• Alla Lucent Technologies, i dipendenti che provvedono ai rifornimenti di materie prime per la produzione hanno bisogno di qualcosa di più del semplice know-how tecnico – occorre loro l'abilità di ascoltare e comprendere i desideri dei clienti, devono essere flessibili, saper lavorare in team. Inoltre, devono avere la capacità di infondere energia negli altri manifestando entusiasmo, impegno e una fiduciosa convinzione nelle capacità dei propri colleghi.
• Al Medicai Center della Nebraska University, l'expertise tecnico e le capacità analitiche sono preziosi, ma altrettanto può dirsi anche di competenze emotive come la capacità di stabilire e gestire relazioni interpersonali, la disponibilità all'innovazione, l'inclinazione alla leadership e l'abilità di costruire reti e rapporti di collaborazione.
• Alla Amoco, il gigante della petrolchimica, le prestazioni superiori in settori quali la progettazione o la gestione della tecnologia dell'informazione necessitano ancora una volta dell'expertise e del pensiero analitico. Ma nella lista delle competenze necessarie compaiono anche la fiducia in se stessi, la flessibilità, la spinta a realizzare i propri obiettivi, l'orientamento all'assistenza verso i clienti, il lavoro in team e la cooperazione, il saper esercitare la propria influenza e la capacità di sviluppare le potenzialità altrui.3-1
Questi profili di competenza, ricavati da centinaia di ore di interviste e valutazioni sul lavoro, condensano la realtà di migliaia di persone che lavorano. Mentre studiavo centinaia di tali profili, mi venne in mente una domanda che nessuno aveva pensato di porsi prima: rapportata all'intelletto e alle abilità tecniche, esattamente, qual è l'importanza della competenza emotiva ai fini dell'eccellenza?
Fui così fortunato da avere accesso ai modelli delle competenze relativi a 181 diverse posizioni stilati da 121 compagnie e organizzazioni in tutto il mondo, che complessivamente arruolavano una forza lavoro di milioni di persone. I modelli sintetizzavano quello che – secondo l'opinione concorde dei dirigenti di ciascuna organizzazione – era il particolare profilo di eccellenza per una data posizione di lavoro.3-2
La mia analisi era elementare: confrontai quali, fra le competenze elencate come essenziali per un dato lavoro, ruolo o settore di attività, potessero essere classificate come abilità puramente cognitive o tecniche, e quali fossero invece riportabili a competenze emotive. Nel caso dei project manager operanti nel campo della tecnologia dell'informazione alla Amoco, a esempio, su quindici competenze elencate, quattro erano squisitamente cognitive o tecniche, mentre le altre rientravano nella categoria delle competenze emotive. Un semplice calcolo matematico diede questo risultato: il 73 per cento delle abilità identificate da quella società come elementi fondamentali ai fini di prestazioni superiori in quel particolare tipo di lavoro era di natura emotiva.
Quando applicai questo metodo ai 181 modelli di competenze che avevo raccolto, scoprii che il 67 per cento – vale a dire due su tre – delle capacità ritenute essenziali per una prestazione efficace era di natura emotiva. Rispetto al QI e all'expertise, la competenza emotiva contava due volte tanto. E questo valeva per tutte le categorie di lavoro e in tutti i tipi di organizzazione.
Per assicurarmi che i miei risultati non fossero dovuti a un caso fortuito, mi rivolsi alla Hay/McBer, e le commissionai uno studio indipendente. [Vedi l'Appendice 2 per ulteriori dettagli su questa e altre ricerche di conferma.] La Hay/McBer rianalizzò i dati grezzi ottenuti da 40 diverse società al fine di determinare, per ciascuna competenza, in quale misura gli individui autori di prestazioni eccellenti si scostassero dalla media – un modo leggermente diverso di rispondere alla mia domanda.
L'analisi della Hay/McBer si basava in assoluto sui migliori dati disponibili, ottenuti nel corso di interviste approfondite, di test e di valutazioni estese effettuati su centinaia di persone. Ancora una volta, il contributo delle competenze emotive all'eccellenza era due volte più importante di quello dell'intelletto puro e dell'expertise.
La competenza emotiva è fondamentale ai fini della leadership, ossia in un ruolo che consiste essenzialmente nell'ottenere che gli altri svolgevano il proprio lavoro più efficacemente. Nei leader, l'inettitudine a livello dei rapporti interpersonali abbassa il livello della prestazione del gruppo: fa perdere tempo, genera astio, erode la motivazione e l'impegno facendo montare l'ostilità e l'apatia. Ai fini dell'azienda, i punti di forza o le debolezze di un leader nella sfera della competenza emotiva possono essere misurati in termini di guadagno o perdita dei talenti dei suoi subordinati.
Un business research manager di una compagnia di livello internazionale operante nel campo dell'alta tecnologia, è responsabile, in tutto il mondo, di 200 ricercatori. Fra i compiti impegnativi che essi devono affrontare c'è quello di incontrarsi con i tecnici che hanno sviluppato idee per nuovi prodotti e decidere la fattibilità di una loro immissione sul mercato; di stimolare i manager responsabili di prodotti la cui quota di mercato stia calando; di guidare i ricercatori in difficoltà e bisognosi di un orientamento.
«In queste riunioni le emozioni vanno a mille», mi racconta il dirigente. «Devi essere ragionevole, allentare ogni tipo di tensione e mantenerti calmo. Se uno vuole mettere sul mercato il prodotto che sta sviluppando, o se ha dei problemi, può diventare estremamente suscettibile. Ma tu devi mantenere la tua prospettiva e presentarti in modo tale da ispirare fiducia ed essere rispettato.»
