco dal lavoro fosse in realtà causato da una situazione negativa: il periodo di vacanza era stato esteso perché le vendite erano in ribasso. La Volvo aveva un enorme eccesso di scorte e, data la scarsità della domanda, le catene di montaggio erano ferme.
Frost scoprì che i dirigenti erano perfettamente a proprio agio, anzi felici della decisione di prolungare le vacanze. Egli tuttavia sentì il bisogno di porre domande – di far affiorare fatti di cui la gente della Volvo pareva non curarsi. Il dato fondamentale era che l'azienda stava uscendo battuta dalla competizione per il mercato mondiale dell'auto: i suoi costi di produzione erano più alti di quelli di qualsiasi altra industria automobilistica del mondo; per assemblare un'auto, gli operai della Volvo impiegavano il doppio di quelli giapponesi; e le vendite estere erano calate, negli ultimi anni, del 50 per cento.
La compagnia era in crisi e il suo futuro a rischio – e con esso i posti di lavoro degli operai. E tuttavia, quando Frost lo disse, tutti si comportarono come se non ci fosse nulla fuori posto. Nessuno sembrava vedere un legame fra le vacanze imminenti e il problematico futuro della compagnia.
Secondo Frost questo atteggiamento di indifferenza era segno di una preoccupante incapacità di comunicare, che portava i lavoratori della Volvo a ignorare ogni nesso fra la loro personale situazione e il destino della compagnia in senso lato. A suo parere, questa mancanza di sintonia significava che essi non intendevano prendersi la responsabilità di aiutare l'azienda a diventare più competitiva.
Il vaccino contro tale collusione comporta che l'organizzazione diventi più onesta e più aperta nelle sue comunicazioni interne. Ciò richiede un'atmosfera che dia importanza alla verità – indipendentemente dall'ansia cui essa può dar luogo – e che cerchi di considerare tutti gli aspetti di un problema. Ma un dibattito così realistico è possibile solo se la gente si sente abbastanza libera di dire quello che pensa senza temere di essere fatta oggetto di punizioni, rappresaglie o derisione.
Secondo un'indagine condotta da Coopers & Lybrand sulle cinquecento compagnie americane con il maggiore fatturato annuo, solo l'11 per cento dei direttori generali credeva che «i messaggeri di cattive notizie corressero un rischio reale» nella propria compagnia. Ma in quelle stesse aziende, fra i manager di medio livello, un terzo affermò che i latori di cattive notizie si mettevano a rischio. E fra i dipendenti che non coprivano incarichi dirigenziali, circa la metà riteneva che riferire cattive notizie comportasse un rischio reale.12-5
Questa disparità fra i vertici e i dipendenti più a contatto con la realtà quotidiana dell'azienda dimostra che, probabilmente, chi prende le decisioni importanti si illude di avere tutti i dati di cui ha bisogno, mentre chi possiede quei dati – soprattutto se essi sono in qualche modo problematici – si sente troppo ansioso per condividerli. I leader che non riescono a stabilire un clima tale da incoraggiare i dipendenti a tirar fuori tutti i propri dubbi e le proprie domande, comprese quelle inquietanti, si stanno preparando a un futuro difficile. E allora, afferma William Jennings, che diresse l'indagine della Coopers & Lybrand, «è facile che i dipendenti vedano i controlli interni come un impedimento alla produttività, e che li eludano nel malinteso sforzo di raggiungere gli obiettivi di profitto prefissati».12-6
Si dice che qualche anno fa, ogni volta che alla PepsiCo venivano assunti dei nuovi dirigenti, l'allora presidente Wayne Calloway avesse un colloquio con loro. Pare che in quelle occasioni dicesse: «Qui da noi ci sono due modi per essere licenziati. Il primo è quello di non raggiungere gli obiettivi di profitto prefissati. Il secondo è quello di mentire. Ma il modo più veloce è certamente quello di mentire sui propri risultati».
«Se nascondevi delle informazioni, soprattutto riguardanti un disastro aziendale, era spietato», mi raccontò un ex collega di Calloway. «Ma se ti facevi avanti immediatamente, era decisamente indiligente. Il risultato era una cultura nella quale la gente era molto sincera, molto spontanea e aperta sulla verità.»
