Era il principio degli anni Settanta e in tutto il mondo infuriava la protesta degli studenti contro la guerra del Vietnam; in un paese straniero, la funzionarla di una US Information Agency aveva ricevuto informazioni inquietanti – un gruppo di studenti minacciava di bruciare la sua biblioteca. La donna, però, aveva alcuni amici nel gruppo di attivisti che avevano avanzato la minaccia. A un primo sguardo, il suo modo di reagire potrebbe sembrare ingenuo o sconsiderato – o magari anche entrambe le cose: decise di invitare gli studenti a servirsi dei locali della biblioteca per alcune delle loro riunioni.
E poi ci portò anche gli americani che vivevano in quel paese, affinché ascoltassero le loro ragioni; così, invece di uno scontro, innescò i meccanismi del dialogo.
Nel farlo, la donna aveva messo a frutto la propria relazione personale con i leader degli studenti, in particolare con quelli che conosceva bene al punto da potersene fidare – e che a loro volta si fidavano di lei. Questa tattica finì per aprire i canali della comprensione reciproca e rafforzò l'amicizia della donna con i leader degli studenti. La sua biblioteca non fu mai toccata.
La donna aveva dimostrato di possedere le capacità di un negoziatore o di un pacificatore superbo, in grado di comprendere una situazione carica di tensione e in rapida evoluzione, e di reagire in modo da portare le parti a unirsi invece che a scontrarsi. La sua biblioteca sfuggì ai danni che si abbatterono invece su altre basi americane all'estero, nelle quali lavoravano persone meno dotate di queste abilità umane.
La bibliotecaria di cui abbiamo parlato faceva parte di un gruppo di giovani diplomatici che il Dipartimento di Stato identificò come eccellenti e che furono intervistati approfonditamente da un gruppo di ricercatori diretto dal professor David McClelland di Harvard.2-1
A quell'epoca, McClelland era per me il principale punto di riferimento per la tesi di dottorato e mi attirò nel suo programma di ricerca. I risultati dei suoi studi lo portarono a pubblicare un articolo che avrebbe innescato una rivoluzione nel nostro modo di considerare le radici dell'eccellenza.
Nella sua esplorazione – finalizzata a individuare gli ingredienti di prestazioni lavorative e professionali eccellenti – McClelland si era imbarcato in un'impresa che aveva avuto le sue prime basi scientifiche al principio del XX secolo, nell'opera di Frederick Taylor. Gli esperti di ottimizzazione produttiva di corrente taylorista ebbero una grandissima influenza sul mondo della produzione, analizzando i movimenti meccanicamente più efficienti eseguibili dai lavoratori. Il lavoro dell'uomo veniva misurato col metro della macchina.
Il taylorismo fu seguito a ruota da un altro standard di valutazione: i test sul quoziente intellettivo (il QI). Secondo i suoi fautori, la misura corretta dell'eccellenza doveva tener conto delle capacità della mente umana.
In seguito, con l'ascesa del pensiero freudiano, un altro esercito di esperti asserì che fra gli ingredienti necessari per l'eccellenza, oltre al QI, c'era la personalità. Negli anni Sessanta, i test e le tipologie per valutare la personalità dell'individuo – ad esempio il fatto che una persona fosse estroversa o introversa, «emotiva» o «razionale» – erano ormai entrati a far parte della misurazione standard delle potenzialità lavorative e professionali.
Ma c'era un problema. In realtà, molti test sulla personalità erano stati messi a punto per ragioni completamente diverse – ad esempio per diagnosticare disturbi psicologici – e pertanto avevano uno scarso potere predittivo relativamente alla qualità delle prestazioni sul lavoro. Quanto ai test per la misura del QI, anch'essi non erano infallibili; spesso, sul lavoro, individui con un elevato QI davano prestazioni scarse, mentre altri, con un QI medio, riuscivano benissimo.
L'articolo pubblicato da McClelland nel 1973, «Testing for Competence Rather than Intelligence», spostò i termini del dibattito. L'autore sosteneva che i parametri tradizionali – come la disposizione agli studi, le votazioni scolastiche e gli attestati universitari – non fossero in grado di prevedere né la qualità delle prestazioni di un individuo sul lavoro né il suo successo nella vita.2-2 Invece, McClelland ipotizzava che gli individui di successe si distinguessero da quelli capaci solo di conservarsi il posto di lavoro grazie a una serie di competenze specifiche come l'empatia, l'autodisciplina e l'iniziativa. Per scoprire le competenze che, in un particolare lavoro, contribuiscono alla prestazione eccezionale, McClelland suggeriva di cominciare a osservare gli individui eccellenti per determinare quali fossero le loro competenze.
L'articolo di McClelland inaugurò un approccio del tutto nuovo alla misura dell'eccellenza – un approccio che valuta la competenza delle persone relativamente al loro specifico lavoro. Secondo questa corrente, una «competenza» è un aspetto personale o un insieme di abitudini che conduce a prestazioni lavorative e professionali più efficaci o comunque superiori – in altre parole, si tratta di un'abilità che aggiunge un evidente valore economico all'impegno che l'individuo mette nel proprio lavoro.