«La maggior parte dei nostri ricercatori ha il master in amministrazione aziendale; quindi hanno appreso gli strumenti analitici», osserva. «Ma quando la gente va da loro con le sue paure e i suoi problemi, devono essere in grado di esaminare la situazione con calma e di considerarla da una prospettiva globale. I nostri ricercatori hanno gli strumenti tecnici, certo, ma devono anche essere capaci di riconoscere l'idea creativa o di offrire una via pratica e percorribile per trasformarla in un prodotto utile.»
Per gestire una situazione ad alto potenziale emotivo è necessario possedere la capacità di individuare e risolvere problemi: occorre sapere instaurare rapidamente un clima e un rapporto di fiducia, essere in grado di ascoltare molto bene, saper persuadere e riuscire a vendere una raccomandazione. Come dice lui: «Bisogna essere consapevoli di se stessi, saper vedere le cose in prospettiva e avere presenza, in modo da potersi proporre come la persona su cui tutta la gente seduta attorno a quel tavolo dovrà fare affidamento».
Robert Worden, che ricopre la carica di Business Research Director alla Eastman Kodak, è d'accordo: «Non basta essere in grado di effettuare un'analisi combinata né andare in sollucchero al computer per una splendida regressione, se poi sei troppo modesto per presentare quei risultati a un gruppo di alti dirigenti. La capacità di stabilire rapporti, di parlare e di essere ascoltato, di sentirti a tuo agio con te stesso – ecco, è questo tipo di abilità che comporta la fondamentale differenza».
Vediamo quali sono, secondo Worden, gli altri ingredienti dell'eccellenza alla Kodak: «Intanto, il modo in cui riesci a presentare le tue ragioni. Poi, la motivazione – ci sei solo dalle 8 alle 5 e devi essere continuamente stimolato, oppure rendi molto e sei disposto a qualche sacrificio personale? Sei uno con cui è difficile lavorare oppure tutti ti considerano un leader di natura? E poi c'è la diplomazia – Hai una buona percezione delle questioni delicate, sia a livello personale che dell'organizzazione? Sei capace di adattarti e assumerti i rischi legati alle scelte creative? Sei aggressivo e spegni la fiducia che la gente ha in se stessa – oppure sai ispirare e guidare gli altri? Infine, c'è la capacità di anticipare problemi ed esigenze: sei un tipo orientato all'azione, che va fino in fondo per esercitare il proprio impatto sull'azienda?».
Molti alti dirigenti della Kodak hanno fatto carriera passando attraverso le ricerche di mercato, compreso il presidente, che ci ha passato sette anni. Ma questo tipo di ricerca dà una percezione del mercato che rappresenta solo un punto di partenza. «Metà delle capacità di cui hai bisogno sono di natura tecnica», afferma Worden. «Ma l'altra metà è compresa nel dominio più soft dell'intelligenza emotiva. Ed è straordinario come sia proprio quest'ultima a distinguere i tipi eccellenti.»
L'osservazione di Worden si basa sui dati. Nello studio di risultati su centinaia di società, ho avuto la netta percezione che l'intelligenza emotiva diventi tanto più importante quanto più alto è il livello che un dato individuo occupa nell'organizzazione.
La mia percezione venne confermata dallo studio sistematico su un'organizzazione vastissima, il governo degli Stati Uniti, con più di due milioni di dipendenti. Si tratta di una delle poche organizzazioni al mondo che disponga di una valutazione dettagliata delle competenze necessarie per una prestazione efficiente praticamente in ogni tipo di lavoro.3-3 Con Robert Buchele, un economista dello Smith College, scoprimmo che, effettivamente, quanto più alto era il livello delle mansioni, tanto meno importanti diventavano le capacità tecniche e le abilità cognitive mentre acquisivano maggior rilievo le competenze facenti capo all'intelligenza emotiva. Tuttavia, quello del governo avrebbe potuto essere un caso particolare. Perciò commissionai ancora una volta ala Hay/McBer di rianalizzare il database di cui disponeva, stavolta al fine di verificare l'importanza della competenza emotiva per i dirigenti di alto livello. La ricerca condotta dalla Hay/McBer su centinaia di alti dirigenti impiegati presso quindici società internazionali – compresa l'IBM, la PepsiCo e la Volvo – produsse risultati sbalorditivi.
Confrontando i leader mediocri con quelli eccellenti, a distinguerli si trovava una sola abilità di natura cognitiva: il riconoscimento di modelli, il pensare avendo presente il «quadro generale» – un'abilità che li mette in condizione di individuare tendenze significative in un mare confuso di informazioni e di pensare strategicamente guardando al futuro.3-4
A parte quell'unica eccezione, la superiorità intellettuale o tecnica non aveva alcun ruolo nel determinare il successo nella leadership; a livello degli alti dirigenti, infatti, chiunque deve possedere in una certa misura delle abilità cognitive, ma il fatto di eccellere in esse non cambia il destino di un leader.
Invece, la differenza fra i leader mediocri e quelli eccellenti era in grandissima parte determinata dalle competenze emotive. Gli individui migliori dimostravano abilità significativamente più spiccate in una gamma di competenze emotive comprendenti la capacità di influenzare gli altri e di guidare un team, la consapevolezza politica, la fiducia in se stessi e la spinta a realizzare i propri obiettivi. In media, circa il 90 per cento del loro successo nella leadership dipendeva dall'intelligenza emotiva.
In breve, per una prestazione superiore in tutte le posizioni e in ogni campo, la competenza emotiva ha un'importanza doppia rispetto alle abilità puramente cognitive.
Per il successo ai massimi livelli, in posizioni che comportano la leadership, la competenza emotiva costituisce pressoché tutto il margine di vantaggio.