Confrontiamo queste affermazioni con quanto mi è stato raccontato da un dirigente di una compagnia che lavora nel campo dell'alta tecnologia: «Qua da noi, dire la verità è un comportamento che ti stronca la carriera».
Un segnale della vitalità di un'organizzazione in larga misura ignorato è rappresentato dai consueti stati d'animo di chi ci lavora. La teoria dei sistemi ci avverte che ignorare una qualsiasi categoria significativa di dati significa limitare la comprensione dei fenomeni e le reazioni ad essi. In un'organizzazione, sondare in profondità le correnti emotive è una strategia che può produrre benefici concreti.
Prendiamo il caso di una divisione della Petro Canada, la più grande compagnia del paese per la raffinazione del petrolio e della benzina. «In quel periodo, gli uomini che lavoravano agli impianti per la benzina avevano avuto una serie di incidenti, alcuni dei quali fatali», mi spiega un consulente che venne chiamato in aiuto. «Scoprii che nella cultura maschilista tipica del settore petrolchimico, la gente non ammetteva mai i propri sentimenti. Se qualcuno arrivava a lavoro con i postumi di una sbornia, preoccupato per la malattia di un figlio o turbato per una lite con la moglie, i colleghi non gli chiedevano mai che cosa avesse quel giorno, né se fosse abbastanza in forma per essere ben lucido sul lavoro. Di conseguenza, il tipo in questione sarebbe stato disattento e avrebbe causato un incidente.»
Avendo compreso l'aspetto essenziale dei costi comportati, in termini umani, dall'ignorare le emozioni sul lavoro, la compagnia cominciò a proporre dei seminari alle squadre di operai, «per far loro capire che il modo in cui si sentono ha delle conseguenze – che è una cosa importante. Compresero che dovevano prendersi cura gli uni degli altri; che facevano un favore a se stessi e agli altri se dicevano come si sentivano; che se un giorno uro era fuori fase, avrebbero dovuto dirgli "non credo di poter lavorare con te oggi". E il livello di sicurezza migliorò».
Questo non significa sostenere che le aziende dovrebbero essere luoghi dove mettere a nudo i propri sentimenti e la propria anima – una concezione del luogo di lavoro, questa, un po' da incubo, come fosse una sorta di messa in mostra delle emozioni o di gruppo di lavoro sulla sensibilità in attività permanente. Una cosa simile sarebbe assolutamente controproducente – un confondere la distinzione fra lavoro e vita privata che già di per se stesso indicherebbe una scarsa competenza emotiva.
Dalla prospettiva del lavoro, i sentimenti contano nella misura in cui facilitano l'obiettivo comune o interferiscono con esso. Il paradosso, però, è che le nostre interazioni sul lavoro sono relazioni interpersonali esattamente come tutte le altre; le nostre passioni operano anche in questo particolare ambiente. Come dice Warren Bennis, esperto di leadership: «La gente si sente sola con il proprio dolore – con le offese, la solitudine, le porte chiuse, le cose non dette e inascoltate. Non è ammissibile discutere queste cose».
In troppe organizzazioni le regole fondamentali che emarginano le realtà emotive distolgono la nostra attenzione da queste interferenze come se non si trattasse di cose importanti. Questi paraocchi non fanno che propagare infiniti problemi – decisioni demoralizzanti; difficoltà a gestire la creatività e a prendere decisioni; il trascurare l'essenziale valore delle abilità sociali; l'incapacità di motivare gli altri e a maggior ragione di ispirarli; le vuote dichiarazioni di missione e gli altrettanto insignificanti slogan del giorno; una leadership ligia ai regolamenti, priva di entusiasmo o di energia; un ottuso sfacchinare al posto di un contributo animato dalla spontaneità; mancanza di spirito di corpo; team inefficienti.
Come mi disse il dirigente di una compagnia in rapido sviluppo, dove di recente il tasso di turnover aveva raggiunto il 40 per cento: «La gente ai vertici lavora senza sosta; molti di loro sono candidati al divorzio. Noi prendiamo stipendi altissimi, ma se ogni anno non facciamo meglio del precedente ci licenziano. Qui, la sicurezza del posto di lavoro non esiste».