Nell'ultimo quarto di secolo, questa intuizione ha stimolato numerose ricerche, condotte su centinaia di migliaia di persone che lavorano – dagli impiegati ai massimi dirigenti – sia nel contesto di organizzazioni vaste come il governo degli Stati Uniti e la AT&T, sia in quello di realtà molto più limitate, come le ditte individuali di piccoli imprenditori. Quest'idea ha catalizzato un approccio all'addestramento e alla valutazione dell'eccellenza basato su una profonda comprensione delle qualità umane che consentono all'individuo di emergere. In tutti i casi, è stato dimostrato che l'intelligenza emotiva – un nucleo comune di abilità sociali e personali – è l'ingrediente chiave per il successo.
Due programmatori di computer mi stanno spiegando come affrontano il proprio lavoro, ossia la messa a punto di programmi che soddisfino le pressanti esigenze professionali dei loro clienti. Uno dei due racconta: «Mi disse che aveva bisogno di tutti i dati in un formato semplice che stesse su un'unica pagina». Così si mise al lavoro e consegnò al cliente esattamente quel che voleva.
Il secondo programmatore, però, sembra avere dei problemi ad arrivare al punto. A differenza del collega, egli non menziona assolutamente le esigenze del cliente. Invece, s'imbarca in una tiritera di dettagli tecnici: «Il compiler HP3000/30s BASIC era troppo lento e così sono andato direttamente in una routine in linguaggio macchina». In altre parole, quest'uomo si concentra sulle macchine – non sulle persone.
Il primo programmatore è stato giudicato un tipo eccezionale nel suo lavoro, in grado di scrivere programmi cosiddetti «user-friendly», ossia tali da mettere l'utente a proprio agio; in questo stesso compito, il secondo programmatore è a dir tanto mediocre, completamente desintonizzato rispetto ai suoi clienti. Il primo programmatore mostra di possedere le doti dell'intelligenza emotiva, l'altro esemplifica la loro assenza. Entrambi furono intervistati usando un metodo sviluppato da McClelland per rilevare le competenze che distinguono gli individui eccellenti nel contesto di realtà professionali diverse.2-3
L'intuizione originale di McClelland affondava le proprie radici nel lavoro di ricerca che egli aveva svolto per società e organizzazioni quali il Dipartimento di Stato degli USA, che gli aveva chiesto di valutare quali fossero le capacità dei funzionari più brillanti del Foreign Service – i giovani diplomatici che rappresentano gli Stati Uniti all'estero. Come gli addetti alle vendite o i responsabili dell'ufficio clienti di una grande società, il vero e proprio lavoro di questi funzionari consiste nel «vendere» l'America, ossia nel diffondere, in paesi stranieri, atteggiamenti mentali positivi verso gli Stati Uniti.
La selezione dei candidati per ricoprire questi incarichi diplomatici era di una difficoltà formidabile, e poteva essere superata solo da chi avesse ricevuto l'istruzione migliore. Il test di selezione serviva a valutare le capacità che a quel tempo i massimi funzionari del Dipartimento ritenevano indispensabili per un diplomatico: principalmente, solide basi in discipline accademiche come la storia e la cultura americana, proprietà e fluidità di linguaggio, e conoscenze tecniche specialistiche – ad esempio nel campo dell'economia. Il problema era che l'esame per verificare la preparazione degli aspiranti diplomatici non faceva che riflettere il loro profitto negli studi accademici.
I punteggi da loro conseguiti nel test di selezione non avevano nulla a che fare con la competenza che questi giovani diplomatici dimostravano poi nelle situazioni pratiche che si trovavano ad affrontare a Francoforte, Buenos Aires o Singapore.2-4 Anzi, le valutazioni delle prestazioni sul lavoro dei giovani diplomatici rivelarono una correlazione negativa con i punteggi conseguiti nei test di selezione; la semplice padronanza di materie accademiche, insomma, era irrilevante (peggio ancora, nociva) ai fini delle competenze che contano davvero in quella particolarissima forma di vendita che è la diplomazia.
McClelland scoprì che ciò che importava realmente era un tipo di competenza completamente diverso. Quando intervistò gli individui autori di prestazioni eccellenti – quelli che il Dipartimento di Stato aveva giudicato i giovani diplomatici più brillanti ed efficienti – e li confrontò con i colleghi mediocri, McClelland si rese conto che le differenze più significative emergevano in un insieme di abilità umane fondamentali che il QI non prende nemmeno in considerazione.
Fra i test radicalmente diversi ai quali McClelland si rivolse ce n'era uno, da poco messo a punto da un collega di Harvard, che consisteva in un'intelligente valutazione della capacità di leggere le emozioni. I soggetti sottoposti a questo test assistono alla videoregistrazione di alcune persone che parlano di situazioni caratterizzate da un forte impatto emotivo, come vivere un divorzio o avere un litigio sul lavoro.2-5 Un filtro elettronico altera l'audio, così che allo spettatore non arrivano le parole, ma solo i toni e le sfumature che trasmettono le emozioni provate in quel momento da chi parla.
McClelland scoprì che le persone in grado di eccellere ottenevano punteggi molto più alti di quelle mediocri in questo test sul riconoscimento accurato delle emozioni. Questo si traduceva nella capacità di leggere messaggi emotivi in persone di estrazione completamente diversa dalla propria, perfino quando non era possibile comprendere il loro linguaggio – una competenza fondamentale per mettere a frutto la diversità nel mondo del lavoro odierno.