Patrick McCarthy sta rimettendo in scena per l'ennesima volta il suo incantesimo di venditore, stavolta con Donald Peterson, presidente in pensione della Ford Motor Company. Peterson è alla ricerca di un particolare capo sportivo nella taglia 43 lungo, che è difficile da trovare. Così decide di chiamare McCarthy, un commesso del reparto di abbigliamento per uomo presso il più importante dei negozi Nordstrom di Seattle; McCarthy cerca in magazzino, ma non trova la giacca. Peterson allora continua a chiedere in giro, chiamando altri negozi di abbigliamento per uomo, ma solo per scoprire che nessuno ha in magazzino la giacca che lui cerca.
Qualche giorno dopo, però, McCarthy richiama Peterson: ha pregato in modo particolare il suo fornitore, e così la giacca della taglia desiderata è in arrivo.
In una catena di negozi famosa per il suo modo di trattare con i clienti, McCarthy è il numero uno dei venditori, una leggenda che ha regnato per più di 15 anni.3-5 McCarthy coltiva il suo portafoglio personale di circa 6.000 clienti spingendosi ben oltre la semplice offerta di un servizio cortese quando essi sono nel negozio: in particolare, si prende regolarmente il disturbo di chiamarne alcuni di persona quando arriva della merce che ritiene possa interessarli. Addirittura, telefona ai familiari di certi clienti suggerendo loro dei regali quando è in arrivo un compleanno o un anniversario.
Poiché le competenze emotive costituiscono, come abbiamo visto, due terzi o forse più degli ingredienti necessari per prestazioni così straordinarie, questi dati indicano che per un'organizzazione, coltivare queste capacità nei propri impiegati o assumere persone che già le possiedano comporta un enorme aumento del profitto. Enorme, sì, ma quanto? Il livello annuale delle vendite di McCarthy, pari a più di un milione di dollari, va confrontato a una media che, nel settore, si attesta intorno agli 80.000 dollari.
La stima migliore del valore economico apportato da questi individui eccezionali è quella effettuata nel corso di una fondamentale analisi eseguita su migliaia di persone, la cui posizione spaziava dal semplice impiegato addetto alle spedizioni ai partner dei grandi studi legali.3-6 Lo studio, condotto da John Hunter della Michigan State University, Frank Schmidt e Michael Judiesch, entrambi della Iowa University – tutti esperti in questo campo – ha confrontato il valore, in termini economici, di individui capaci di prestazioni al massimo livello, come Patrick McCarthy – quelli appartenenti all'un per cento superiore della distribuzione – con i loro colleglli mediocri o deludenti.
I ricercatori scoprirono che quel valore aumenta con la complessità del lavoro:
• Nel caso dei lavori più semplici – come quello degli operatori su macchine o degli impiegati – gli individui appartenenti all'un per cento superiore della distribuzione avevano un rendimento di tre volte maggiore – ossia valevano tre volte di più – rispetto a quelli dell'un per cento inferiore.
• Nel caso di lavori di media complessità – come quello dei commessi o dei meccanici – un individuo capace di prestazioni eccellenti era dodici volte più produttivo dei colleghi meno capaci – in altre parole, un'unici persona appartenente all'un per cento superiore della distribuzione ne valeva dodici appartenenti all'un per cento inferiore.
• Per i lavori più complessi, come quello degli agenti d'assicurazione, degli account manager, degli avvocati e dei medici, il confronto venne effettuato in modo diverso, ossia fra gli individui capaci di prestazioni eccellenti e quelli nella media (e non quelli appartenenti all'un per cento inferiore della distribuzione); anche così un individuo appartenente all'un per cento superiore apportava un valore aggiunto del 127 per cento.3-7
Il direttore generale della sussidiaria di una holding sudamericana fu promosso in un'altra posizione, lasciando così sei alti dirigenti a competere per il suo posto. I sei entrarono a tal punto in competizione che la loro unità di gruppo dirigente ne risultò compromessa. La società si rivolse a un consulente, affinché valutasse i punti di forza e le debolezze dei sei candidati, e la aiutasse a prendere la decisione.
Dei sei, due avevano un QI al di sotto degli altri; erano fuori gara fin dal principio, insieme a un terzo che era del tutto nuovo nel campo, e quindi non aveva esperienza. Quanto agli altri tre candidati, uno aveva più esperienza di tutti ed era anche il più intelligente; stando agli standard tradizionali, la scelta sarebbe probabilmente caduta su di lui. Aveva però un lato negativo: era risaputo che mancava delle qualità personali e sociali che fanno capo all'intelligenza emotiva.
Il secondo manager sembrava anch'egli un candidato forte – con un'ottima esperienza, ben dotato nelle competenze dell'intelligenza emotiva, e con un'intelligenza generale molto brillante. Anche il terzo manager, infine, era un buon contendente, leggermente indietro agli altri due per QI ed esperienza, ma nettamente superiore a loro per intelligenza emotiva.
Su chi cadde la scelta?
Sul terzo manager. La ragione fondamentale della decisione fu che uno dei compiti principali del nuovo direttore generale sarebbe stato quello di guidare il gruppo dirigente per farlo tornare funzionale, un lavoro che avrebbe richiesto un alto grado di efficacia nelle relazioni interpersonali. Il consulente spiega: «La grandissima intelligenza emotiva del nuovo direttore generale rese più facile accettare la sua promozione agli altri cinque manager, che erano stati in competizione per quel posto». Sotto la guida del nuovo direttore generale, egli aggiunge, la società «è diventata la più redditizia del paese nel suo settore, battendo i propri record di profitto».