Questi tristi resoconti sono il nuovo rovescio della medaglia in un paesaggio tecnologico e competitivo che ha intensificato le sue pretese. «Le acque sono perennemente agitate», mi racconta un manager di un'azienda di grandissimo successo. «Oggi c'è moltissima turbolenza derivante dalla complessità dell'ambiente aziendale. Una volta uno era abituato a tornarsene a casa e a riposare, ma oggi, se lavori per una compagnia globale, devi essere disponibile venti ore al giorno – l'Europa comincia a chiamare alle quattro di mattina, l'Asia va avanti fino a mezzanotte.»
Uno dei modi con cui la sua compagnia ottiene che i dipendenti si mettano alla prova senza tregua è quello di riconoscer loro retribuzioni altissime: pagano più di chiunque altro e molti dipendenti prendono premi di produzione enormi. Per la compagnia è una strategia vincente, ma spesso comporta elevati costi a livello personale. Aziende come questa possono mettere il turbo alla produttività – ma fino a un certo punto. I dipendenti più motivati mieteranno i loro premi, ma se insistono su questo ritmo frenetico, la loro vita personale, il loro morale, la loro salute – o anche tutte queste cose insieme – sicuramente finiranno per soffrirne.
Poche organizzazioni si preoccupano di stabilire in che misura esse stesse sono fonte di stress. Più consueto è l'atteggiamento con il quale si tende a dare la colpa alla vittima. «L'esaurimento è davvero un problema per l'individuo», disse un direttore generale a un ricercatore.12-7 «Ma non ha alcun impatto reale sulla produttività dell'organizzazione. È un problema umano, non una questione ben definita di finanza o di strategia. Se la gente vuole usare il programma di assistenza ai dipendenti o prendersi dei giorni di vacanza per riposarsi, va benissimo. Queste cose ci sono apposta. L'organizzazione non può fare molto di più.»
L'errore evidente di questo dirigente sta in primo luogo nell'assumere che un'organizzazione possa fare poco, e in secondo luogo che l'esaurimento emotivo dei suoi dipendenti non abbia effetti sulla produttività. Uno dei segni caratteristici dell'esaurimento è una caduta dell'efficienza e della capacità di eseguire anche compiti di routine. Se questo non accade solo in pochi individui, ma in un'ampia fascia di dipendenti, la prestazione dell'organizzazione non può non risentirne.
Uno studio sul fenomeno dell'esaurimento nelle infermiere mi servirà a chiarire il punto. In un grande ospedale, nelle infermiere impiegate nelle unità di degenza, la presenza dei classici sintomi dell'esaurimento – cinismo, sfinimento, e frustrazione nei confronti delle condizioni di lavoro – era correlata al livello di insoddisfazione dei pazienti relativamente al soggiorno ospedaliero. Quanto più esse erano soddisfatte del loro lavoro, tanto meglio i pazienti giudicavano, nel complesso, il proprio periodo di degenza.12-8 Poiché i pazienti sono consumatori che compiono delle scelte sul luogo dove spendere i dollari dell'assistenza sanitaria, queste realtà umane possono comportare una grossa differenza nella competitività degli ospedali.
Consideriamo anche i rischi nel caso in cui le cose vadano male. In uno studio condotto su dodicimila lavoratori impegnati nel settore sanitario, i dipartimenti e gli ospedali nei quali erano più frequenti le lamentele per lo stress sul lavoro erano anche quelli più spesso oggetto di cause legali per negligenza e imperizia.12-9
Le aziende possono fare molto per proteggere se stesse – e i propri dipendenti – dai costi dell'esaurimento, come è stato dimostrato da una serie di studi durati vent'anni, concentratisi sulle cause del fenomeno e condotti su diverse migliaia di uomini e donne impiegati presso centinaia di organizzazioni.12-10 Sebbene la maggior parte degli studi sull'esaurimento fosse concentrata sull'individuo, uno di essi analizzava le prassi e i modelli delle organizzazioni in cui lavoravano le persone coinvolte. Furono individuati sei comportamenti principali attraverso i quali le organizzazioni demoralizzavano e demotivavano i propri dipendenti:
Sovraccarico di lavoro: Una quantità di lavoro eccessiva, da svolgere avendo a disposizione troppo poco tempo e scarso supporto. I tagli ai posti di lavoro impongono ai supervisori di controllare più dipendenti, alle infermiere di assistere più pazienti, agli insegnanti di seguire più studenti, ai cassieri delle banche di effettuare un maggior numero di operazioni, e ai manager di gestire una maggior quantità di compiti amministrativi. Nel momento in cui il ritmo, la complessità e le esigenze del lavoro si intensificano, le persone si sentono sopraffatte. L'aumento del carico di lavoro erode il tempo libero durante il quale l'individuo può recuperare. Lo sfinimento si accumula e il lavoro ne soffre.