Uno dopo l'altro, descrivendo i momenti critici verificatisi sul proprio lavoro, i funzionari del Dipartimento di Stato raccontarono di situazioni delicate simili a quella in cui si era trovata la bibliotecaria. Tuttavia, le storie riferite dai diplomatici socialmente meno avveduti narravano più spesso di eventi che avevano finito per esploder loro fra le mani, proprio a causa dell'incapacità di costoro di comprendere le persone con cui avevano a che fare o di trattare con esse.
Due delle persone più intelligenti che io abbia mai conosciuto (quanto meno nell'accezione accademica del termine «intelligente») fecero carriera in modo completamente diverso. Una di esse era un mio amico del primo anno al college, un ragazzo che aveva conseguito punteggi pieni al test di ammissione – due 800 nella sezione linguistica e in quella matematica del SAT e un 5 in ognuno dei tre test per la valutazione del livello culturale. Tuttavia gli studi non riuscivano a motivarlo e spesso non si presentava alle lezioni e consegnava i suoi lavori in ritardo. Abbandonò gli studi per un po', e si laureò dopo dieci anni. Oggi racconta di essere soddisfatto del suo lavoro di consulente informatico.
L'altra persona era un bambino prodigio in matematica, che entrò a soli dieci anni nella scuola superiore che frequentavo anch'io, si diplomò a dodici anni e ottenne il dottorato in matematica teorica presso l'Università di Oxford quando era appena diciottenne. Ai tempi della scuola superiore era leggermente piccolo di statura per la sua età – il che, visto che era molto più giovane di tutti noi, lo collocava una trentina di centimetri più in basso rispetto alla maggior parte degli studenti. D'altra parte, quanto a intelligenza, valeva il doppio di chiunque altro, e per questo motivo molti provavano del risentimento nei suoi confronti. Spesso era oggetto di derisione e veniva tormentato dai bulli. Ma nonostante la piccola statura, non indietreggiava. Minuto e battagliero come un gallo da combattimento, teneva testa ai giganti della scuola. Aveva una sicurezza di sé pari al suo intelletto, il che in parte spiega perché, come ho saputo di recente, oggi egli sia a capo di uno dei più prestigiosi dipartimenti di matematica del mondo.
Se si considera l'importanza che gli attribuiscono le scuole e i test di ammissione, il QI, di per se stesso, rende conto di una parte sorprendentemente limitata delle reali prestazioni di un individuo sul lavoro e nella vita. Quando fra i punteggi del QI e il successo nella carriera esiste effettivamente una correlazione, è stato stimato che il QI rende conto al massimo del 25 per cento della differenza di prestazione.2-6 Un'attenta analisi, però, indica che una stima più accurata forse non supera il 10 e potrebbe addirittura attestarsi al 4 per cento.2-7
Ciò significa che nei casi migliori il QI, considerato da solo, lascia senza spiegazione il 75 per cento del successo professionale, mentre nel caso peggiore non rende conto del 96 per cento di esso: in altre parole, questo test non ha valore predittivo per individuare chi avrà successo e chi fallirà. Ad esempio, uno studio condotto sui laureati di Harvard nel campo della legge, della medicina, dell'insegnamento e delle discipline aziendali scoprì una correlazione nulla, o addirittura negativa, fra i punteggi conseguiti agli esami di ammissione – un surrogato del QI – e il successo nella carriera.2-8
Paradossalmente, fra chi è abbastanza intelligente da sapersi muovere nei campi di attività più impegnativi sul piano cognitivo, il QI si rivela assai poco potente come fattore predittivo del successo; ma non solo: quanto più alte sono le barriere di intelligenza per entrare in un certo settore, tanto più importante diventa, ai fini del successo, il valore dell'intelligenza emotiva. In campi come l'ingegneria, la legge o la medicina – o nei master di amministrazione aziendale ad alto livello – dove la selezione professionale si concentra quasi esclusivamente su abilità intellettuali, l'intelligenza emotiva conta molto di più del QI nel determinare chi emergerà come leader.
«Quello che si impara a scuola disingue coloro che daranno prestazioni superiori solo in pochissimi dei cinque-seicento lavori per i quali abbiamo studiato le competente necessarie», mi spiega Lyle Spencer Jr, cofondatore e direttore della ricerca e della tecnologia della Hay/McBer, la società di consulenza avviata da McClelland.2-9 «Si tratta solo di una competenza-soglia; ti serve per accedere nel campo, ma non ti fa automaticamente eccellere. Per dare prestazioni di ordine superiore, contano di più le abilità legate all'intelligenza emotiva.»
Questa paradossale importanza dell'intelligenza emotiva in discipline cognitivamente impegnative è in primo luogo una conseguenza della difficoltà di accesso a quei particolari settori di attività. In campo tecnico e professionale, solitamente il QI-soglia per accedere è compreso fra 110 e 120.2-10 Poiché chiunque sia riuscito a entrare nel settore appartiene al 10 per cento più intelligente della popolazione generale, il risultato di dover superare una barriera iniziale tanto alta è che, ad accesso avvenuto, il QI offre un vantaggio competitivo relativamente limitato.