Nella misura in cui la competenza emotiva stimola la realizzazione di questi straordinari obiettivi, è comprensibile che essa renda al massimo quando si manifesta ai gradini più alti. A causa della loro influenza finanziaria, le prestazioni degli alti dirigenti hanno ripercussioni economiche molto maggiori di quelle degli impiegati che lavorano per loro. Nei casi estremi, un direttore generale brillante può moltiplicare di milioni i guadagni di una grande società, mentre un pasticcione può farla naufragare.
A livelli di complessità inferiore, esiste più o meno un rapporto diretto fra l'abilità cognitiva di una persona e la sua prestazione: se saranno più intelligenti, un impiegato o un operatore su macchine eseguiranno il loro lavoro molto meglio di individui meno brillanti. Tuttavia, come abbiamo visto nel Secondo Capitolo, all'aumentare della complessità del lavoro – pensiamo ad esempio ai manager e ai dirigenti, agli ingegneri e agli scienziati – il QI e l'expertise non aiutano a prevedere chi darà le prestazioni migliori: a questo livello, quei parametri rappresentano solo delle barriere d'accesso.
In posizioni che richiedono prestazioni altamente complesse, l'analisi di Hunter suggerisce che l'immensa differenza di valore economico fra gli individui eccellenti e quelli deludenti faccia dell'intelligenza emotiva un fattore non solo semplicemente additivo, ma moltiplicativo, nei confronti dell'abilità cognitiva: presumibilmente, l'ingrediente segreto nella prestazione eccellente.
Alla RCA, un piccolo gruppo di account manager riuscì ad aumentare ogni anno il numero dei clienti, incrementando il volume delle vendite di decine di milioni di dollari. In che modo? Non perché avessero un expertise tecnico superiore agli altri account manager, ma perché erano più abili a livello interpersonale.
Il caso è uno delle migliaia raccolti da un pupillo di McClelland, Lyle Spencer Jr, direttore della ricerca e della tecnologia presso la Hay/McBer di Boston.3-8 Quale fu la ragione dello straordinario successo di quel gruppo di account manager?
«Gli individui mediocri che occupavano quella posizione si contentavano di passare una quantità di tempo minima con i propri clienti – quel tanto che basava per assicurarsi che fossero soddisfatti», mi spiegò Spencer. «Ma questi manager straordinari passavano moltissimo tempo con i loro clienti, li corteggiavano, andavano fuori a bere con loro e gli parlavano di nuove tecnologie e di possibilità che avrebbero potuto migliorare i loro prodotti – e non solo si conservavano i clienti importanti, ma aumentavano il volume delle vendite. Ciò che contava era la capacità di costruire relazioni interpersonali, di percepire i punti sensibili e gli entusiasmi del cliente sapendo come servirsene, e combinando al meglio le esigenze e i desideri dei clienti con i propri prodotti.»
Uno dei campi di lavoro in cui la significativa differenza comportata dall'intelligenza emotiva è più sorprendente è quello della programmazione dei computer, dove la produzione degli individui appartenenti al dieci per cento dei migliori supera quella dei mediocri del 320 per cento. E se consideriamo solo quei rari individui compresi nell'un per cento dei migliori programmatori, constatiamo che la loro produzione supera la media di uno sbalorditivo 1272 per cento.3-9
«Non sono solo le abilità di computo che distinguono gli individui eccezionali, ma anche le loro capacità di lavorare in team», afferma Spencer. «I migliori in assoluto sono quelli disposti a fermarsi fino a tardi la sera per aiutare i propri colleghi a finire un progetto o a condividere con gli altri – invece di tenerle per sé – le scorciatoie che hanno scoperto. Queste sono persone che non competono: collaborano.»
Il profitto derivante da massimi livelli di competenza può essere spettacolare. In uno studio sui venditori di 44 aziende statunitensi comprese fra le 500 con il maggior fatturato annuo, fra cui la AT&T, l'IBM e la PepsiCo, Spencer chiese ai responsabili delle vendite di valutare di quanto si distaccassero dalla media i loro migliori venditori in assoluto. Egli scoprì che ogni venditore appartenente al 10 per cento dei migliori totalizzava vendite per 6,7 milioni di dollari, rispetto alla norma di 3 milioni di dollari – in altre parole, costoro vendevano più del doppio della media. Poiché a quel tempo il tipico salario dei venditori era intorno ai 42.000 dollari, significava che il valore aggiunto di questi individui eccezionali era di 3,7 milioni di dollari, ossia circa 88 volte il loro salario!3-10
Le competenze si presentano a gruppi. Per dare una prestazione superiore l'individuo deve dominare tutto un insieme di competenze, non solo una o due. McClelland ha scoperto che gli individui eccezionali non hanno talento solo, tanto per fare un esempio, nell'iniziativa o nella capacità di persuasione: costoro hanno punti di forza ad ampio spettro, dimostrando di possedere delle competenze in ciascuna delle cinque aree dell'intelligenza emotiva: consapevolezza e padronanza di sé, motivazione, empatia e abilità sociali.
Solo quando raggiungono una massa critica su tutto lo spettro, questi individui emergono come straordinari – un po' come accade quando si catalizza una reazione chimica. Il termine di McClelland per indicare questo concetto è «tipping point» – punto critico.
«Una volta che hai raggiunto il punto critico, le tue probabilità di dare una prestazione straordinaria salgono alle stelle», mi spiegava Mary Fontaine della Hay/McBer. «B punto critico può dipendere dalla misura in cui manifesti spesso e bene le tue competenze-chiave, come pure dal loro livello di sofisticazione».
