«Bandire la paura.»
– W. Edwards Deming
È il peggior incubo di chiunque debba parlare in pubblico. Il mio amico, uno psicologo, si era recato in aereo dalla East Cost alle Hawaii per tenere una relazione a un congresso di ufficiali di polizia. Aerei in ritardo e coincidenze saltate gli avevano fatto perdere una notte di sonno, lasciandolo al tempo stesso esausto e in preda al jet-lag – e il suo discorso era proprio in apertura, al mattino. Fin dal principio, l'idea di tenere quel discorso lo aveva messo in apprensione, dal momento che avrebbe assunto una posizione controversa. Ora, lo sfinimento stava rapidamente trasformando quell'apprensione in vero e proprio panico.
Il mio amico ruppe il ghiaccio raccontando una barzelletta – ma si bloccò proprio prima della battuta finale. Se l'era dimenticata. Si congelò, la mente come una lavagna bianca. Non solo non ricordava la battuta finale della barzelletta – aveva dimenticato anche il resto del discorso. Improvvisamente, per lui, i suoi appunti non avevano più alcun senso e la sua attenzione era concentrata su quel mare di volti con gli occhi fissi su di lui. Dovette scusarsi, congedarsi e lasciare il podio.
Solo dopo un riposo di diverse ore riuscì a ricomporsi e a tenere la sua relazione – barzelletta compresa – riscuotendo un grande successo. Raccontandomi in seguito di quel suo iniziale attacco di panico, mi disse: «Non riuscivo a pensare ad altro che a quelle facce che mi fissavano – ma non ero assolutamente in grado di ricordare che cosa dovessi dire».
La scoperta che più colpisce, fra quelle emerse dallo studio del cervello delle persone sotto stress – come quello di tenere un discorso di fronte a un pubblico critico – dimostra che i centri emotivi del cervello possono operare in modi che mettono a rischio il funzionamento di quelli esecutivi, ossia dei lobi prefrontali, situati – come lascia intuire il loro nome – subito dietro la fronte.
L'area prefrontale è la sede della memoria di lavoro», la capacità di prestare attenzione e tenere a mente qualsiasi informazione sia rilevante in un particolare momento. La memoria di lavoro è vitale ai fini della comprensione, dell'interpretazione, della pianificazione, dell'attività decisionale, del ragionamento e dell'apprendimento.
Quando la niente è tranquilla, la memoria di lavoro funziona in modo ottimale. Ma nel momento in cui c'è un'emergenza, il cervello viene commutato in una modalità autoprotettiva che sequestra risorse alla memoria di lavoro, e le dirotta ad altri siti al fine di mantenere i sensi in uno stato di iperallerta – un atteggiamento mentale, questo, specificamente mirato alla sopravvivenza.
Nella fase di emergenza, il cervello ricorre a routine e a reazioni semplici e molto familiari, mettendo da parte il pensiero complesso, l'intuizione creativa e la pianificazione a lungo termine. Il centro dell'attenzione, ora, è l'urgenza del presente – o, se volete, la crisi del giorno. Nel caso del mio amico, questa modalità finalizzata all'emergenza paralizzò la sua capacità di ricordare quanto aveva da dire, inducendolo a concentrarsi sulla «minaccia» presente – tutte quelle facce assorte, là nel pubblico, che aspettavano di sentirlo parlare.
Sebbene questo circuito per fronteggiare le emergenze si sia evoluto milioni di anni fa, oggi noi sperimentiamo la sua attivazione sotto forma di emozioni che ci turbano: preoccupazioni, ondate d'ansia, panico, frustrazione, irritazione, collera e rabbia.
Quando Mike Tyson si infuriò e strappò con un morso un pezzo dell'orecchio di Evander Holyfield, durante l'incontro per il titolo dei pesi massimi 1997, questo exploit gli costò 3 milioni di dollari – ossia la massima penalità confiscabile dalla sua borsa di 30 milioni di dollari – oltre a un anno di sospensione dalla boxe.
In un certo senso, Tyson fu vittima del suo sistema d'allarme cerebrale. Situato negli antichi centri emotivi del cervello, il circuito d'allarme è imperniato su una serie di strutture che circondano il tronco cerebrale, note come sistema «limbico». La struttura che gioca il ruolo-chiave nelle emergenze emotive – quella che ci fa «saltar in aria» – è l'amigdala.
L'area prefrontale, il centro esecutivo, è collegata all'amigdala attraverso quella che equivale a un'autostrada neurale. Questi collegamenti nervosi fra amigdala e lobi prefrontali funzionano come un sistema d'allarme, un dispositivo che ha avuto un immenso valore ai fini della sopravvivenza nel corso dell'evoluzione umana.
L'amigdala è l'archivio della memoria emotiva del cervello, il ricettacolo di tutti i nostri momenti di trionfo e di sconfitta, di speranza e di paura, di indignazione e frustrazione. Nel suo ruolo di sentinella, essa si serve di queste memorie registrate per vagliare tutta l'informazione in entrata – tutto ciò che vediamo e sentiamo istante per istante – così da valutare minacce e opportunità in essa contenute confrontando ciò che accade ora con le registrazioni delle nostre esperienze passate.5-1
La testata di Holyfield indusse in Tyson un'ondata di ricordi carichi di rabbia – di quando il suo avversario aveva fatto la stessa cosa, otto mesi prima, in un incontro che Tyson aveva pure perso, episodio per il quale aveva energicamente protestato. Il risultato, per Tyson, fu un classico sequestro emotivo da parte dell'amigdala, una reazione subitanea dalle conseguenze disastrose.
Nell'evoluzione, molto probabilmente, l'amigdala usava i ricordi registrati per rispondere istantaneamente a domande essenziali ai fini della sopravvivenza, come: «Sono io la sua preda, o è lui la mia?». Per rispondere a queste domande era necessario che sensi acuti assicurassero la percezione della situazione così da poter reagire in modo pronto e istantaneo. Fermarsi a riflettere approfonditamente o a rimuginare sulle circostanze, non sarebbe stato di alcun aiuto.
La reazione di crisi del cervello – un potenziamento dell'acuità sensoriale, il blocco del pensiero complesso, e l'adozione di reazioni automatiche di tipo riflesso – segue ancora quell'antica strategia, sebbene essa oggi possa rivelarsi drammaticamente inadeguata nella moderna vita lavorativa.
Non posso fare a meno di ascoltare la conversazione della donna che sta telefonando proprio di fianco a me, all'aeroporto O'Hare: sta strillando. È chiaro che si trova nel bel mezzo di un divorzio complicato e che il suo ex le sta creando delle difficoltà. «Sta facendo il bastardo con la casa!», grida al telefono «L'avvocato mi ha chiamato mentre ero a una riunione per dirmi che dovevamo tornare in tribunale adesso. E nel pomeriggio ho la mia relazione… queste stronzate non potevano capitare in un momento peggiore!» Sbatte giù il ricevitore, raccoglie i suoi bagagli e se ne va.
È sempre il «peggior momento possibile» per i contrasti e le pressioni che ci fanno ammattire – o per b meno così ci sembra. Quando gli stress si accumulano, il loro effetto è più che additivo – essi sembrano moltiplicare il senso di tensione, così che mentre ci avviciniamo al punto di rottura, ogni peso ulteriore pare ancor più insopportabile, la classica ultima goccia. E così perfino per piccoli contrasti che in condizioni normali non ci turberebbero: improvvisamente diventano schiaccianti. Come disse Charles Bukowski, il poeta, «non sono le grandi cose che ci spediscono al manicomio, non è la perdita di un amore, ma il laccio della scarpa che si rompe quando abbiamo fretta».