Nella nostra carriera non dobbiamo certo competere con persone che mancano dell'intelligenza necessaria per entrare nel nostro campo di attività e rimanerci; piuttosto, ci confrontiamo con il gruppo – molto più ristretto – di coloro che sono riusciti a vincere le difficoltà della scuola, gli esami di ammissione e tutti gli altri ostacoli di natura cognitiva che occorre superare per entrare nel nostro campo di attività.
Tuttavia, poiché di solito le abilità legate all'intelligenza emotiva non hanno un ruolo di primo piano come il QI ai fini della selezione per accedere a questi settori, coloro che riescono a superare la barriera d'accesso presentano, in questo ambito più «soft», una gamma di variazione molto più ampia di quella riscontrabile per il QI. La cospicua differenza fra coloro che si trovano all'estremo superiore e a quello inferiore del continuum dell'intelligenza emotiva, fornisce ai primi un fondamentale vantaggio competitivo. Pertanto, ai fini del successo, le abilità «soft» contano di più proprio in questi campi «hard».
Ecco il problema: siete un funzionario addetto alla cultura in un'ambasciata USA in Nord Africa, e ricevete un cablo da Washington che vi dice di proiettare un film su un politico statunitense detestato in quel paese.
Se lo farete, la popolazione locale giudicherà offensivo il vostro atto. Ma se non lo farete, ai quartieri generali, in patria, la prenderanno malissimo.
Che fate?
Non si tratta di una situazione ipotetica, ma del dilemma affrontato da uno dei funzionari del Foreign Service studiati da McClelland. Il diplomatico spiegò: «Sapevo che se avessi programmato quel film, il giorno dopo questo posto sarebbe stato bruciato da un mezzo migliaio di studenti inferociti. Ma Washington pensava che fosse un ottimo film. Quello che dovevo fare era trovare il modo di proiettarlo – così che l'Ambasciata potesse riferire a quelli di Washington che si era fatto come volevano loro – senza però offendere la gente del paese».
Quale fu la sua soluzione? Proiettò il film in un giorno di festività religiosa, quando sapeva benissimo che nessuno dei locali sarebbe andato a vederlo.
Questo brillante exploit di buon senso esemplifica l'intelligenza pratica, una combinazione di perizia tecnica ed esperienza.2-11 La nostra competenza nella vita quotidiana, oltre che dal QI, è determinata dalle capacità pratiche e dalle abilità tecniche di cui siamo padroni. Indipendentemente dal nostro potenziale intellettuale, è l'expertise – la totalità di informazioni specialistiche e abilità pratiche di cui disponiamo – a darci la competenza per svolgere un determinato lavoro.
I medici più competenti, ad esempio, sono quelli che possiedono un vasto serbatoio di esperienze di prima mano, continuano a espandere le proprie conoscenze di base tenendosi aggiornati sulle nuove scoperte, e sanno come attingere a questo patrimonio per formulare diagnosi e curare i malati. Nel prevedere la qualità dell'aiuto che essi sapranno dare ai propri pazienti, questo continuo impulso a mantenersi aggiornati conta molto di più dei punteggi con i quali furono ammessi all'Università.
In larga misura, l'expertise consiste in una combinazione fra il buon senso e le conoscenze e le capacità specialistiche che andiamo raccogliendo nel fare qualsiasi lavoro. L'expertise è frutto dell'apprendimento in trincea. E la consapevolezza dei trucchi del mestiere – quell'autentica conoscenza sul come fare un lavoro che deriva solo dall'esperienza.
Queste abilità pratiche sono state estesamente studiate dallo psicologo di Yale Robert Sternberg, un'autentica autorità in materia di intelligenza e successo.2-12 Grazie a test eseguiti sui manager delle cinquecento aziende statunitensi con il massimo fatturato annuo, Sternberg scoprì che l'intelligenza pratica sembra render conto del successo sul lavoro almeno nella stessa misura del QI.2-13
Tuttavia, è raro che l'intelligenza pratica rappresenti il principale fattore determinante la superiorità di una prestazione professionale. «Nelle centinaia di studi rigorosi nel corso dei quali abbiamo confrontato, in società sparse in tutto il mondo, individui autori di prestazioni eccellenti con altri solo mediocri, abbiamo constatato come non fosse mai l'expertise a fare la differenza», mi racconta Ruth Jacobs, consulente senior alla Hay/McBer di Boston.
«L'expertise è una competenza di base. Ne hai bisogno per ottenere un determinato lavoro e per portarlo a termine, ma la qualità della tua prestazione è determinata dal modo in cui lo fai – ossia dalle altre competenze che aggiungi all'expertise», spiega Jacobs. «Sei in grado di tradurre il tuo expertise in qualcosa che si distingua e sia vendibile? Se non ne sei capace, il solo fatto di possederlo farà comunque poca differenza.»