Alla PepsiCo, ad esempio, gli alti dirigenti che avevano raggiunto il punto critico – che erano «forti» in almeno sei competenze appartenenti a tutto lo spettro – avevano una probabilità di gran lunga maggiore di dare prestazioni che si sarebbero collocate nel terzo superiore della distribuzione; questo si rifletteva nei premi di produzione che venivano loro riconosciuti per le prestazioni delle divisioni che dirigevano. Dei leader di divisione forti in sei o sette competenze, l'87 per cento si collocava nel terzo superiore.3-11
Le competenze consentivano di prevedere il successo non solo nelle filiali statunitensi della società, ma in quelle sparse in tutto il mondo. I dirigenti che raggiungevano il punto critico erano nel terzo superiore nell'82 o nell'86 per cento dei casi, rispettivamente in Europa e in Asia.
D'altro canto, la debolezza in queste competenze costituiva spesso una pecca fatale. In Europa, in Asia e in America, ad esempio, coloro che mancavano di punti di forza nelle competenze fondamentali erano autori di prestazioni straordinarie solo nel 13, nell'11 e nel 20 per cento dei casi, rispettivamente.
Le competenze emotive che più spesso portavano a questo livello di successo erano:
• Iniziativa, spinta a realizzare i propri obiettivi e adattabilità.
• Influenza, capacità di leadership e consapevolezza politica.
• Empatia, fiducia in se stessi e capacità di valorizzare gli altri.
I dirigenti con queste qualità superavano i propri obiettivi del 15-20 per cento; quelli che non le possedevano davano prestazioni inferiori in misura pari quasi al 20 per cento.
Il punto critico non conta solo ai vertici, ma a ogni livello di un'organizzazione. Una delle dimostrazioni più impressionanti di ciò emerse in una compagnia nazionale di assicurazioni. Gli agenti molto carenti in particolari competenze emotive come la fiducia in se stessi, l'iniziativa e l'empatia vendevano polizze con un premio medio di 54.000 dollari. Ma gli individui ben dotati in almeno cinque delle competenze-chiave avevano, al confronto, un successo straordinario: in media, infatti, vendevano polizze da 114.000 dollari.
Proprio come le competenze emotive comportano un chiaro valore aggiunto, è vero anche che una carenza in quelle stesse competenze implica costi ingenti legati al turnover dei dipendenti. Spencer ritiene che per una società il costo reale derivante dalla sostituzione di un dipendente equivalga a un intero anno di paga. Questi costi non sono legati esclusivamente alla necessità di cercare e addestrare dei sostituti, ma anche all'esigenza di soddisfare e conservare i clienti, e dalla riduzione di efficienza cui andrà incontro chiunque lavorasse con la persona dimissionaria.
Quando le organizzazioni perdono molti dipendenti, anche nella fascia di basso livello retributivo, i costi reali da sostenere possono essere ingenti. Nei settori del commercio al dettaglio e delle assicurazioni, ad esempio, si stima un tasso di turnover superiore al 50 per cento l'anno, che per la maggior parte interessa i nuovi assunti.3-12 Quando il dipendente che si dimette è un alto dirigente, quel costo può essere enorme. Per una società che debba rimpiazzare un alto dirigente, assumendo qualcuno dall'esterno, la spesa può ammontare a centinaia di migliaia, anche milioni di dollari.
Quando, presso un'azienda produttrice di bevande di largo consumo a livello mondiale, ci si servì di metodi standard – che ignoravano la competenza emotiva – per assumere i presidenti di divisione, nell'arco dei primi due anni dall'ingaggio il 50 per cento di essi si dimise (la maggior parte perché stava rendendo poco), il che comportò per la società dei costi di ricerca vicini a 4 milioni di dollari. Ma quando l'azienda cominciò a valutare anche competenze come l'iniziativa, la fiducia in se stessi, l'inclinazione alla leadership e simili, il numero dei dirigenti che rimanevano al proprio posto aumentò di molto e nei primi due anni solo il 6 per cento dei nuovi presidenti di divisione abbandonò l'incarico.3-13
Consideriamo tre casi, tutti riguardanti personale addetto alle vendite, ma in settori molto diversi.3-14 All'Oréal, la grande casa produttrice di cosmetici, i rappresentanti selezionati per le loro abilità nel campo delle competenze emotive andarono incontro, nel corso del primo anno, a un turnover del 63 per cento inferiore rispetto a quelli selezionati trascurando il profilo di quelle competenze. In una società di computer, fra i rappresentanti di nuova assunzione, coloro che erano stati scelti per la competenza emotiva avevano una probabilità di finire il training superiore del 90 per cento rispetto ai colleghi scelti su altre basi. Infine, presso un'esposizione di mobili, i venditori che avevano talento nelle competenze emotive fondamentali presentavano un tasso di abbandono nel corso del primo anno di lavoro pari alla metà di quello riscontrato fra coloro che erano stati assunti sulla base di altri standard.
Dopo avermi sentito parlare di intelligenza emotiva a una conferenza, il direttore generale di una società – una delle dieci più grandi del settore – mi raccontò in confidenza perché, invece di coltivarsi un dirigente che era stato alle sue dirette dipendenze per molti anni, in modo che un giorno potesse prendere il suo posto, lo avesse licenziato: «Era una persona di straordinario talento, intellettualmente brillante, una mente molto potente. Con i computer era davvero fantastico, conosceva i numeri come le sue tasche. È per questo che era diventato dirigente.
«Ma non era un leader altrettanto brillante, e nemmeno particolarmente piacevole. Spesso era così duro da risultare brutale. Nelle situazioni di gruppo, era socialmente goffo; non aveva alcuna delicatezza sociale – anzi a dire il vero non aveva nemmeno una vita sociale. A 45 anni, non aveva nessuno vicino a sé, nemmeno un amico. Lavorava in continuazione. Era monodimensionale: ecco perché alla fine lo licenziai.
«Tuttavia,» aggiunse il direttore generale «se avesse saputo fare solo il cinque per cento di quello di cui stava parlando lei prima, sarebbe ancora qui.»