Mancanza di autonomia: Dover rispondere del proprio lavoro ma avere poca voce in capitolo sul come farlo. Quando i dipendenti intravedono il modo per svolgere meglio i propri compiti ma sono trattenuti dalla presenza di rigide regole, la microgestione comporta frustrazione. Ciò diminuisce la responsabilità, la flessibilità e l'innovazione. Il messaggio emotivo recepito dai dipendenti è che l'azienda per la quale lavorano non ha rispetto del loro giudizio e delle loro abilità innate.
Gratificazioni insufficienti: Dover fare di più e ricevere troppo poco in cambio. Con i tagli ai posti di lavoro, il congelamento dei salari e le tendenze a dare il lavoro in appalto e a ridurre benefici aggiuntivi, la gente non si aspetta più che il proprio stipendio aumenti con il procedere della carriera. Un'altra carenza di gratificazione è quella a livello emotivo: il sovraccarico di lavoro, combinato all'insicurezza del posto e a un troppo scarso controllo sul proprio lavoro, spoglia quest'ultimo del suo piacere intrinseco.
Perdita dei legami: Isolamento crescente sul lavoro. Le relazioni interpersonali sono il collante umano che fa eccellere i team. I continui spostamenti di dipendenti riducono l'impegno che l'individuo prova verso il suo gruppo di lavoro. Con la frammentazione delle relazioni, i piaceri derivanti dal senso di cameratismo con i colleghi va erodendosi. Questa crescente impressione di estraneità alimenta il conflitto, nel momento in cui erode la storia comune e i legami emotivi che potrebbero contribuire a sanare tali fratture.
Slealtà: Ingiustizie nel modo di trattare le persone. La mancanza di lealtà – non importa se si tratta di retribuzioni o carichi di lavoro ineguali, di indifferenza nei confronti delle rimostranze o di politiche che hanno tutta l'aria di essere prepotenti – alimenta il risentimento. La rapida escalation delle retribuzioni e dei bonus riservati agli alti dirigenti mentre i salari ai livelli più bassi aumentano poco – o non aumentano affatto – indebolisce la fiducia che i dipendenti ripongono in chi gestisce l'organizzazione. In assenza di un confronto onesto, il risentimento cresce. Tutto ciò porta a cinismo e alienazione, insieme a una perdita di entusiasmo per la missione dell'organizzazione.
Conflitti di valori: Una dissonanza fra i principi dell'individuo e le esigenze del suo lavoro. Indipendentemente dal fatto che questo spinga i dipendenti a mentire per chiudere una vendita, a omettere un controllo di sicurezza per riuscire a terminare un lavoro in tempo, o semplicemente a usare tattiche machiavelliche per sopravvivere in un ambiente ferocemente competitivo, è il loro senso morale a pagarne il prezzo. Un lavoro in contrasto con i propri principi scoraggia l'individuo portandolo a mettere in dubbio il valore di ciò che fa. Uguale effetto ha la dichiarazione, da parte dell'azienda, di una missione elevata, poi tradita dalla realtà della sua prassi quotidiana.
Il risultato di questi abusi da parte dell'organizzazione è quello di alimentare l'esaurimento cronico e il cinismo, oltre a generare una perdita di motivazione, entusiasmo e produttività.12-11 Ora, invece, consideriamo i vantaggi che un'azienda può trarre dal potenziamento della propria intelligenza emotiva.
Un'industria stava perdendo terreno nel confronto con la concorrenza; là dove gli altri riuscivano a inoltrare preventivi per possibili lavori in venti giorni, la stessa operazione ne richiedeva ben quaranta all'industria in questione.
Così si riorganizzarono. Modificarono il processo di preparazione dei preventivi aggiungendo un maggior numero di controlli, computerizzandone alcune fasi e compiendo altre modificazioni strutturali. Il risultato fu che il tempo necessario per approntare i preventivi sali da quaranta a quarantacinque giorni.