Per il nostro organismo, non esiste alcuna distinzione fra casa e lavoro; gli stress si accumulano gli uni sugli altri, indipendentemente da quale sia la loro fonte. La ragione per la quale, se siamo già agitati, un piccolo battibecco può spingerci oltre i limiti è di natura biochimica. Quando l'amigdala innesca il panico nel cervello, induce una cascata che comincia con la liberazione di un ormone noto come CRF (Corticotropin Releasing Factor, fattore liberante la corticotropina) e si conclude con un'inondazione di ormoni dello stress – principalmente cortisolo.5-2
Gli ormoni che secerniamo in condizione di stress bastano per un unico episodio di combattimento o fuga – ma una volta secreti, rimangono nell'organismo per ore, e ogni successivo incidente tale da turbarci non fa che aumentare il loro livello. L'accumulo che ne deriva rende l'amigdala un meccanismo innescante estremamente sensibile, pronto a sequestrarci trascinandoci nella collera o nel panico alla minima provocazione.
Fra i loro effetti, gli ormoni dello stress hanno anche un impatto sul flusso ematico. Mentre la frequenza cardiaca aumenta, il sangue viene dirottato dai centri cognitivi superiori ad altri più essenziali per la mobilitazione dell'organismo in condizioni di emergenza. I livelli di glucosio ematico disponibile come combustibile salgono, le funzioni fisiologiche meno rilevanti vengono rallentate e la frequenza cardiaca aumenta per preparare l'organismo a confrontarsi con il pericolo o a fuggire. L'impatto complessivo del cortisolo sulla funzione cerebrale è quello di far entrare in azione la strategia di sopravvivenza primitiva: potenziare i sensi, smorzare l'intelletto e ricorrere alle azioni più familiari a lungo ripetute – anche se si tratta mettersi a urlare o di congelarsi nel panico.
Il cortisolo sequestra risorse energetiche alla memoria di lavoro – all'intelletto – per dirottarle ai sensi. Quando i livelli di cortisolo sono alti, le persone compiono più errori, sono più distratte e non riescono più a ricordare bene nemmeno le cose che hanno letto di recente.5-3 Pensieri irrilevanti si insinuano con invadenza, e l'elaborazione dell'informazione diventa più difficile.
Se lo stress è prolungato, l'esito probabile è l'esaurimento – o anche peggio. Quando i ratti di laboratorio vengono sottoposti a tensione costante, il cortisolo e gli altri ormoni dello stress raggiungono livelli tossici, avvelenando e uccidendo i neuroni. Se lo stress si protrae per un periodo significativo della loro vita, l'effetto sul cervello è impressionante: si assiste a un'erosione e a un'atrofizzazione dell'ippocampo, un centro-chiave della memoria.5-4 Qualcosa di simile succede anche nelle persone.5-5 Non solo lo stress acuto può renderci momentaneamente inetti: quando è prolungato può avere, sull'intelletto, un effetto durevole e ottundente.
Naturalmente lo stress è un dato di fatto; spesso è impossibile evitare le situazioni e le persone che ci sopraffanno. Prendiamo per esempio l'esplosione di messaggi. Uno studio compiuto sui dipendenti di importanti aziende ha rilevato che ognuno di essi inviava e riceveva, in media, 178 messaggi al giorno; ogni ora, queste persone erano interrotte da almeno tre messaggi, ognuno dei quali con la sua pretesa di urgenza (solitamente non veritiera).5-6
La posta elettronica, invece di ridurre l'overdose di informazione, non ha fatto che andare ad aggiungersi alla mole totale degli altri messaggi provenienti da telefono, segreterie telefoniche, fax, corrispondenza e simili. L'essere inondato da messaggi intermittenti commuta l'individuo su una modalità reattiva, come se stesse continuamente spegnendo piccoli incendi. Il maggiore impatto si ha sulla concentrazione: ogni messaggio funge da distrazione, rendendo sempre più difficile tornare a concentrarsi sul compito interrotto. L'effetto cumulativo del diluvio di messaggi è una distrazione cronica.
In un campo come l'ingegneria, uno studio sulla produttività quotidiana ha evidenziato come le frequenti distrazioni fossero proprio una delle principali cause delle prestazioni insoddisfacenti. Un ingegnere molto brillante, tuttavia, aveva escogitato una strategia che gli permetteva di restare concentrato: mentre lavorava alla tastiera del computer, si metteva le cuffie.5-7 Tutti pensavano che stesse ascoltando della musica, ma lui, in realtà, non ascoltava proprio nulla – le cuffie erano solo un espediente per impedire al telefono e ai colleghi di interrompere la sua concentrazione! Probabilmente, e in una certa misura, queste strategie funzionano; d'altra parte, occorre anche avere le risorse interiori per gestire i sentimenti innescati dentro di noi dallo stress.
Solitamente i lobi prefrontali tengono sotto controllo i grossolani impulsi dell'amigdala, sovrapponendo ad essi il loro giudizio, la loro comprensione delle regole della vita, e la loro percezione della reazione più razionale e appropriata.5-8 Questi circuiti, con il proprio «potere di veto», rassicurano l'amigdala impazzita del fatto che in realtà non siamo in pericolo, e che è possibile ricorrere con successo a una modalità di reazione meno disperata.
Lo schema fondamentale del cervello è costruito intorno a una semplice opposizione: alcuni neuroni innescano un'azione, altri la inibiscono. Dall'orchestrazione finemente sincronizzata di queste tendenze contrapposte deriva l'esecuzione fluida dell'atto, non importa se si tratta di un discorso persuasivo o dell'incisione precisa praticata da un chirurgo esperto. Quando le persone sono troppo impulsive, il problema sembra risiedere, più che nel funzionamento dell'amigdala, in quello dei circuiti prefrontali inibitori dell'impulso: in tal caso, gli individui non sono troppo solleciti ad agire e sono incapaci di fermarsi una volta entrati in azione.5-9
Poiché l'amigdala è il sistema d'allarme del cervello, ha il potere di prevaricare il lobo prefrontale nell'arco di una frazione di secondo per far fronte all'emergenza. I lobi prefrontali, d'altro canto, non possono prendere il sopravvento sull'amigdala in modo altrettanto rapido e diretto. Invece, essi dispongono di neuroni «inibitori» in grado di bloccare le direttive che quella freneticamente invia loro – proprio come quando immettiamo in un sistema di sicurezza domestico il codice segreto per disinnescare un falso allarme.
Richard Davidson, direttore del Laboratory for Affective Neuroscience presso la Wisconsin University, ha condotto una serie di studi fondamentali avvalendosi di tecniche per l'ottenimento di immagini del cervello, nell'ambito dei quali ha sottoposto a test due gruppi di persone: uno che era stato riconosciuto come capace di reagire con elasticità agli alti e bassi della vita, l'altro composto da individui che, nelle medesime circostanze, erano facilmente turbati. Davidson registrò la loro funzione cerebrale mentre eseguivano compiti stressanti come scrivere dell'esperienza più sconvolgente dalla loro vita, o risolvere difficili problemi matematici sotto la pressione del tempo.
Le persone elastiche si riprendevano in modo eccezionalmente rapido dallo stress, e nell'arco di qualche secondo l'area prefrontale cominciava a calmare l'amigdala – e loro stessi. Gli individui più vulnerabili, invece, andavano incontro a un'escalation dell'attività dell'amigdala – e del proprio disagio – ancora per diversi minuti dopo la cessazione dell'attività stressante.
«Le persone elastiche cominciavano a inibire il disagio quando l'evento stressante era ancora in corso», afferma Davidson. «Si tratta di individui ottimisti, orientati all'azione. Se nella loro vita qualcosa va storto, immediatamente cominciano a pensare al sistema per raddrizzarlo.»