Questa storia concorda perfettamente con le conclusioni a cui è pervenuto uno studio importantissimo su alti dirigenti la cui carriera si era rivelata un fallimento.3-15 Ecco i due caratteri più comunemente menzionati nelle persone che avevano mancato i propri obiettivi:
• Rigidità. Questi individui erano incapaci di adattare il proprio stile ai cambiamenti nella cultura dell'organizzazione, oppure erano incapaci di assorbire o di reagire al feedback riguardante aspetti del loro comportamento di modificare o migliorare. Non erano capaci di ascoltare o di apprendere.
• Scarse relazioni interpersonali. I fattori più spesso menzionati comprendevano un atteggiamento eccessivamente aspro e critico, insensibile o troppo esigente o tale da allontanare coloro con cui lavoravano.
Questi aspetti del comportamento si dimostrarono handicap fatali anche per individui brillanti con un solido expertise tecnico. Un dirigente, ad esempio, descrisse con queste parole un collega la cui carriera aveva subito una battuta d'arresto: «E un grande pensatore strategico e ha elevati standard etici, ma critica troppo aspramente le persone. È intelligentissimo, ma si guadagna la propria superiorità sminuendo e umiliando gli altri. Molti hanno cercato di aiutarlo a lavorare su questo suo difetto, ma sembra che sia senza speranza».3-16
L'opposto della rigidità è l'adattabilità. «L'agilità nell'esercizio della leadership, ossia la capacità di lavorare con stili diversi e con persone appartenenti a tutti i livelli dell'organizzazione – dai rappresentanti impegnati in prima linea con i clienti agli alti dirigenti – richiede empatia e autocontrollo emotivo. Nella leadership – e nell'apprendimento – occorre agilità», mi spiega Patrick O'Brien, ex vicepresidente delle vendite per il Nord America della Johnson Wax. «Abbiamo scoperto che l'assenza di questo tipo di agilità è un formidabile ostacolo per le persone che cerchiamo di valorizzare.»
Fra i manager di successo e coloro la cui carriera si rivelò un fallimento emersero profonde differenze relativamente alle principali dimensioni della competenza emotiva.3-17
• Autocontrollo. Gli individui che fallivano non sapevano gestire e controllare le pressioni, erano di umore instabile ed erano soggetti ad accessi di collera. Gli individui di successo, invece, restavano composti anche sotto stress, mantenendosi calmi, fiduciosi – e leali – anche nel bel mezzo delle crisi.
• Coscienziosità. Coloro che avevano in qualche modo mancato i propri obiettivi di carriera reagivano al fallimento e alle critiche mettendosi sulla difensiva: negando, cercando di coprirsi o scaricando la colpa su qualcun altro. Il gruppo degli individui di successo, invece, si assumeva le proprie responsabilità ammettendo errori e fallimenti, prendendo le dovute misure per risolvere eventuali problemi e andando avanti senza rimuginare troppo sugli scivoloni.
• Fidatezza. I dirigenti che avevano fallito erano in genere tipi troppo ambiziosi – troppo lesti ad andare avanti a spese degli altri. Invece, gli individui di successo erano caratterizzati da un'elevata integrità – una grande considerazione per le necessità dei subordinati e dei colleghi, insieme alla consapevolezza delle esigenze del compito in corso – e per loro tutto questo aveva più importanza del fare a qualsiasi costo impressione sul capo.
• Abilità sociali. Gli individui che fallivano mancavano di empatia e sensibilità, e pertanto erano spesso rudi, arroganti o inclini a intimidire i subordinati. In qualche occasione, alcuni di questi individui erano affabili, al punto da sembrare addirittura interessati agli altri, ma il loro charme era puramente manipolativo. Gli individui di successo, d'altro canto, erano più empatici e sensibili, e pertanto mostravano tatto e considerazione nel trattare con chiunque, superiori e subordinati.
• Capacità di stabilire legami e di trarre vantaggio dalla diversità. I modi insensibili e manipolativi del gruppo dei dirigenti che avevano fallito stavano a testimoniare che essi non riuscivano a costruire una rete vasta e robusta di relazioni cooperative e mutuamente benefiche. I dirigenti di successo invece apprezzavano maggiormente la diversità ed erano in grado di andare d'accordo con persone di tutti i tipi.
Claudio Fernández-Aráoz, incaricato della ricerca di alti dirigenti in tutta l'America Latina per l'ufficio di Buenos Aires della Egon Zehnder International, ha confrontato 227 dirigenti di grande successo con 23 che invece erano falliti nel proprio lavoro.3-18 Egli scoprì che i manager che fallivano avevano quasi sempre un grande expertise e solitamente erano anche molto intelligenti. La loro fatale debolezza era immancabilmente nel campo dell'intelligenza emotiva: troppa arroganza, un eccessivo affidamento sul potere del cervello, l'incapacità di adattarsi alle modificazioni economiche a volte sconcertanti che avevano luogo nella regione e il disprezzo per la collaborazione o il lavoro in team.