Chi è incaricato della supervisione del lavoro svolto da tecnici e professionisti, ad esempio, deve possedere un certo grado di expertise nel settore specifico; sarebbe pressoché impossibile fare un lavoro del genere senza una comprensione ragionevole di ciò che le persone da controllare stanno facendo. D'altra parte, quell'expertise è solo un requisito-soglia: anche in campi eminentemente tecnici, i supervisori eccellenti non si distinguono per le loro abilità tecniche, ma per la capacità di trattare con le persone.2-14
Pertanto, proprio come il QI, anche l'esperienza e l'expertise, almeno in una certa misura, sono importanti; tuttavia, quando si tratta di prestazioni eccellenti, scopriamo che c'è qualcosa di più – molto di più.
Sternberg racconta l'aneddoto significativo di due studenti, Penn e Matt. Penn era brillante e creativo, esempio di quanto di meglio Yale avesse da offrire.2-15 Il suo problema era che lui stesso sapeva di essere eccezionale e quindi, come disse un suo professore, si comportava in modo «insopportabilmente arrogante». A dispetto delle sue capacità, Penn era irritante, soprattutto per chi doveva lavorare con lui.
Ciò nonostante, almeno sulla carta, era un tipo straordinario. Quando si laureò, ebbe molte offerte: tutte le più importanti organizzazioni operanti nel suo settore lo convocarono a sostenere un colloquio di assunzione; almeno fintanto che ci si limitava all'esame del suo curriculum, Penn era universalmente il migliore. Ma la sua arroganza emergeva fin troppo chiaramente, ed egli finì per ritrovarsi con una sola offerta di lavoro, da parte di una società di secondo piano.
Matt, un altro studente di Yale nello stesso campo di Penn, non era altrettanto brillante dal punto di vista accademico, ma era abilissimo nelle relazioni interpersonali: chiunque lavorasse con lui lo trovava simpatico. Matt si ritrovò con sette offerte di lavoro su otto colloqui sostenuti. In seguito, continuò ad avere successo nel suo campo, mentre Penn perse il suo primo lavoro dopo due anni.
Penn non aveva ciò che Matt possedeva in abbondanza: intelligenza emotiva.
Le capacità che fanno capo all'intelligenza emotiva funzionano in sinergia con quelle cognitive; chi è capace di prestazioni eccellenti dispone di entrambe. Quanto più il lavoro è complesso, tanto più conta l'intelligenza emotiva, se non altro perché una carenza in queste abilità può ostacolare l'uso dell'expertise tecnico e delle doti intellettuali – per quanto pronunciati essi siano. Prendiamo, a esempio, il caso di un alto dirigente che era stato appena assunto per amministrare un'azienda familiare da 65 milioni di dollari: era il primo presidente che non appartenesse alla famiglia dei proprietari.2-16
Un ricercatore, servendosi di un metodo di intervista per valutare la capacità del dirigente di gestire la complessità cognitiva, constatò che era altissima, un «livello 6»: in altre parole, si trattava di un individuo abbastanza intelligente da diventare direttore generale di una impresa globale o da essere messo a capo di uno Stato.2-17 Durante l'intervista, però, la conversazione cadde sui motivi per i quali aveva dovuto lasciare il suo precedente lavoro: era stato licenziato perché non aveva saputo affrontare i suoi subordinati né li aveva ritenuti responsabili delle loro scarse prestazioni.
«Per lui era qualcosa che aveva ancora il potere di farlo precipitare in una reazione emotiva», mi spiegò il ricercatore. «Diventò tutto rosso e cominciò a gesticolare: era chiaramente agitato. Venne fuori che proprio quella mattina il suo nuovo capo – il padrone della società per cui lavorava – lo aveva criticato per lo stesso motivo, e continuò a raccontarmi quanto trovasse difficile confrontarsi con i dipendenti che rendevano poco, soprattutto quando erano nell'azienda da molto tempo.» E, come osservò il ricercatore: «Quando era così sconvolto, la sua capacità di trattare la complessità cognitiva– in altre parole, di ragionare – precipitava».
In breve, quando sfuggono al controllo, le emozioni possono rendere stupidi individui intelligenti. Come mi disse Doug Lennick, vicepresidente esecutivo dell'American Express Financial Advisors: «Le attitudini di cui hai bisogno per avere successo cominciano dall'intelletto, ma ti occorre anche competenza emotiva, per tirar fuori tutto il potenziale dei tuoi talenti. La ragione per la quale non otteniamo il pieno potenziale delle persone, va ricercata nell'incompetenza emotiva».
Era il Super Bowl Sunday quel giorno inviolabile in cui la maggior parte degli uomini americani si piazza davanti al televisore a guardare il più importante incontro di football dell'anno. La partenza del volo New York – Detroit era stata ritardata di due ore e fra i passeggeri – quasi tutti uomini d'affari – la tensione era palpabile. Quando finalmente arrivarono a Detroit, un misterioso problema tecnico con la scaletta fece fermare l'aereo a circa trenta metri dal cancello. Sull'aeroplano i passeggeri, isterici per il ritardo, saltarono comunque in piedi.
Una delle assistenti di volo andò al microfono. Come poteva fare per ottenere che tutti obbedissero al regolamento restando seduti finché l'aereo non avesse portato a termine l'avvicinamento al cancello?
La donna evitò di annunciare con tono rigido: «Il regolamento federale prevede che tutti i passeggeri riprendano posto a sedere prima che l'aereo cominci la manovra di avvicinamento al cancello».