Questo circuito inibitorio fra il lobo prefrontale e l'amigdala è alla base di molte competenze facenti capo alla padronanza di sé – in particolare l'autocontrollo sotto stress e l'abilità di adattarsi al cambiamento: entrambe abilità che consentono di calmarsi di fronte agli eventi esistenziali della vita lavorativa: crisi, incertezze e obiettivi difficili e mutevoli. La capacità dei lobi prefrontali di inibire il messaggio proveniente dall'amigdala preserva la chiarezza mentale e mantiene le nostre azioni su una rotta costante.5-10
Per passare dal laboratorio alla realtà, consideriamo i costi che un'azienda si trova a sostenere quando un dirigente – il principale responsabile delle decisioni e della gestione delle risorse umane – non è versato in questa fondamentale abilità emotiva. Uno studio condotto sui direttori di una grande catena di negozi americana ha scoperto che quelli più tesi, assillati o sopraffatti dalle pressioni sul lavoro davano le prestazioni peggiori valutate in base a quattro diversi parametri: profitto netto, vendite per unità di superficie, vendite per dipendente o vendite per dollaro investito nell'inventario. D'altro canto, quelli che – pur sottoposti alle stesse pressioni – erano più padroni di sé, facevano registrare i migliori risultati nelle vendite per magazzino.5-11
Sei amici, tutti iscritti al college, stavano bevendo e giocando a carte a notte fonda, quando scoppiò una lite. Il contrasto fra Mack e Ted divenne più intenso e rabbioso, finché Mack non si fece prendere dalla furia e si mise a sbraitare e urlare – mentre a quel punto Ted assunse un atteggiamento molto freddo e riservato. Ma la collera di Mack era ormai fuori controllo; si alzò in piedi e sfidò Ted a fare a pugni. Quello reagì alla provocazione con grande calma, dicendo che avrebbe considerato la possibilità di battersi con Mack solo se prima avessero finito la partita.
Sebbene ribollisse di rabbia, Mack accettò. Nei diversi minuti necessari per finire il gioco, tutti gli altri seguirono il comportamento di Ted e finirono la mano come se non fosse accaduto nulla d'importante. Questo diede a Mack il tempo per calmarsi e raccogliere i propri pensieri. Alla fine della partita, Ted gli disse con calma: «Adesso, se vuoi discuterne ancora, vengo fuori». Ma l'altro, che ormai aveva avuto abbastanza tempo per calmarsi e riflettere, si scusò per la scenata, e non ci fu alcuna rissa.
Vent'anni dopo, i due si rividero alla riunione degli ex alunni. Ted si era costruito una carriera di successo nel settore immobiliare; Mack, invece, era disoccupato e combatteva contro la droga e l'alcol.5-12
Lo scontro fra Mack e Ted è una significativa testimonianza dei vantaggi insiti nella capacità di dire «no» agli impulsi. Qui, il circuito fondamentale è un gruppo di neuroni inibitori dei lobi prefrontali che – nei momenti di rabbia e di tentazione – possono porre il veto ai messaggi impulsivi provenienti dai centri dell'emozione, principalmente l'amigdala. In Ted, apparentemente, quel circuito funzionava bene; in Mack, troppo spesso faceva cilecca.
La storia di Mack e Ted ha delle chiare analogie con quella di due gruppi di bambini, sui quali scrissi in Intelligenza emotiva, che avevano partecipato a un esperimento della Stanford University, noto come il «test delle caramelle». In breve, quando avevano quattro anni e frequentavano la scuola materna alla Stanford, questi bambini vennero portati in una stanza uno per uno; lo sperimentatore metteva una caramella di fronte a loro sul tavolo e diceva: «Se vuoi, puoi prendere subito questa caramella, ma se non la mangerai finché io non sarò tornato da una commissione, potrai averne due».
Circa quattordici anni dopo, quando si stavano diplomando alla scuola superiore, i giovani che da bambini avevano mangiato subito la caramella furono confrontati con quelli che avevano aspettato e se ne erano guadagnate due.5-13 Gli impulsivi, confrontati con quelli che avevano saputo aspettare, avevano maggiori probabilità di soccombere allo stress, di irritarsi e di rimanere coinvolti nelle risse; erano inoltre meno abili nel resistere alle tentazioni che li distraevano dal perseguimento dei loro obiettivi.
Per i ricercatori, però, la cosa più sorprendente fu un effetto del tutto inaspettato: rispetto agli altri, i giovani che da bambini avevano saputo aspettare avevano in media punteggi SAT – il SAT è il test d'ammissione al college – di ben 210 unità più alti (su un valore massimo di 1.600).5-14
La mia migliore ipotesi sul perché l'impulsività debba diminuire la capacità di apprendimento torna a puntare sul legame fra amigdala e lobi prefrontali. In quanto sorgente di impulsi emotivi, l'amigdala è fonte di distrazione. I lobi prefrontali sono sede della memoria di lavoro – ossia della capacità di prestare attenzione a ciò che abbiamo in mente in un preciso istante.
Nella misura in cui siamo preoccupati da pensieri ispirati dall'emozione, nella nostra memoria di lavoro resta molto meno spazio per l'attenzione. Per uno scolaro, questo significa meno attenzione per l'insegnante, per il libro di scuola, per i compiti a casa. Se questa tendenza si protrae negli anni, il risultato è quella carenza nell'apprendimento rivelata poi da punteggi SAT più bassi. Lo stesso vale per una persona che lavori – il costo dell'impulsività e della distrazione è una compromissione della capacità di apprendere o di adattarsi.
Quando i bambini che avevano partecipato al test diventarono adulti ed entrarono nel mondo del lavoro, le differenze si fecero ancora più accentuate.5-15 Ormai vicini alla trentina, quelli che da piccoli avevano resistito alla tentazione della caramella erano ancora intellettualmente i più capaci, i più attenti, quelli in grado di concentrarsi meglio su ciò che stavano facendo. Erano più abili nello sviluppare relazioni intime e autentiche, più fidati e responsabili, e dimostravano un maggiore autocontrollo nell'affrontare la frustrazione.
Invece, rispetto ai loro coetanei capaci di trattenersi fin da bambini, gli individui che a quattro anni avevano afferrato subito la caramella, ora, alla soglia dei trenta, erano meno abili dal punto di vista cognitivo e straordinariamente meno competenti sul piano emotivo. Molto spesso si trattava di tipi solitari; meno fidati, si distraevano più facilmente e nel perseguire i propri obiettivi erano incapaci di rimandare la gratificazione. Quando si trovavano sotto stress, erano poco tolleranti e mancavano di autocontrollo. Rispondevano alle pressioni mostrando scarsa flessibilità, e continuando a ripetere la stessa reazione inutile.
La storia dei bambini che avevano partecipato al test delle caramelle ci dà una lezione di più vasta portata sul prezzo da pagare per il fatto di avere emozioni fuori controllo. Quando siamo sotto l'onda dell'impulso, dell'agitazione e dell'emotività, la nostra abilità di pensare – di lavorare – ne soffre.
La padronanza emotiva comprende non solo la capacità di smorzare il disagio o di soffocare l'impulso; significa anche saper evocare intenzionalmente un'emozione, magari spiacevole. Mi hanno raccontato che alcuni esattori, prima ci chiamare le persone rimaste indietro con i pagamenti, si «caricano» stimolando in se stessi uno stato di irascibilità e stizza. I medici che devono dare cattive notizie ai pazienti o alle loro famiglie fanno la stessa cosa, calandosi in uno stato d'animo appropriatamente cupo e malinconico, proprio come fanno gli impresari di pompe funebri quando trattano con i familiari in lutto. Nel settore del commercio al dettaglio e dei servizi, l'esortazione ad essere amichevoli con i clienti è virtualmente universale.
Una scuola di pensiero sostiene che, quando per conservarsi il posto chi lavora deve manifestare una data emozione, si vede imporre un faticoso «lavoro emozionale».5-16 Quando le emozioni che una persona deve esprimere sono determinate dalle istruzioni di un superiore, il risultato è un'estraniazione dai propri sentimenti. Commesse, hostess e personale alberghiero appartengono ad alcune delle categorie di lavoratori soggette a questo tentativo di controllo del cuore, che Arlie Hochschild, sociologo dell'Università della California di Berkeley, definisce «commercializzazione dei sentimenti umani», equivalente a una forma di tirannia emotiva.
Un esame più attento rivela come questa prospettiva sia solo parziale. Un fattore critico nel determinare se il lavoro emozionale sia o meno gravoso è la misura in cui la persona coinvolta si identifica nel proprio ruolo.5-17 Per un'infermiera che si consideri interessata agli altri e compassionevole, impiegare qualche istante a consolare un paziente che soffre non rappresenta un peso ma è proprio ciò che rende più significativo il suo lavoro.