Analisi parallele condotte in Germania e in Giappone su manager di successo o manager che avevano fallito, hanno rivelato la stessa situazione: la principale carenza di questi ultimi era nelle competenze dell'intelligenza emotivi e il loro fallimento aveva luogo a dispetto dell'expertise e delle abilità cognitive. In Germania tre quarti dei manager «falliti» presentavano fondamentali carenze nell'intelligenza emotiva, mentre in Giappone ciò valeva per poco più della metà di essi.3-19
In America Latina una carenza di intelligenza emotiva sembra implicare un fallimento quasi certo. In Germania e in Giappone, invece, non è ancora così. Come mi disse Fernàndez-Aràoz: «Negli ultimi anni in America Latina abbiamo assistito a un enorme cambiamento: l'iperinflazione, le agitazioni politiche, il passaggio da economie controllate a economie libere. Le cose cambiano radicalmente, a volte quasi ogni giorno. L'esperienza, qui, non è cruciale come la capacità di adattarsi. Occorre essere in stretto contatto con tutte le persone con cui si lavora, con i clienti, con i fornitori – chiunque – solo per tenersi al corrente di quel che sta succedendo. Ci sono nuove forme di organizzazione, nuove fusioni e coalizioni, nuove tecnologie, nuove regole. Abbiamo scoperto che in un ambiente tanto instabile una carenza di intelligenza emotiva comporta il sicuro fallimento. E questo è il futuro di tutti noi».
Oppure, come ha sintetizzato Kevin Murray, direttore delle Comunicazioni alla British Air, «le organizzazioni che stanno attraversando i maggiori cambiamenti sono quelle che hanno più bisogno di intelligenza emotiva.»
Un giovane ingegnere con uno splendido curriculum accademico andò a lavorare presso un'azienda di progettazione ambientale ma fu licenziato dopo un periodo relativamente breve. La ragione? «Era molto brillante nel lavoro» mi racconta il suo superiore, «ma non sapeva seguire le istruzioni. Il suo supervisore gli diceva come fare un progetto, e lui lo faceva di testa sua. Quando il supervisore gli faceva notare che il suo progetto non era conforme alle specifiche, quello si metteva sulla difensiva. Non riusciva ad accettare un feedback – reagiva come se si fosse trattato di critiche personali.
«Quando gli altri ingegneri gli chiedevano aiuto, lui voltava loro le spalle, affermando di essere troppo impegnato nella sua parte del progetto. Creava una tale animosità intorno a sé che quando era lui ad aver bisogno di aiuto, nessuno era disposto a darglielo.»
Un alto QI e un elevato expertise tecnico possono avere un effetto paradossale sulle persone apparentemente promettenti che poi falliscono. In uno studio su dirigenti che un tempo avevano avuto successo e poi fallirono, la maggior parte degli individui era tecnicamente brillante.3-20 Le capacità tecniche avevano spesso rappresentato la ragione della loro promozione ai livelli più alti.
Ma una volta raggiunte quelle posizioni più prestigiose, il loro talento tecnico poteva diventare un difetto fatale. L'arroganza aveva portato alcuni di loro a offendere i colleghi assumendo un atteggiamento di superiorità, oppure li aveva spinti a gestire fin nei minimi dettagli i subordinati – anche quelli che erano dotati di un ottimo expertise tecnico.
Questa non è altro che la dimostrazione del principio di Peter, secondo il quale le persone vengono promosse fino ad arrivare a un livello in cui sono incompetenti. Un individuo promosso per la sua abilità tecnica o il suo expertise («È grande con i numeri») arriva infine a un livello dove molti, o la maggior parte, dei suoi compiti hanno a che fare con la gestione delle risorse umane, e non con le capacità tecniche. Tutto questo in pratica significa che il mondo del lavoro è disseminato di pessimi dirigenti.
Il principio di Peter aiuta moltissimo a spiegare come mai, ovunque nelle organizzazioni, tante persone rudi, villane e comunque inette sul piano delle relazioni interpersonali, occupino molte posizioni di potere. Il classico errore sta nel dare per scontato che se uno è in possesso di un particolare expertise, ciò significa necessariamente che ha attitudine per la leadership. «Io lo chiamo "effetto Michael Jordan"», mi spiega Paul Robinson, direttore del Sandia National Laboratories. «Lo vedo in continuazione nei laboratori scientifici: un alto dirigente si dimette e tu immediatamente vai a cercare lo scienziato migliore per promuoverlo al suo posto.
«Ma è come se i Chicago Bulls perdessero un allenatore e lo sostituissero con Michael Jordan. Ovviamente Jordan è uno splendido giocatore, ma per lui esserlo è una cosa talmente naturale che come allenatore potrebbe non essere molto brillante, perché probabilmente non si è mai soffermato a pensare come fa a fare ciò che fa. E allora, come se la caveranno i Bulls se Michael Jordan siederà in panchina, invece di scendere sul terreno di gioco? Lo stesso vale anche per noi; gli scienziati eccezionali ci servono nei laboratori, non negli uffici.»
Per aggirare il problema, «abbiamo istituito due indirizzi di carriera, nella consapevolezza che alcune persone sanno essere dei tecnici eccellenti e amano il proprio lavoro, ma detestano la carriera manageriale e sarebbero dei manager terribili», mi ha detto Ira Stepanian, direttore generale della BankBoston, oggi in pensione. «Senza abilità interpersonali, costoro non accederanno mai ai massimi livelli manageriali. In questo modo, gli risparmiamo il fallimento prospettato dal principio di Peter, mantenendoli su un percorso di carriera tecnica.»
Quel principio, ovviamente, si applica a occupazioni di ogni genere. Prendiamo, ad esempio, Patrick McCarthy, lo straordinario venditore della Nordstrom. Ben presto, nella sua carriera, McCarthy venne promosso manager di dipartimento, un incarico che tuttavia lasciò dopo un anno e mezzo per tornare alle vendite dirette.3-21 Come dice lui stesso: «La vendita diretta era ciò che sapevo fare meglio e in cui mi sentivo più a mio agio».
«Gli specialisti nel campo dell'informatica sono famosi per il loro elevato livello di capacità tecniche, ma anche per il fatto di non saper andare d'accordo altrettanto bene con la gente», mi racconta un dirigente della Hitachi Data Systems. «Tendono a essere carenti in certe abilità, come l'empatia e le capacità sociali. Nel nostro campo, le persone che lavorano nelle divisioni di informatica sono famose per andare poco d'accordo con chi lavora in altri settori della stessa azienda.»