Allora si guardarono intorno, e si rivolsero a consulenti specialisti nella riorganizzazione. A questo punto, il tempo necessario per svolgere la procedura lievitò a settanta giorni, e il tasso d'errore salì al 30 per cento.
Disperati, si rivolsero agli esperti dei metodi di apprendimento per le organizzazioni. Oggi, il tempo occorrente per approntare un preventivo è stato ridotto a cinque giorni, e il tasso di errore è sceso al 2 per cento.
Come hanno fatto? Operando dei cambiamenti nelle proprie relazioni, e non nella tecnologia o nella struttura. «E inutile cercare di risolvere con la tecnologia o la struttura un problema che in realtà riguarda le persone», mi dice Nick Zeniuk, presidente della Interactive Learning Labs, che ha guidato la compagnia nel suo processo di apprendimento.
Zeniuk lo sa bene. Egli si conquistò una grande fama nel campo dell'apprendimento delle organizzazioni per l'importante ruolo avuto in un trionfo di quei metodi – quando, nel 1995, insieme a Fred Simon, guidò il lancio del nuovo modello della Lincoln Continental; la storia del loro successo è citata come un classico da Peter Senge, del Learning Center del MIT.12-12
Non c'è dubbio che la storia della riprogettazione della Lincoln Continental, che produsse il modello del 1995, sia quella di un successo spettacolare. Valutazioni indipendenti, relative alla qualità dell'auto e alla soddisfazione dei proprietari, classificarono la Lincoln del '95 in vetta alla linea Ford – al di sopra di qualsiasi altra vettura americana della sua categoria, e alla pari con i migliori concorrenti esteri, dalla Mercedes all'Infiniti. La soddisfazione dei clienti salì del 9 per cento, arrivando così all'85 (la Lexus, l'auto con il massimo punteggio in questo parametro, toccava l'86 per cento).
Un fatto ugualmente impressionante fu che, sebbene i lavori di riprogettazione fossero partiti con un ritardo di quattro mesi, l'auto fu immessa sul mercato con un mese di anticipo rispetto ai programmi. E qualunque criterio si adottasse per valutare il successo della produzione, la nuova Lincoln raggiungeva o superava gli obiettivi – un'impresa prodigiosa per un processo che aveva coinvolto più di un migliaio di persone, con un team base di trecento progettisti e un budget di un miliardo di dollari.
Sarebbe stato facile considerare quell'impresa come una sfida interamente tecnica – un problema cognitivo per eccellenza che poteva essere risolto solo dalle persone più brillanti in possesso del maggiore expertise. La progettazione automobilistica richiede l'armonizzazione di centinaia di esigenze a volte contraddittorie – dalla coppia del motore al sistema frenante, all'accelerazione e all'economia dei consumi di carburante. La parte più intricata e difficile del progetto di una nuova automobile consiste nell'arrivare alle specifiche finali delle sue componenti – un compito simile a quello di immaginare la forma e le dimensioni di ciascun pezzo di un gigantesco puzzle, costruendo le parti mentre si procede, nell'atto stesso in cui si cerca di risolvere il problema.
Comprensibilmente, dopo l'assemblaggio del primo prototipo, i team che si occupano di progettazione automobilistica in genere devono tornare sui propri passi e rielaborare numerose specifiche, in quanto a quel punto emergono evidenti dei problemi imprevisti. Una volta che è stato fuso il metallo per ottenere un modello funzionante, queste rielaborazioni sono molto costose: per ogni pezzo di cui vengono riviste le specifiche, occorrono nuove macchine e nuovi impianti, il che solitamente comporta costi nell'ordine di milioni di dollari.
Ciò nondimeno, il team dei progettisti della Continental, che disponeva di un budget di 90 milioni di dollari per queste esigenze di rinnovamento dei macchinari, usò solo un terzo di quella cifra, resistendo alla tendenza, ampiamente diffusa nel settore, di superare gli stanziamenti. Il lavoro di progettazione si rivelò efficiente proprio come il motore della Continental: i disegni tecnici delle componenti furono approntati con un mese d'anticipo invece che con i consueti tre o quattro di ritardo, e a quel pun:o i pezzi in forma già definitiva erano il 99 per cento invece del 50 per cento standard.