L'idea di un autocontrollo emotivo non significa negare o reprimere i veri sentimenti. Gli «stati d'animo negativi», a esempio, hanno la loro utilità; la collera, la tristezza e la paura possono diventare fonti di creatività, energia e coerenza. La collera può essere un'intensa fonte di motivazione, soprattutto quando scaturisce dall'esigenza di raddrizzare un torto o un'ingiustizia. La tristezza condivisa può generare legami interpersonali. Quanto all'impulso generato dall'ansia, sempre che non sia sopraffacente, può stimolare lo spirito creativo.
L'autocontrollo emotivo non va inteso come un controllo eccessivo, non significa soffocare tutto il sentimento e la spontaneità. In realtà, un controllo esagerato di questo tipo comporta un prezzo sia in termini fisici che mentali. Coloro che soffocano i propri sentimenti, soprattutto quelli fortemente negativi, vanno incontro a un rialzo della frequenza cardiaca che segnala un aumento della tensione. Quando questa soppressione dell'emotività è cronica, può compromettere il pensiero, ostacolare le prestazioni intellettuali e interferire con il tranquillo sviluppo delle interazioni sociali.5-18
Invece, la competenza emotiva implica la possibilità di scegliere come esprimere i nostri sentimenti. Questa finezza emotiva diventa particolarmente importante in un'economia globale, dal momento che le regole fondamentali per l'espressione delle emozioni variano grandemente da una cultura all'altra. Ad esempio, gli alti dirigenti appartenenti alle culture emotivamente più riservate, come quelle nordeuropee, sono spesso considerati «freddi» e distaccati dai loro partner latinoamericani.
Negli Stati Uniti, l'inespressività emotiva spesso comunica un messaggio negativo, un senso di distanza o di indifferenza. Uno stadio su circa duemila supervisori e dirigenti di vario livello impiegati nelle aziende americane ha dimostrato un forte legame fra mancanza di spontaneità e prestazione scadente.5-19 I manager più capaci erano più spontanei dei loro colleghi mediocri; tuttavia, come gruppo, gli alti dirigenti erano più controllati nell'esprimere i propri sentimenti personali dei colleghi di livello inferiore; apparentemente gli alti dirigenti davano maggior importanza al possibile impatto di una troppo libera espressione di sentimenti «non appropriati» alla situazione.
Quell'approccio misurato riscontrato ai vertici testimonia come, quando si tratta di emozioni, l'ambiente di lavoro sia un caso speciale, quasi una «cultura» a parte rispetto al resto della vita. Nella zona intima delle amicizie e della famiglia, possiamo tirar fuori tatti i pesi che abbiamo sul cuore e rimuginarci sopra – anzi, dobbiamo farlo. Al lavoro, prevale più spesso un diverso insieme di regole fondamentali.
La padronanza di sé – la capacità di dominare gli impulsi e i sentimenti negativi – dipende dal funzionamento dei centri emotivi e dalla loro cooperazione con quelli esecutivi delle aree prefrontali. Queste due fondamentali capacità – il controllo dell'impulso e del turbamento – sono al centro di cinque competenze emotive.
• Autocontrollo: capacità di gestire emozioni e impulsi negativi in modo efficace.
• Fidatezza: onestà e integrità.
• Coscienziosità: lealtà e responsabilità nell'adempiere ai propri obblighi.
• Adattabilità: flessibilità nel gestire il cambiamento e nel rispondere agli stimoli.
• Innovazione: apertura a idee, approcci e informazioni nuovi.
AUTOCONTROLLO
Tenere sotto controlo emozioni e impulsi negativi
Le persone con questa competenza:
• Dominano i propri sentimenti impulsivi e le proprie emozioni angosciose
• Restano composte, positive e imperturbabili anche nei momenti difficili
• Pensano in modo chiaro e mantengono la concentrazione anche sotto pressione
«Bill Gates è fuori dai gangheri. Gli occhi sembrano schizzargli dalle orbite e ha gli occhiali troppo grandi di traverso, Il volto avvampa e mentre parla schizza saliva… E alla Microsoft, in una piccola sala riunioni affollata, con venti suoi giovani dipendenti raccolti attorno a un tavolo oblungo. La maggior parte di essi guarda al suo presidente – sempre che lo guardi – con evidente paura.
«Il tanfo acre di un sudore impregnato di terrore riempie la stanza.»
Così comincia il racconto di una dimostrazione della grande arte di controllare le emozioni.5-20 Mentre Gates continua la sua collerica scenata, i disgraziati programmatori annaspano e balbettano, cercando di persuaderlo – o almeno di placarlo. Tutto inutile. Nessuno sembra in grado di farsi capire. Nessuno, tranne una piccola donna cino-americana, con una voce molto dolce, che sembra l'unica persona nella stanza a non essere turbata dalla sua esplosione di collera. Lo guarda dritto negli occhi, mentre tutti evitano di farlo.
Due volte lo interrompe, rivolgendoglisi con i suoi modi garbati. La prima volta le parole della donna sembrano calmarlo un poco, poi la sua collera si riaccende. La seconda volta, la donna parla e lui ascolta in silenzio, con attenzione, fissando il tavolo. Poi, la collera improvvisamente svanita, le dice: «D'accordo, questo mi sembra buono. Andate avanti». E con questo mette fine alla riunione.
Ciò che la donna disse a Gates non era poi molto diverso da quello che avevano proposto anche gli altri. Ma probabilmente la sua imperturbabilità le aveva consentito di dirlo meglio, di pensare con lucidità invece di essere travolta dall'ansia. Di sicuro i suoi modi facevano parte del messaggio, segnalando che la scenata del capo non la intimidiva; che era in grado di assorbirla e di rimanere imperturbabile; e che comunque non c'era motivo per essere così agitati.
Questa competenza è, in un certo senso, in larga misura invisibile – l'autocontrollo si manifesta prevalentemente nell'assenza di fuochi d'artificio emotivi più evidenti. I segni della sua presenza sono la capacità di rimanere imperturbabili sotto stress o di gestire l'interazione con una persona ostile senza dare sferzate di rimando. Un altro esempio concreto è la capacità di gestire il proprio tempo: attenersi a un programma quotidiano che metta le questioni importanti al primo posto richiede autocontrollo, se non altro per resistere al richiamo di questioni apparentemente urgenti ma in realtà banali, o anche alla tentazione di piaceri o distrazioni che ci farebbero perdere tempo.
Probabilmente, l'estremo atto di responsabilità personale, sul lavoro, consiste nel controllare i nostri stati mentali. Gli stati d'animo esercitano una potente attrazione sul pensiero, la memoria e la percezione. Quando siamo in collera, ricordiamo più facilmente incidenti che confermano la nostra ira, i nostri pensieri si focalizzano sull'oggetto della collera e l'irritazione deforma a tal punto la nostra visione della realtà che, tanto per fare un esempio, un commento altrimenti benigno potrebbe ora colpirci per la sua ostilità. Resistere a questo aspetto dispotico degli stati d'animo è essenziale per la nostra capacità di essere produttivi sul lavoro.
Molti anni fa, mi capitò di avere un superiore che era stato appena promosso e che mi colpì per la sua grandissima ambizione. Per fare buona impressione nella sua nuova posizione adottò la strategia di assumere nuovi scrittori – «la sua gente» – e assicurarsi che il loro lavoro avesse la massima visibilità nella rivista. Passava moltissimo tempo con i nuovi assunti, mentre ignorava studiatamente noi della vecchia guardia.
Forse il mio capo era sotto pressione a causa del suo capo – non ho mai saputo che motivazioni avesse. Ma un giorno, con mia sorpresa, mi chiese di andare a bere una tazza di caffè con lui al bar interno dell'azienda. Là, dopo qualche battuta di una superficiale banalità, mi informò bruscamente che il mio lavoro era al di sotto degli standard. Restò nel vago circa il modo esatto in cui non soddisfacevo gli standard – con il suo predecessore il mio lavoro era stato nominato per concorrere a importanti premi. Ma le conseguenze erano chiare: se non fossi migliorato mi avrebbe licenziato.