Ero solito pensare che tali asserzioni riflettessero un'errata percezione culturale, lo stereotipo negativo del «fanatico del computer». Alla base di questo mio assunto c'era la convinzione che l'intelligenza emotiva e il QI fossero essenzialmente indipendenti.
Un amico del corpo docente del MIT, però, sostiene che all'estremo superiore della scala del QI spesso si osserva una mancanza di capacità sociali.
Stephen Rose, fisico teorico per formazione e oggi a capo di un progetto per studiare come mai la carriera di alcuni scienziati vada a picco, si riferisce al fenomeno con il termine di «imperizia esperta».3-22 «Molto spesso, quanto più sono intelligenti, tanto meno si dimostrano competenti sul piano emotivo e nel trattare con gli altri. È come se il QI fosse un muscolo che cresce e si rafforza a spese di quelli della competenza personale e sociale.»
La padronanza in questi campi di attività richiede lunghe ore di lavoro solitario, spesso già a partire dall'infanzia o dal principio dell'adolescenza, quando, di solito, l'individuo apprende le fondamentali abilità sociali dall'interazione con i propri amici. Anche l'autoselezione è importante. Le persone che si sentono attratte da professioni che comportano uno sforzo cognitivo di livello molto elevato – come l'informatica o l'ingegneria – a volte sono attirate da esse «in parte anche perché così non devono avere a che fare con le proprie emozioni», sottolinea Robert E. Kelley, uno psicologo della Carnegie-Mellon University. «Ecco perché i secchioni e i tipi un po' fanatici sono attratti in campi come l'ingegneria dove – fintanto che se la cavano sul piano cognitivo – possono isolarsi e tirare avanti nonostante le scarse doti sociali.»
Questo naturalmente non vuol dire che tutti gli scienziati con un elevato QI siano socialmente incompetenti. Significa invece che le abilità che fanno capo all'intelligenza emotiva avranno un grande peso nel determinare il successo in tali carriere, dove probabilmente il pool di coloro che hanno le potenzialità per essere dei manager eccezionali – persone che abbiano al tempo stesso grandi capacità scientifiche ed elevate doti sociali – è relativamente piccolo.
Nel contesto di uno studio alquanto insolito, cominciato negli anni Cinquanta alla California University di Berkeley, 80 studenti che si stavano preparando al conseguimento del PhD in scienze furono sottoposti a un'estesa serie di test per la misurazione del QI e la valutazione della personalità, come pure a colloqui approfonditi con psicologi che li valutarono relativamente all'equilibrio emotivo, la maturità, l'integrità e l'efficacia nelle relazioni interpersonali.3-23
Quarant'anni dopo, quando quegli stessi individui avevano da poco varcato la soglia dei settant'anni, i ricercatori li rintracciarono. Nel follow-up – eseguito nel 1994 sulla base di curriculum vitae, valutazioni di esperti che lavoravano nel loro stesso campo e fonti come American Men and Women of Science – si procedette a stimare il successo ottenuto da ognuno di loro nella sua carriera. Emerse che le abilità nel campo dell'intelligenza emotiva erano circa quattro volte più importanti del QI nel determinare successo e prestigio professionali perfino per questi scienziati.
Come mi disse un ingegnere che aveva lavorato alla Exxon, «quel che faceva la differenza non era la tua media scolastica, là erano stati tutti bravi a scuola. La differenza stava in qualità personali come la perseveranza, la capacità di trovare chi ti facesse da guida, l'essere disposti a lavorare di più e a mettercela tutta». Oppure, come dice Ernest O. Lawrence – il premio Nobel fondatore dei laboratori che a Berkeley portano il suo nome – «nel lavoro scientifico, l'eccellenza non ha a che fare con la competenza tecnica, ma col carattere».3-24
La comprensione di questi temi ha stimolato le scuole di specializzazione a muoversi per assicurarsi che i giovani ingegneri e scienziati entrino nel mondo del lavoro contando su maggiori capacità emotive. Phil Weilerstein, direttore della National Collegiate Inventors and Innovators Alliance, mi disse: «Le capacità di cui avranno bisogno gli ingegneri del futuro sono diverse da quelle in cui sono stati addestrati – starsene in un ufficio della General Dynamics a progettare le pale di un'elica. Devono essere abbastanza disinvolti da cambiare lavoro ogni tre, quattro o cinque anni. Devono sapere come sviluppare e realizzare idee in quanto parte di un team, e poi devono anche saperle vendere; ma non basta: devono essere in grado di assorbire critiche e osservazioni sul loro lavoro e occorre che sappiano adattarsi. In passato la formazione degli ingegneri ignorava tutta questa gamma di capacità. In futuro non potrà più permettersi di farlo».
Come mi disse John Seeley Browen, direttore della Ricerca e Sviluppo della Xerox Corporation per la Silicon Valley, «la gente assume un'aria scettica quando dico che noi non cerchiamo di assumere le persone più intelligenti – in tutti gli anni che ho passato qui, non ho mai guardato il curriculum universitario di nessuno. Le due competenze che cerchiamo di più sono la capacità di avere valide intuizioni e il desiderio appassionato di lasciare il segno. Vogliamo gente capace di osare e al tempo stesso che abbia i piedi per terra».
Ma che significa essere intuitivi, appassionati, audaci ma con i piedi per terra – insomma, dimostrare intelligenza emotiva? Quali sono le capacità umane che contano di più per l'efficienza sul lavoro?
La nostra prossima tappa nell'esplorazione di ciò che significa lavorare con l'intelligenza emotiva consisterà proprio nel dare una risposta precisa a queste domande.