L'impresa affrontata dal team di riprogettazione della Continental fu quella di ottenere risultati tangibili, ossia un'auto migliore, servendosi di approcci – come l'apertura, l'onestà, la fiducia e la capacità di comunicare in modo fluido – che molti manager del settore automobilistico ritenevano troppo soft per poter esercitare un reale impatto.12-13 Per tradizione, la cultura del settore non teneva in nessun conto quei valori: era gerarchica e basata sull'autorità, e dava per scontato che il capo sapesse più degli altri e dovesse prendere tutte le decisioni fondamentali.
A rendere più complesso questo problema culturale c'era stato il levarsi di una densa nebbia di emotività. Intanto, c'era un senso diffuso di frustrazione per il fatto di aver cominciato con quattro mesi di ritardo, oltre a numerose barriere che si opponevano alla fiducia e all'apertura. Uno dei blocchi principali era proprio al vertice del team; Zeniuk ricorda che le tensioni insorte fra lui stesso e il manager che si occupava degli aspetti finanziari del progetto erano talmente forti da non permettergli di parlare con il suo interlocutore «in un intervallo che, espresso in decibel, fosse meno che alto». Quella tensione era sintomo della profonda ostilità e sfiducia esistente fra coloro che avevano l'incarico di produrre il nuovo modello e coloro il cui compito era di controllare i costi dell'operazione.
Per affrontare questi problemi, il gruppo dirigente adottò molti metodi dell'apprendimento nelle organizzazioni, uno dei quali insegnava a liberarsi delle abitudini difensive normalmente assunte nella conversazione.12-14 Il metodo è semplice: invece di litigare, le parti concordano di esplorare gli assunti dai quali traggono forza i rispettivi punti di vista.
Un classico esempio del modo in cui tendiamo a saltare alle conclusioni è quando a una riunione vediamo qualcuno che sbadiglia, e immediatamente assumiamo che si stia annoiando, per poi passare a una generalizzazione più negativa – e cioè che non gliene importi nulla della riunione, di quello che pensano gli altri e dell'intero progetto. E così finiamo per dirgli: «Lei mi ha deluso».
Nel contesto del metodo di apprendimento per le organizzazioni, quel commento verrebbe riportato sotto il titolo: «Cose dette o fatte». I dati più critici, però, sono in un'altra colonna, e precisamente «Pensieri e sentimenti non espressi» – il fatto che lo sbadiglio significasse che l'uomo era annoiato e non aveva alcun interesse per la riunione, per gli altri convenuti e per il progetto. In quella colonna, vengono anche riportati sentimenti di offesa e di rabbia.12-15
Una volta affiorati, questi assunti possono essere verificati attraverso la discussione. Ad esempio, potremmo scoprire che lo sbadiglio non era stato provocato dalla noia ma piuttosto dallo sfinimento, dovuto all'essersi alzato di notte per via del pianto di un neonato. Questo esercitarci a esprimere ciò che pensiamo e sentiamo, ma non diciamo ad alta voce, ci consente di comprendere i sentimenti e gli assunti nascosti che altrimenti potrebbero creare rancori inspiegabili e sconcertanti impasse.
Oltre a richiedere autoconsapevolezza per richiamare alla mente quei pensieri e quei sentimenti nascosti, questo metodo esige altre competenze emotive: empatia – per ascoltare con sensibilità il punto di vista dell'altra persona; e abilità sociali – per collaborare proficuamente nell'esplorazione delle differenze nascoste e dei sentimenti pesanti che vanno via via affiorando.
In un certo senso, le conversazioni reali sono quelle interiori, se non altro perché rivelano come le persone pensino e si sentano davvero riguardo agli eventi in corso. Il dialogo interiore, soprattutto se è emotivamente burrascoso, trapela spesso in un tono di voce aggressivo, oppure, tanto per fare un esempio, in un distogliere lo sguardo. Ma quando gli eventi si svolgono velocemente o noi siamo sotto pressione o distratti, possiamo lasciarci sfuggire questi segnali sia negli altri che in noi stessi. Il risultato è che, sebbene sia ricco di informazioni essenziali – dubbi, risentimenti, paure e speranze – il dialogo interiore viene ignorato.