Invece, cantilenando come se stesse ammonendo scherzosamente un bambino adorabile appena colto a fare una birichinata tutto sommato perdonabile, se ne uscì con un: «Vi siete alzaaaaati?!»
Al che, tutti scoppiarono a ridere e si rimisero a sedere finché l'aereo non ebbe terminato la manovra. Date le circostanze, i passeggeri scesero dall'aereo con un sorprendente buon umore.
Nelle competenze, il vero grande spartiacque si trova fra mente e cuore o, più tecnicamente, fra cognizione ed emozione. Alcune competenze – a esempio il ragionamento analitico o l'expertise tecnico – sono esclusivamente cognitive. Altre combinano pensiero e sentimento: sono quelle che io chiamo «competenze emotive».2-18
Oltre agli elementi cognitivi di volta in volta in gioco, quali che essi siano, tutte le competenze emotive comportano un certo grado di abilità nell'ambito del sentimento. Questo è in netto contrasto con le competenze puramente cognitive nelle quali – previa opportuna programmazione – un computer può dare prestazioni di livello pressappoco analogo a quello di un essere umano. Una voce digitale avrebbe potuto benissimo annunciare: «Il regolamento federale prevede che tutti i passeggeri riprendano posto a sedere prima che l'aereo cominci la manovra di avvicinamento al cancello».
Ma il tono impersonale di una voce computerizzata non avrebbe mai potuto avere lo splendido effetto ottenuto dall'assistente di volo con il suo spirito. Probabilmente, i passeggeri avrebbero obbedito – brontolando – anche all'annuncio impersonale. Ma non avrebbero mai sperimentato nulla di simile al cambiamento d'umore innescato dalla hostess. La donna riuscì a far vibrare la giusta corda emotiva – qualcosa che la sola competenza cognitiva – dell'uomo o, se è per questo, del computer – non è in grado di fare (quanto meno non ancora2-19 ).
Prendiamo la competenza nella comunicazione. Mentre sto scrivendo queste righe, a esempio, posso chiedere al software caricato sul mio PC di controllare il testo per verificarne l'accuratezza grammaticale. Ma non posso certo chiedergli di controllare l'efficacia emotiva, la passione e la capacità di coinvolgere del testo che sto scrivendo – né l'impatto che esso avrà sui lettori. Un altro elemento essenziale nella comunicazione efficace che fa capo a capacità della sfera emotiva è l'abilità di valutare le reazioni del pubblico e di adeguare la presentazione del messaggio in modo da ottenere un impatto emotivo significativo.
Le tesi più potenti e persuasive, oltre che alla mente, parlano al cuore. Questo preciso coordinamento di pensiero e sentimento è reso possibile da una struttura cerebrale che equivale a una sorta di autostrada, un fascio di neuroni che collega il lobo prefrontale – il centro cerebrale deputato all'attività decisionale – a un'area sita in profondità nel cervello, contenente i centri cerebrali dell'emozione.2-20
I danni che interessano questo fondamentale collegamento rendono emotivamente incompetente chi li subisce, anche se le abilità esclusivamente intellettuali possono rimanere integre. In altre parole, queste persone potranno dare ancora ottime prestazioni nei test per la valutazione del QI e in altre misure dell'abilità cognitiva. Ma sul lavoro – e in generale nella vita – non avranno le competenze emotive che rendono tanto efficaci persone come l'hostess che abbiamo appena visto in azione.
Perciò, lo spartiacque fra le competenze puramente cognitive e quelle dipendenti anche dall'intelligenza emotiva riflette una divisione parallela esistente nel cervello umano.
Una competenza emotiva è ma capacità appresa, basata sull'intelligenza emotiva, che risulta in ma prestazione professionale eccellente.2-21 Prendiamo, a titolo di esempio, la finezza dimostrata dall'assistente di volo di cui abbiamo parlato prima. Quella donna ebbe un'influenza superba sui passeggeri, e questa è un'importante competenza emotiva – la capacità di ottenere che gli altri reagiscano nel modo desiderato. Il cuore stesso di questa competenza è costituito da due abilità: l'empatia – la lettura dei sentimenti altrui – e le abilità sociali, che consentono di orientare ad arte quei sentimenti.
L'intelligenza emotiva determina la nostra potenzialità di apprendere le capacità pratiche basate sui suoi cinque elementi: consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità nelle relazioni interpersonali. La nostra competenza emotiva dimostra quanto, di quella potenzialità, siamo riusciti a tradurre in reali capacità pronte per essere messe in atto sul lavoro. Ad esempio, l'abilità nel fornire assistenza ai clienti è una competenza emotiva basata sull'empatia. Analogamente, la fidatezza si fonda sulla padronanza di sé, ossia sulla capacità di controllar bene i propri impulsi. Tanto l'abilità nell'assistenza ai clienti, quanto la fidatezza sono competenze che possono far emergere le persone nel lavoro.
Il semplice fatto di essere dotati di intelligenza emotiva non garantisce che una persona acquisirà le competenze che davvero contano sul lavoro – significa solo che si hanno le massime potenzialità per apprenderle. Un individuo, ad esempio, potrebbe essere altamente empatico, e tuttavia non aver acquisito tutte quelle capacità pratiche che si fondano sull'empatia e che permettono di offrire un servizio di assistenza ai clienti superiore, di essere un allenatore o un mentore d'alta classe, né di dare coesione a un team composto da persone molto diverse.