Inutile dirsi che questo mi causò un'ansia tremenda e implacabile. Indebitato fin sopra alla testa, con i figli che si accingevano a entrare al college, avevo un disperato bisogno di quel lavoro. La cosa peggiore, poi, era che la scrittura, di per se stessa, esige un alto livello di concentrazione, e quelle preoccupazioni continuavano a insinuarsi distraendomi con vivide fantasie in cui vedevo la mia carriera e le mie finanze naufragare nella catastrofe.
Quel che risparmiò la mia salute mentale fu una tecnica di rilassamento che avevo imparato anni prima, un semplice esercizio di meditazione che avevo praticato in modo saltuario nel corso degli anni. Ma se in precedenza me n'ero servito solo svogliatamente, ora ne divenni fanatico, dedicandomici per mezz'ora o anche un'ora intera ogni mattina prima di cominciare la mia giornata di lavoro.
Funzionò; mi mantenni saldo ed equilibrato, facendo del mio meglio per produrre articoli ben fatti, come richiesto. E poi arrivò il sollievo: il mio insopportabile capo ottenne una promozione che lo dirottò su un altro dipartimento.
Le persone più abili a controllare l'angoscia spesso dispongono di una tecnica per gestire lo stress alla quale fanno ricorso quando occorre, indipendentemente dal fatto che si tratti di un lungo bagno, un allenamento sportivo o una seduta di yoga – proprio come feci io con la meditazione. Il fatto di avere nel nostro repertorio un metodo di questo tipo, non significa che di tanto in tanto non possiamo sentirci sconvolti o angosciati. Ma la pratica quotidiana, regolare, di un metodo di rilassamento sembra «resettare» la soglia di innesco dell'amigdala, rendendola meno suscettibile alle provocazioni.5-21 Questo «resettaggio» neurale ci dà la capacità di riprenderci più rapidamente dai sequestri emotivi operati dall'amigdala, e in primo luogo ci rende meno vulnerabili a essi. Il risultato è che siamo meno spesso suscettibili all'angoscia, e i nostri accessi sono comunque più brevi.
Il sentimento di impotenza associato alle pressioni derivanti dal lavoro è di per se stesso pericoloso. Fra i proprietari e i dipendenti di piccole aziende, quelli con una più forte convinzione di poter controllare ciò che accade loro nella vita hanno meno probabilità di irritarsi, deprimersi o agitarsi una volta messi di fronte ai conflitti e alle tensioni del lavoro. Ma coloro che sentono di avere scarso controllo sono più soggetti ad angosciarsi o addirittura ad abbandonare il lavoro.5-22
In uno studio su 7400 uomini e donne impegnati in attività di servizio civile a Londra, i soggetti che ritenevano di dover rispettare scadenze imposte da altri e di avere poca voce in capitolo sul modo in cui svolgere i propri compiti, o con chi svolgerli, correvano un rischio di sviluppare i sintomi di una coronaropatia che era del 50 per cento superiore rispetto a quello di chi percepiva il proprio lavoro in modo più flessibile.5-23
La percezione di uno scarso controllo sulle esigenze e le pressioni del lavoro comporta un rischio di cardiopatia paragonabile a quello implicato dall'ipertensione.5-24
Questo spiega come mai, di tutte le relazioni che abbiamo sul lavoro, quella con il nostro superiore, o il nostro supervisore, abbia il massimo impatto sull'equilibrio emotivo e la salute fisica. Quando, presso un'unità di ricerca britannica, alcuni volontari furono esposti a un virus del raffreddore e poi seguiti per cinque giorni per vedere se si ammalavano, emerse che i più suscettibili erano quelli coinvolti in tensioni sociali.5-25 Una singola, dura, giornata di lavoro non rappresentava un problema, ma il fatto di avere costanti conflitti con un superiore si rivelò una situazione sufficientemente stressante da abbassare l'elasticità del sistema immunitario.
Nei legami anatomici recentemente scoperti fra il cervello e il resto dell'organismo, legami che stabiliscono una connessione fra i nostri stati mentali e la salute fisica, i centri emotivi hanno un ruolo critico, e presentano una ricca rete di connessioni, soprattutto con il sistema immunitario e con l'apparato cardiovascolare. Questi legami biologici spiegano come mai i sentimenti angosciosi – la tristezza, la frustrazione, la collera, la tensione e l'ansia intensa – raddoppino il rischio che una persona cardiopatica incorra, nelle ore successive, in una pericolosa diminuzione del flusso ematico al cuore; tale diminuzione può, a volte, scatenare un attacco cardiaco.5-26
Per le madri che lavorano, a esempio, non sarà una sorpresa apprendere che – quando le normali pressioni lavorative si combinano alla tensione mentale di «essere in servizio permanente» per problemi familiari inattesi, come la malattia di un bambino – ciò impone loro di sostenere un peso fisiologico straordinario. Tanto le madri single che quelle sposate, impegnate in attività di medio livello sulle quali hanno scarso controllo, hanno sostanzialmente livelli di cortisolo (l'ormone dello stress) più elevati delle loro colleghe che non hanno bambini ad aspettarle a casa5-27
A basse concentrazioni, il cortisolo può aiutare l'organismo a combattere un virus o a risanare tessuti danneggiati, ma quando ne viene secreto troppo, esso attenua l'efficienza del sistema immunitario.5-28 Come disse un ricercatore presso il National Institute of Mental Health, «se te ne stai lì a rimirare un crollo del mercato azionario, il tuo livello di cortisolo salirà a causa dello stress psicologico. Poi, se qualcuno ti tossisce in faccia, sarai più suscettibile a prenderti l'influenza».5-29
A un professore di college con problemi cardiaci venne dato uno strumento portatile per monitorare la frequenza cardiaca; infatti, quando i battiti superavano i 150 al minuto, il suo muscolo cardiaco riceveva troppo poco ossigeno. Un giorno il professore andò a una delle solite, apparentemente interminabili, riunioni dipartimentali, che personalmente riteneva una perdita di tempo.
Tuttavia, osservando il monitor si accorse che – mentre pensava di essere cinicamente distaccato dalla discussione – il suo cuore stava in realtà battendo a un livello pericoloso. Fino ad allora, non si era reso conto di come il quotidiano azzuffarsi tipico della politica dipartimentale lo sconvolgesse emotivamente.5-30 L'autoconsapevolezza è una capacità fondamentale per la gestione dello stress, e in quanto tale è utile. Se non facciamo una grande attenzione, possiamo – proprio come quel professore – essere sorprendentemente ignari di quanto sia stressante la nostra routine di lavoro.
Il semplice fatto di portare al livello della consapevolezza sentimenti che covano sotto la cenere può avere effetti salutari. Quando sessantatré dirigenti appena licenziati parteciparono a uno studio presso la Southern Methodist University, molti di essi erano comprensibilmente irritati e ostili. A metà dei partecipanti fu chiesto di tenere un diario per cinque giorni, passando venti minuti a scrivere i loro sentimenti e le loro riflessioni più profonde su quello che stavano attraversando. I dirigenti che avevano tenuto il diario trovarono un nuovo impiego prima di quelli che non l'avevano fatto.5-31
Quanto più accuratamente riusciamo a monitorare i nostri problemi emotivi, tanto prima riusciremo a riprenderci. Consideriamo un esperimento, nel quale i soggetti partecipanti guardavano un documentario esplicito contro la guida in stato di ebbrezza, nel quale erano mostrati sanguinosi incidenti stradali.5-32 Durante la mezz'ora che seguiva alla proiezione del film, gli spettatori riferivano di sentirsi angosciati e depressi, e di tornare ripetutamente col pensiero alle scene inquietanti a cui avevano assistito. A riprendersi per primi erano quelli che avevano la maggior chiarezza sui propri sentimenti. La chiarezza emotiva, sembra, ci mette in condizione di controllare gli stati d'animo negativi.