Come dice Zeniuk, la verità è che non sappiamo che fare di questa conversazione reale, e «così la ignoriamo. È come con i rifiuti tossici: che ne fai? Li scarichi? Li seppellisci? Qualunque cosa facciamo di questi particolari rifiuti tossici, comunque essi sono corrosivi – inquinano la conversazione. Se li offendiamo, gli altri tirano fuori le loro difese». E così la conversazione sul lavoro procede come se non ci fosse alcun dialogo interiore, sebbene in realtà tutti siano impegnati a fondo in questo scambio muto. Le radici del conflitto – come pure l'inizio dell'autentica collaborazione – vanno ricercate in questa conversazione profonda.
Quando fu usato all'inizio del progetto della Lincoln Continental, questo esercizio sul dialogo rivelò la presenza di due fazioni aspramente contrapposte. Coloro che si occupavano degli aspetti finanziari pensavano che i responsabili del programma non si curassero affatto di controllarne i costi; questi ultimi, da parte loro, pensavano che fossero gli altri «a non avere la minima idea» di quel che ci volesse per fabbricare un'auto di qualità. Il risultato di questa reciproca esplorazione di sentimenti e assunti nascosti fu quello di chiarire come il progetto fosse intralciato dalla mancanza di fiducia e di apertura. I problemi essenziali erano i seguenti:
• La paura di sbagliare induceva gli individui a tenere le informazioni per sé
• L'esigenza di controllo dei capi impediva ai membri del team di usare le proprie capacità ottimali
• Il sospetto era diffuso, al punto da considerare gli altri inutili e indegni di fiducia
A questo punto, l'intelligenza emotiva diventa essenziale. Poter disporre di un gruppo di lavoro n grado di spingersi oltre la paura, le lotte di potere e il sospetto assicura una riserva di fiducia su cui stringere relazioni. Il lavoro si concentrò tanto sul rafforzamento della fiducia nei rapporti, quanto sul far affiorare eventuali assunti nascosti. Questo richiese notevoli interventi di natura sociale. Come disse Fred Simon, «volendo migliorare la qualità di quell'auto, il massimo che potevo fare era di aiutare i membri del mio team a sviluppare relazioni interpersonali migliori e a considerarsi di più come persone».
«Inizialmente la gente provava un profondo risentimento ed era sfiduciata per la propria incapacità a svolgere il lavoro che le toccava – i dipendenti cominciarono ad assumere un atteggiamento del tipo diamo-la-colpa-al-capo», ricorda Zeniuk. «Ma quando anche i capi si lasciarono coinvolgere e stettero davvero a sentire quello che i dipendenti avevano da dire, quell'atteggiamento mutò in quest'altro: "D'accordo, posso farlo. Ma lasciatemi lavorare in pace." D'altra parte, anche questo non andava: nel nostro lavoro noi siamo legati gli uni agli altri, e occorreva fare il passo successivo: imparare a essere legati. Fu così che i capi divennero dei facilitatoli, delle figure-guida. Il ruolo del leader non fu più solo quello di controllare e comandare, ma anche quello di ascoltare, procurare risorse e amministrare il tutto.»
Per facilitare questi cambiamenti, tutto il team di progettazione, forte di trecento elementi, fu suddiviso in gruppi di venti persone che lavoravano sui problemi reali con cui si confrontavano quotidianamente, ad esempio la riconfigurazione degli interni dell'auto. Mentre procedevano in queste discussioni, alcuni consulenti che coprivano il ruolo di facilitatoli, come Daniel Kim, allora al MIT, insegnarono loro gli strumenti concettuali fondamentali dell'apprendimento collaborativo. Ma, come spiega Zeniuk, la chiave stette nella consapevolezza emotiva, nell'empatia e nella costruzione di relazioni. Quello di alimentare l'intelligenza emotiva non era un obiettivo diretto, ma si evolse spontaneamente mentre cercavamo di raggiungere i nostri obiettivi.
Consideriamo ancora le difficoltà implicate: c'erano quindici diversi team di progettisti, ciascuno dei quali lavorava indipendentemente dagli altri concentrandosi sulle componenti dell'auto che svolgevano una determinata funzione – ad esempio il telaio e gli organi di trasmissione. Nel progetto finale dell'automobile, però, i frutti della loro fatica avrebbero dovuto confluire senza che emergessero soluzioni di continuità; nonostante ciò, fra loro non c'era abbastanza dialogo. Tradizionalmente, ogni team lavorava isolato dagli altri per produrre quello che riteneva essere il progetto migliore; poi cercava di costringere gli altri a cambiare i loro progetti, così da adattarli alle proprie esigenze. Era una vera e propria guerra per buttar fuori l'altro.