Le competenze emotive possono essere classificate in gruppi, ciascuno dei quali fondato su una particolare capacità dell'intelligenza emotiva.2-22 Le capacità fondamentali dell'intelligenza emotiva sono di vitale importanza affinché gli individui riescano ad apprendere le competenze professionali necessarie per avere successo sul lavoro. Se un individuo è carente nelle abilità sociali, ad esempio, non riuscirà a persuadere o a ispirare gli altri, né ad assumersi la leadership di un team o a catalizzare il cambiamento. Chi ha una scarsa consapevolezza di sé tende a dimenticare le proprie debolezze, e allo stesso tempo non avrà la fiducia in se stesso che deriva dalla sicurezza sui propri punti di forza.
La Tabella 1 mostra le relazioni fra le cinque dimensioni dell'intelligenza emotiva e le venticinque competenze emotive che a esse attingono. Nessuno di noi è perfetto su questa scala; inevitabilmente, abbiamo un profilo con punti di forza e limitazioni. Tuttavia, come vedremo, gli ingredienti della prestazione eccellente richiedono che si sia dotati solo in un certo numero di queste competenze e che questi talenti siano distribuiti nelle cinque aree dell'intelligenza emotiva. In altre parole, le vie che conducono all'eccellenza sono molteplici.
Queste capacità dell'intelligenza emotiva sono:
• Indipendenti, in quanto ognuna di esse dà un contributo esclusivo alla prestazione professionale.
• Interdipendenti, in quanto ciascuna di tali competenze, in una certa misura, attinge da alcune altre, stabilendo numerose interazioni forti.
• Gerarchiche, nel senso che le capacità dell'intelligenza emotiva si fondano le une sulle altre. La consapevolezza di sé, ad esempio, è fondamentale per la padronanza di sé e per l'empatia; la padronanza e la consapevolezza di sé, a loro volta, contribuiscono alla motivazione; tutte queste quattro competenze sono poi messe a frutto nelle capacità sociali.
• Necessarie, ma non sufficienti; il possesso delle abilità relative all'intelligenza emotiva non garantisce automaticamente lo sviluppo delle competenze associate, come la capacità di collaborazione e la leadership. Anche fattori quali il clima che si respira in un'organizzazione, o l'interesse che l'individuo ha per il suo lavoro, sono importanti al fine di determinare se la competenza si manifesterà o meno.
• Generiche; questo elenco generale è in una certa misura applicabile a tutti i campi lavorativi e professionali; ciò nondimeno, occupazioni diverse richiedono competenze pure diverse.
L'elenco ci offre un modo per fare l'inventario dei nostri talenti e per individuare le competenze che dobbiamo potenziare. Le Parti Seconda e Terza del libro forniscono maggiori dettagli e approfondimenti su ciascuna delle competenze, spiegando come si manifestino quando sono pienamente sviluppate e quando lasciano a desiderare. Può darsi che alcuni lettori vogliano passare direttamente alle competenze più attinenti ai propri interessi; sebbene i capitoli che le descrivono abbiano in una certa misura una sequenza gerarchica (come le competenze), non è necessario leggerti in un ordine prefissato.
COMPETENZA PERSONALE Determina il modo in cui controlliamo noi stessi |
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Consapevolezza di sé |
Comporta la conoscenza dei propri stati interiori – preferenze, risorse e intuizioni (Vedi Capitolo Quattro) • Consapevolezza emotiva: riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti • Autovalutazione accurata: conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti • Fiducia in se stessi: sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità |
Padronanza di sé |
Comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i propri impulsi e le proprie risorse (Vedi Capitolo Cinque) • Autocontrollo: dominio delle emozioni e degli impulsi distruttivi • Fidatezza: mantenimento di standard di onestà e integrità • Coscienziosità: assunzione delle responsabilità per quanto attiene alla propria prestazione • Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento • Innovazione: capacità di sentirsi a proprio agio e di avere un atteggiamento aperto di fronte a idee, approcci e informazioni nuovi |
Motivazione |
Comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi (Vedi Capitolo Sei) • Spinta alla realizzazione: impulso a migliorare o a soddisfare uno standard di eccellenza • Impegno: adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell'organizzazione • Iniziativa: prontezza nel cogliere le occasioni • Ottimismo: costanza nel perseguire gli obiettivi nonostante ostacoli e insuccessi |
COMPETENZA SOCIALE Determina il modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri |
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Empatia |
Comporta la consapevolezza dei sentimenti, delle esigenze e degli interessi altrui (Vedi Capitolo Sette) • Comprensione degli altri: percezione dei sentimenti e delle prospettive altrui; interesse attivo per le preoccupazioni degli altri • Assistenza: anticipazione, riconoscimento e soddisfazione delle esigenze del cliente • Promozione dello sviluppo altrui: percezione delle esigenze di sviluppo degli altri e capacità di mettere in risalto e potenziare le loro abilità • Sfruttamento della diversità: saper coltivare le opportunità offerte da persone di diverso tipo • Consapevolezza politica: saper leggere e interpretare le correnti emotive e i rapporti di potere in un gruppo |