Il fatto di essere imperturbabili, tuttavia, non significa necessariamente che abbiamo risolto il problema. Anche quando le persone sembrano impassibili, se in realtà stanno ribollendo dentro, devono anche saper controllare i sentimenti che si agitano in loro. Alcune culture, in particolare quelle asiatiche, incoraggiano questo modo di mascherare i propri sentimenti negativi. Sebbene ciò assicuri alle relazioni uno stato di tranquillità, a livello individuale può comportare un prezzo. Uno psicologo che insegna le competenze dell'intelligenza emotiva alle assistenti di volo in Asia mi disse: «Qui il problema è quello di implodere. Queste persone non esplodono – tengono tutto dentro e soffrono.»
L'implosione emotiva ha diversi lati negativi: spesso le persone con questo atteggiamento non riescono a prendere misure per migliorare la propria situazione. Sebbene non mostrino i segni esteriori di un sequestro emotivo, in ogni modo ne patiscono una ricaduta interna: mal di testa, nervosismo, eccessi nel fumo e nel bere, sonnolenza e un'autocritica implacabile. Chi implode corre gli stessi rischi, per la salute, di chi esplode e deve quindi imparare a controllare meglio le proprie reazioni all'angoscia.
Classica scena sulle strade di Manhattan: un uomo parcheggia la sua Lexus in rimozione forzata su una strada congestionata, entra di corsa in un negozio, acquista qualcosa e poi si riprecipita fuori, per scoprire che un agente non solo gli ha fatto la multa ma ha già chiamato un carro attrezzi, al quale proprio in quel momento stanno agganciando la sua auto.
«Dannazione!» l'uomo esplode in un accesso di collera, scaraventando un fiume di insulti all'indirizzo dell'agente e concludendo poi: «Lei è il più schifoso bastardo che abbia mai incontrato!» E così dicendo colpisce con un pugno il cofano del carro attrezzi.
L'agente, visibilmente turbato, in qualche modo riesce a restare calmo e dice: «È la legge. Se ritiene che sia sbagliato, può appellarsi». E così dicendo, si volta e se ne va
L'autocontrollo è essenziale per chi deve far rispettare la legge. Quando si affronta qualcuno nel pieno di un attacco dell'amigdala – come l'automobilista villano del nostro esempio – le probabilità che l'incontro sfoci nella violenza aumenteranno rapidamente se anche l'agente coinvolto cade in preda a un analogo attacco. Michael Wilson, infatti, un ufficiale che insegna all'Accademia di Polizia della città di New York, afferma che queste situazioni impongono a molti agenti una vera lotta per controllare la propria reazione viscerale alla mancanza di rispetto – un atteggiamento che essi considerano non solo un'inutile minaccia, ma anche un avvertimento del fatto che, nell'interazione, il potere sta passando di mano in un modo che potrebbe mettere a rischio la loro vita.5-33 Come dice Wilson: «All'inizio, quando qualcuno ti offende pesantemente, il tuo corpo vuole reagire. Nella tua testa però c'è questa voce che ti dice: "Non ne vale la pena. Nel momento stesso in cui metto le mani addosso a questo tizio, ho perso la partita"».
L'addestramento dei poliziotti (almeno negli Stati Uniti, un paese che purtroppo ha uno dei più alti livelli di violenza nel mondo) richiede un'attenta titolazione dell'uso della forza, in modo da renderlo proporzionato alla circostanza. Le minacce, l'intimidazione fisica e l'estrazione di un'arma da fuoco, sono tutte ultime risorse, dal momento che ciascuno di questi atti scatenerà probabilmente nell'altro un attacco dell'amigdala.
Studi sulle competenze utili all'interno delle organizzazioni incaricate di far rispettare la legge hanno messo in luce come gli ufficiali migliori facciano il minor uso possibile della forza, si rivolgano alle persone pericolose in modo calmo e con fare professionale, e siano bravi a smorzare i toni. Uno studio sugli agenti addetti al traffico di New York ha dimostrato che coloro che riuscivano a reagire con calma anche quando interagivano con automobilisti fuori di sé dalla rabbia, erano coinvolti in un minor numero di incidenti sfociati poi nella violenza.5-34
Il principio di conservare la calma a dispetto della provocazione si applica a chiunque si trovi ad affrontare regolarmente, per motivi di lavoro, persone pericolose o agitate. Fra gli psicoterapeuti, ad esempio, gli individui capaci di prestazioni superiori rispondono con calma a un attacco personale da parte di un paziente.5-35 Allo stesso modo si comportano le assistenti di volo con i passeggeri di cattivo umore.5-36 E fra i dirigenti di vario livello, i migliori sanno equilibrare con l'autocontrollo gli impulsi, l'ambizione e la sicurezza in se stessi, imbrigliando le esigenze personali al servizio degli obiettivi dell'organizzazione.5-37
Confrontiamo ora due alti dirigenti impiegati presso una società telefonica americana all'interno della quale lo stress è lievitato mentre l'intero settore andava incontro a laceranti cambiamenti. Uno di essi è tormentato dalla tensione: «La mia vita è una competizione spietata. Cerco sempre di tenere il passo, di rispettare le scadenze che mi vengono imposte, ma la maggior parte di esse non è nemmeno importante. Solo routine. E quindi, anche se sono nervoso e teso, per gran parte del tempo mi annoio anche».
L'altro dirigente afferma: «Non mi annoio quasi mai. Anche quando devo fare qualcosa che al principio non mi sembra molto interessante, di solito, una volta che mi ci metto, trovo comunque che vale la pena dedicarcisi, nel senso che mi insegna qualcosa. Io cerco sempre di fare una differenza, di costruirmi una vita di lavoro produttiva, per me stesso».
Il primo dirigente venne riconosciuto scarsamente dotato in una qualità denominata «resistenza», ossia l'abilità di restare impegnati, di sentire di avere il controllo e di essere stimolati piuttosto che minacciati dallo stress; una qualità che il secondo dirigente possedeva in abbondanza. Lo studio scoprì che gli individui resistenti allo stress – quelli che consideravano il proprio lavoro duro, sì, ma anche eccitante; e che interpretavano il cambiamento come un'opportunità di crescita e non come un nemico – ne sopportavano molto meglio il peso fisico, e si ammalavano di meno.5-38
Un paradosso della vita lavorativa è che la stessa realtà può essere percepita da una persona come una devastante minaccia, e da un'altra come uno stimolo corroborante. Con le giuste risorse emotive, quelle che sembravano minacce possono essere interpretate come stimoli, e affrontate con energia, addirittura con entusiasmo. Esiste una fondamentale differenza nella funzione cerebrale fra lo stress «buono» – lo stimolo in grado di mobilitarci e di motivarci – e quello «cattivo» – le minacce che ci sopraffanno, ci paralizzano o ci demoralizzano.
Le sostanze chimiche cerebrali che innescano l'entusiasmo per un'impresa sono diverse da quelle con cui reagiamo allo stress e alla minaccia. Esse sono attive quando la nostra energia è alta, lo sforzo è massimo, ma l'umore è positivo. La biochimica di questi stati produttivi ruota attorno all'attivazione del sistema nervoso simpatico e delle ghiandole surrenali, che secernono sostanze chimiche note come catecolamine.
Le catecolamine, adrenalina e noradrenalina, ci spingono all'azione – ma in un modo più produttivo, non con la frenetica urgenza del cortisolo. Una volta che il cervello si commuta sulla modalità d'emergenza, comincia a produrre cortisolo e aumenta enormemente anche i livelli delle catecolamine. Ma le nostre prestazioni ottimali coincidono con un livello di risveglio cerebrale inferiore, ossia quando è innescato solo il sistema delle catecolamine. (E si badi bene che per attivare il cortisolo non è necessario veder minacciato il proprio posto di lavoro o essere oggetto di un commento sprezzante da parte di un superiore; la noia, l'impazienza, la frustrazione e perfino la stanchezza possono produrre lo stesso risultato.)