«Se faccio un errore di progettazione nella lamiera e poi devo tornare indietro e modificare i macchinari per correggerlo, il tutto può venire a costare nove milioni di dollari», osserva Zeniuk. «Ma se scopro l'errore prima dello stadio della lavorazione della lamiera, la correzione non costa nulla. Se qualcosa non funziona – se ci sono cattive notizie – è meglio saperle prima possibile.»
Nella progettazione fisica di un nuovo modello, potrebbero essere apportati centinaia di piccoli adeguamenti alle specifiche delle parti. Ecco perché il team della Continental aveva un budget di 90 milioni di dollari per coprire i costi di quelle modifiche, una previsione di spesa che nell'industria automobilistica americana viene in genere superata. Ma Zeniuk sapeva che in Giappone, la maggior parte di queste modifiche viene apportata in anticipo, prima che le specifiche entrino nella fase in cui le correzioni diventano tanto costose.
«Scoprimmo che se non venivamo a sapere in anticipo di questi cambiamenti era perché gli ingegneri temevano di essere messi in imbarazzo o attaccati», mi spiega Zeniuk. «Speravano che qualcun altro ammettesse per primo l'errore e se ne prendesse la colpa. Pensavano: "D'accordo, correggerò il mio errore sul cruscotto quando loro sistemeranno il loro problema ai pannelli laterali e così nessuno si accorgerà che ho preso un granchio". Come fai a ottenere che la gente condivida una realtà spiacevole quando ha così paura?»
Ma il cambiamento essenziale si presentò, ad esempio, nell'adozione di un nuovo stile alle riunioni. Zeniuk dice: «Ci assicurammo che tutti avessero la possibilità di mettere gli altri a parte di quel che avevano in mente», invece di lasciare che prendessero il sopravvento le vecchie abitudini, in cui «i dirigenti affrontavano la situazione pensando di avere tutte le risposte ed esitavano ad ammettere di non sapere qualcosa». Invece, «comunicavamo una decisione e chiedevamo "Come vi sentite riguardo a questo?"».
Invece dei soliti imbrogli politici e dei tentativi di fare buona impressione – atteggiamenti che tanto spesso impostano il tono delle riunioni – questo approccio più diretto fece presa, ed effettivamente aumentò il livello di autoconsapevolezza collettiva. Quando qualcuno si sentiva a disagio per una decisione, la riunione si fermava e venivano usati i metodi appresi in precedenza per compiere una ricerca attenta e rispettosa dei sentimenti e degli assunti che alimentavano quel disagio. «Esiste un'elevata probabilità che ci fosse una ragione per quella sensazione negativa, e spesso quella ragione poteva cambiare completamente la decisione», afferma Zeniuk. «Ci mettemmo poco a raggiungere quel livello di apertura e di onestà.»12-16
Egli prende atto di un concreto vantaggio offerto da questo approccio più intelligente sul piano emotivo: «I team smisero di competere per soddisfare a spese degli altri i propri obiettivi di costi o di qualità e cominciarono a collaborare. Invece di lavorare su isole separate cominciò ad esserci un costante avanti e indietro. Una volta che riuscirono a vedere il quadro generale – e cioè il fatto che il mio lavoro fa parte di quello degli altri – i diversi gruppi accettarono molti, moltissimi compromessi. Ci fu addirittura il caso di alcuni team che rinunciarono a parte del proprio budget per consentire ad altri di aumentare i costi e la qualità della loro parte del progetto – una cosa che non era proprio mai accaduta prima nella progettazione automobilistica».
E per quanto riguarda il profitto? «Apportammo settecento correzioni alle specifiche, diciotto mesi prima di entrare in produzione, invece di ritrovarci con la consueta ondata di cambiamenti costosi all'ultimo momento. Questo ci consentì di risparmiare sessanta milioni di dollari in costi di adeguamento dei macchinari su un budget di novanta milioni, e di finire in anticipo di un mese rispetto ai programmi, nonostante fossimo partiti con quattro mesi di ritardo.»