Abilità sociali |
Comportano abilità nell'indurre risposte desiderabili negli altri (Vedi Capitoli Otto e Nove) • Influenza: impiego di tattiche di persuasione efficienti • Comunicazione: invio di messaggi chiari e convincenti • Leadership: capacità di ispirare e guidare gruppi e persone • Catalisi del cambiamento: capacità di iniziare o dirigere il cambiamento • Gestione del conflitto: capacità di negoziare e risolvere situazioni di disaccordo • Costruzione di legami: capacità di favorire e alimentare relazioni utili • Collaborazione e cooperazione: capacità di lavorare con altri verso obiettivi comuni • Lavoro in team: capacità di creare una sinergia di gruppo nel perseguire obiettivi comuni |
Le stesse competenze possono far eccellere gli individui in contesti di lavoro diversi. Alla Blue Cross, ad esempio, i migliori fra gli addetti all'assistenza clienti della divisione assicurazioni sanitarie mostrano un elevato autocontrollo, coscienziosità ed empatia. Per i direttori di grandi magazzini le competenze-chiave comprenderanno la stessa triade – autocontrollo, coscienziosità ed empatia – insieme a una quarta competenza, quella nell'assistenza.2-23
Le competenze necessarie per il successo, poi, possono cambiare quando si sale nella gerarchia: nella maggior parte delle grandi organizzazioni i dirigenti ad alto livello dovranno possedere una maggiore consapevolezza politica dei dirigenti medi.2-24 Esistono poi alcune competenze specifiche di certe posizioni.2-25 Per le infermiere, ad esempio, si tratta del senso dell'umorismo; per i banchieri, del rispetto della riservatezza nei confronti del cliente; per i presidi di scuola, del saper escogitare dei sistemi per avere un feedback dagli insegnanti e dai genitori. All'Internai Revenue Service (IRS), ad esempio – il Dipartimento del governo USA che si occupa della riscossione delle imposte – i funzionari migliori non sono forti solo nella contabilità, ma anche nelle abilità sociali. Fra gli ufficiali di polizia, saper ridurre al minimo l'impiego della forza è comprensibilmente un'abilità preziosa.
Le competenze-chiave sono legate alle singole realtà aziendali. Ogni azienda e ogni settore ha la propria ecologia emotiva, e di conseguenza le caratteristiche di maggior valore adattativo per i lavoratori cambieranno da caso a caso.
Al di là di queste specifiche, studi sponsorizzati da quasi 300 aziende dimostrano che in un'ampia gamma di posizioni professionali e lavorative la ricetta per l'eccellenza dà un peso di gran lunga maggiore alle competenze emotive che a quelle cognitive.2-26 Il fatto che fra gli individui di spicco le competenze più importanti siano quelle che scaturiscono dall'intelligenza emotiva non è una sorpresa, ad esempio, nel caso dei venditori. Ma anche fra gli scienziati e fra i professionisti in campi tecnici, il pensiero analitico si classifica in terza posizione, alle spalle della capacità di influenzare gli altri e dell'impulso a realizzare i propri obiettivi. Da solo, un intelletto brillante non spinge uno scienziato ai vertici, a meno che egli non possieda anche le capacità di influenzare e persuadere gli altri, e la disciplina interiore necessaria per raggiungere obiettivi difficili. Un genio pigro o scarsamente incline alla comunicazione avrà forse tutte le soluzioni pronte nella sua testa – ma questo servirà a ben poco se nessuno lo saprà o ci presterà mai attenzione!
Prendiamo a titolo di esempio i tecnici per eccellenza, i cosiddetti «corporate consulting engineer». Le aziende che lavorano nel campo delle alte tecnologie si avvalgono di questi brillanti risolutori di problemi per salvare progetti che rischiano di andare fuori strada e li ritengono a tal punto preziosi da indicarli nelle relazioni annuali di bilancio insieme ai funzionari della società. Che cosa rende tanto speciali questi maghi della tecnologia nel settore della ricerca e dello sviluppo aziendale? «Ciò che fa la differenza non sono tanto le capacità del loro cervello – in queste aziende quasi tutti sono altrettanto intelligenti – quanto le loro competenze emotive», spiega Susan Ennis, oggi alla BankBoston e in precedenza alla DEC. «La differenza sta nella loro abilità di ascoltare, di persuadere e di collaborare, come pure nella loro capacità di motivare le persone e di farle lavorare bene insieme.»
Di certo molti sono arrivati ai vertici nonostante avessero delle carenze nell'intelligenza emotiva; per lungo tempo questa è stata una realtà nella vita delle organizzazioni. Ma nel momento in cui il lavoro diventa più complesso e collaborativo, le compagnie i cui dipendenti lavorano meglio insieme godono di un vantaggio che le rende competitive.
Nel nuovo mondo del lavoro, con tutta la sua enfasi sulla flessibilità, sui team e su un forte orientamento verso il cliente, questo insieme essenziale di competenze emotive sta diventando sempre più importante per eccellere in ogni tipo di mansione, in ogni parte del mondo.2-27