In un certo senso, quindi, ci sono due tipi di «stress», quello buono e quello cattivo, e due distinti sistemi biologici all'opera. Esiste poi un punto di equilibrio, quando il sistema nervoso simpatico è attivato (ma non in modo eccessivo), il nostro stato d'animo è positivo e la capacità di pensare e di reagire è ottimale. La nostra prestazione ottimale coincide con questo equilibrio.
FIDATEZZA E COSCIENZIOSITÀ
Mostrare integrità ed essere responsabili di se stessi
Le persone con questa competenza:
Per la fidatezza
• Agiscono eticamente e sono irreprensibili
• Costruiscono attorno a sé un clima di fiducia attraverso la propria affidabilità e autenticità
• Ammettono i propri errori e si oppongono alla mancanza di etica negli altri
• Assumono rigide posizioni di principio, anche se impopolari
Per la coscienziosità
• Rispettano gli impegni e mantengono le promesse
• Si ritengono responsabili del raggiungimento dei propri obiettivi
• Sono organizzate e attente nel proprio lavoro
L'inventore di un nuovo prodotto promettente, un materasso ad aria a due camere che aveva il vantaggio competitivo di preservare il calore corporeo, racconta di aver avuto un colloquio con un industriale che si era offerto di fabbricarlo e di venderlo riconoscendogli delle royalties. L'industriale, nel corso della conversazione, rivelò all'altro, con un certo orgoglio, di non aver mai pagato le tasse.5-39
«E come fa?» chiese incredulo l'inventore.
«Tengo due serie di libri contabili», spiegò compiaciuto l'industriale.
«Su quale dei due intende registrare le vendite dei miei materassi per calcolare le royalties da corrispondermi?» chiese l'inventore.
A quella domanda non ci fu risposta. Fine della transazione.
La credibilità scaturisce dall'integrità. Gli individui capaci di prestazioni eccellenti sanno che sul lavoro la fidatezza si traduce nel fare in modo che le persone conoscano i loro valori, principi, intenzioni e sentimenti, e nell'agire in modo costantemente coerente con essi. Queste persone sono sincere sui propri errori e sanno affrontare quelli degli altri.
Le persone che spiccano per integrità sono sincere, anche attraverso il riconoscimento dei propri sentimenti – «Quella faccenda mi stava facendo diventare un po' nervoso» – il che contribuisce alla loro aura di autenticità. Invece, coloro che non ammettono mai un errore o un'imperfezione o che «gonfiano» se stessi, la loro azienda o un prodotto, minano la propria credibilità.
L'integrità – ossia l'agire in modo aperto, onesto e coerente – distingue le persone capaci di prestazioni eccellenti in ogni tipo di lavoro. Prendiamo, ad esempio, chi lavora nel campo delle vendite, un ruolo dipendente dalla forza delle relazioni interpersonali. In un lavoro di quel tipo, chi nasconda informazioni fondamentali, non onori promesse o non rispetti gli impegni presi indebolisce la relazione di fiducia tanto vitale per conservare il rapporto d'affari.
«Nei direttori delle vendite che hanno lavorato per me e hanno fallito, la cosa che più difettava era la fidatezza», mi disse un vicepresidente senior di una divisione della Automatic Data Processore. «Nelle vendite, è tutta una questione di compromessi: io ti darò questo se tu mi farai una concessione su quest'altro. È una situazione ambigua, in cui devi fidarti della parola dell'altro. In un campo come la finanza, che è più scienza che arte, la situazione è molto più chiara. Ma quella delle vendite è un'area grigia, e quindi essere fidati è ancora più importante.»
Douglas Lennick, vicepresidente esecutivo della American Express Financial Advisors, è d'accordo. «Alcuni si fanno l'idea sbagliata che uno possa avere successo negli affari imbrogliando la gente, oppure spingendola a comprare qualcosa di cui non ha bisogno. Questo può funzionare a breve termine, ma sulla lunga distanza ti rovinerà. Si ha un successo di gran lunga maggiore restando coerenti con i propri valori.»
La incontrai su un aeroplano, fu la mia vicina di posto per qualche ora su un volo diretto a ovest. Chiacchierammo per un po' quando lei scoprì che stavo scrivendo un libro sulle emozioni nel mondo del lavoro. Fu allora che venne fuori la sua storia: «Facciamo test di sicurezza per le industrie chimiche, valutando i loro materiali e il modo in cui vengono manipolati, per quantificare i rischi, ad esempio quello di autocombustione. Verifichiamo che le loro procedure per la manipolazione di queste sostanze soddisfino gli standard di sicurezza federali. Ma al mio capo non importa nulla che il rapporto sia accurato; vuole solo che sia redatto in tempo. Il suo motto è: Fa' il lavoro più in fretta possibile, e prendi i soldi».
«Recentemente scoprii che i calcoli di uno di questi lavori erano sbagliati. Così li rifeci tutti da cima a fondo. Ma il capo mi fece passare un brutto momento, perché ci impiegai più tempo e lui voleva il rapporto prima possibile. Io devo fare quello che mi dice questo tizio, anche se so che è un incompetente. Così adesso mi porto sempre da rifare i calcoli a casa, nel tempo libero. Nessuno ne può più delle sue pressioni».
Perché sopporta tutto questo?
Mi raccontò di un divorzio difficile, del fatto che doveva prendersi cura dei suoi due figli da sola, e di quanti sforzi facesse. «Me ne andrei se potessi, ma ho bisogno di quell'impiego. In questo momento i posti di lavoro scarseggiano…»
Dopo un lungo silenzio riflessivo, continuò. «Lui firma tutto il lavoro, anche quello eseguito da noi. Al principio mi dava fastidio che si prendesse tutto il merito – ma ora sono sollevata – non voglio il mio nome su quei rapporti. Non mi sembra giusto. Finora non ci sono stati incidenti – incendi o esplosioni, intendo – ma una volta o l'altra potrebbe capitare.»
Non avrebbe dovuto parlare, denunciare quello che succedeva?
«Ho pensato di raccontare qualcosa a qualcuno, ma non posso dire una parola, perché al momento dell'assunzione mi fecero firmare un accordo di segretezza. Dovrei lasciare l'azienda, e poi essere in grado di dimostrare quello che dico in tribunale – sarebbe un incubo.»
Quando il nostro aereo rullò sulla pista d'atterraggio, lei sembrò al tempo stesso sollevata e nervosa per quello che mi aveva rivelato – a tal punto da non volermi rivelare il suo nome o quello dell'azienda. Tuttavia, prese il mio, e anche il mio numero di telefono, dicendo di avere dell'altro da raccontarmi. Mi avrebbe richiamato, promise.
Non lo ha mai fatto.
La Ethics Officer Association commissionò un'indagine su 1300 lavoratori, impiegati a tutti i livelli in aziende americane, e scoprì una realtà sorprendente: circa la metà degli intervistati ammise di essere coinvolta in prassi aziendali contrarie all'etica.5-40
In massima parte le violazioni della fiducia o dei codici morali erano di entità relativamente minore – come il darsi per malati quando volevano starsene a casa, o il portarsi via della cancelleria sottraendola all'azienda. Ma il nove per cento dei dipendenti ammise di mentire o ingannare i clienti, il sei per cento aveva falsificato delle cifre in rapporti o documenti, il cinque per cento aveva mentito ai superiori su questioni importanti o aveva omesso di fornire informazioni fondamentali. Il quattro per cento degli intervistati ammise di essersi arrogato il merito per il lavoro o le idee di qualcun altro. Alcune violazioni erano estremamente gravi: il tre per cento dei dipendenti era coinvolto in infrazioni delle leggi sul copyright o sul software, mentre il due per cento aveva contraffatto la firma di qualcuno su un documento. L'un per cento aveva inserito informazioni false compilando moduli del governo, a esempio quelli per la dichiarazione dei redditi.
D'altro canto, uno studio sui migliori revisori dei conti impiegati presso una delle più grandi aziende americane mise in evidenza come una delle loro caratteristiche distintive fosse una competenza definita «coraggio»: essi erano disposti a tener testa ai clienti e alle pressioni interne esercitate dalle proprie aziende, a perdere un cliente importante e a insistere affinché gli altri facessero ciò che era giusto. Per assicurarsi che le regole fossero effettivamente seguite, gli individui migliori avevano il coraggio di parlare anche contro forti resistenze – un atteggiamento che richiede un'immensa integrità e fiducia in se stessi. (Questo risultato fu percepito dall'azienda al tempo stesso come positivo e negativo: il lato buono era che i suoi migliori revisori avevano questo tipo di coraggio; quello cattivo, che la maggior parte dei dipendenti ne era priva.)
• Il responsabile della contabilità di un'azienda venne licenziato perché molestava sessualmente le donne che lavoravano per lui. Era inoltre profondamente aggressivo nel trattare con le persone in genere.
• In un'altra azienda, un alto dirigente era per natura un tipo estroverso, loquace, amichevole e spontaneo, ma mancava di autocontrollo e riservatezza. Fu licenziato per aver rivelato dei segreti aziendali.
• Il direttore di una piccola industria fu accusato di comportamento illecito nel gestire i fondi dell'azienda. Aveva scelto un responsabile finanziario (suo complice) che condivideva con lui sia la mancanza di coscienza, sia la scarsa apprensione sulle potenziali conseguenze avverse del loro operato.
Le analisi di queste carriere naufragate provengono dagli archivi di una società di consulenza che ha valutato questi individui nell'ambito di test svolti su 4265 persone – da semplici operai a dirigenti a capo di intere aziende.5-41 Ciò che li accomunava era la mancanza di controllo degli impulsi, con una capacità scarsa o addirittura assente di rimandare la gratificazione. Quando sono dotate di autocontrollo, le persone riescono a riflettere sulle potenziali conseguenze di ciò che stanno per fare e si assumono la responsabilità delle proprie parole e delle proprie azioni.
L'azienda di consulenza che effettuò lo studio sull'autocontrollo nell'ambito di diverse professioni e posizioni aziendali, afferma che, in generale, «nel selezionare gli individui da assumere – a qualsiasi livello – è saggio escludere i candidati con scarse o scarsissime doti» di autocontrollo, dal momento che «la probabilità che essi creino problemi di qualche tipo è estremamente alta». (Si fa comunque notare che è possibile insegnare a costoro come ottenere un maggior dominio sui propri impulsi: uno scarso controllo non deve rappresentare una sentenza di carriera senza futuro.)
Anche fra i giocatori di football, il cui stesso ruolo sembra richiedere un certo livello di aggressività spontanea, il controllo è una qualità che ripaga. In uno studio su più di 700 giocatori di vario livello, quelli più dotati di autocontrollo erano classificati dai loro allenatori come più motivati, dotati di maggiori capacità di gioco, migliori come leader e più facili da allenare.5-42 D'altro canto, quelli con uno scarso controllo degli impulsi dimostravano di avere poco rispetto per i compagni di squadra e gli allenatori e non erano disposti ad ascoltare o a prendere istruzioni. Erano privi di scrupoli nei confronti di accordi e contratti; con gli avversari usavano un turpiloquio offensivo e si abbandonavano a manifestazioni esibizioniste oltre la linea di fondo campo. Si scoprì, a esempio, che di due giocatori di football, entrambi con un bassissimo livello di controllo degli impulsi, uno faceva uso di droghe e l'altro era un attaccabrighe che picchiò e mise a tappeto un compagno di squadra durante un allenamento.
Invece, i segni quotidiani della coscienziosità – la puntualità, l'attenzione nello svolgere il proprio lavoro, l'autodisciplina e lo scrupolo nell'applicarsi alle proprie responsabilità – sono le caratteristiche fondamentali dei membri ideali delle organizzazioni, di quelle persone, insomma, grazie alle quali le cose vanno esattamente come dovrebbero. Essi seguono le regole, aiutano gli altri, si preoccupano di quelli con cui lavorano. Questo è il lavoratore coscienzioso che aiuta a orientare i nuovi arrivati e aggiorna i colleghi tornati al lavoro dopo un'assenza; è il tipo che arriva al lavoro puntuale e non abusa mai dei permessi di malattia; ancora, è quello che rispetta sempre le scadenze.
La coscienziosità è una delle principali radici del successo, in tutti i campi. Negli studi sulle prestazioni lavorative, questa competenza fa prevedere una straordinaria efficacia praticamente in tutte le mansioni, da quelle che richiedono manodopera semi-specializzata, al settore delle vendite e al management.5-43 Essere coscienziosi è particolarmente importante per dare prestazioni eccezionali nelle posizioni di più basso livello nella gerarchia di un'organizzazione: basti pensare all'impiegato che si occupa delle spedizioni e che non perde mai un pacchetto, alla segretaria capace di prendere i messaggi in modo impeccabile o all'autista del camion delle consegne che arriva sempre puntuale.
Fra i venditori di una grande azienda americana produttrice di elettrodomestici, per esempio, gli individui più coscienziosi erano anche quelli che realizzavano il maggior volume di vendite.5-44 Nel mercato del lavoro odierno in continuo ricambio, la coscienziosità riesce anche ad arginare la minaccia della perdita del posto; non a caso, infatti, i dipendenti con questa caratteristica sono fra i più apprezzati. Per determinare quali venditori confermare nel posto di lavoro, il livello di coscienziosità contava quasi quarto il volume delle vendite.5-45
Intorno alle persone altamente coscienziose c'è una sorta di aura, che le fa sembrare anche migliori di quanto in realtà non siano: la reputazione di affidabilità di questi individui influenza la valutazione del loro lavoro da parte dei supervisori, che emettono giudizi migliori di quanto farebbe prevedere una misura obiettiva della loro prestazione.
Tuttavia, in assenza di empatia o di abilità sociali, la coscienziosità può essere anche fonte di problemi. Poiché le persone coscienziose pretendono molto da se stesse, può capitare che giudichino gli altri in base ai propri standard e che quindi siano troppo critiche quando essi non mostrano il loro stesso comportamento esemplare. In alcune fabbriche britanniche e statunitensi, ad esempio, gli operai più coscienziosi tendevano a criticare i loro colleghi anche per errori minimi che ai destinatari delle critiche sembravano banali – il che metteva a dura prova le loro relazioni.5-46
Infine, quando la coscienziosità prende la forma di una implacabile conformità alle aspettative, può smorzare la creatività. In attività creative come l'arte o la pubblicità, è molto importante essere aperti a idee libere e alla spontaneità. Per avere successo in questo tipo di attività, però, occorre un equilibrio; se non è in grado di seguire fino in fondo un'intuizione – se non è abbastanza coscienzioso – l'individuo creativo diventa un mero sognatore, senza nulla in mano per dimostrare la propria immaginazione.
INNOVAZIONE E ADATTABILITÀ
Essere aperti a idee e approcci nuovi, e flessibili nel rispondere al cambiamento
Le persone con questa competenza:
Per l'innovazione
• Vanno alla ricerca di nuove idee attingendo a un'ampia varietà di fonti
• Valutano soluzioni originali
• Generano idee nuove
• Assumono prospettive inedite e corrono nuovi rischi nel proprio modo di pensare
Per l'adattabilità
• Gestiscono senza difficoltà molteplici richieste, priorità in evoluzione e rapidi cambiamenti
• Adattano le proprie risposte e le proprie tattiche alla fluidità delle circostanze
• Interpretano gli eventi in modo flessibile
Fu un segnale impercettibile. Verso la metà degli anni Settanta ci fu un cambiamento nel modo in cui i dirigenti dell'Intel venivano trattati dai loro colleghi giapponesi. Mentre prima era stato loro dimostrato molto rispetto, ora tornavano a casa con la vaga sensazione di essere considerati con un insolito atteggiamento di scherno. Qualcosa era cambiato.
Quel rapporto dalla prima linea doveva dimostrarsi un annuncio dell'imminente supremazia giapponese nel mercato dei chip per computer, che a quel tempo rappresentavano il prodotto principale dell'Intel. La storia è raccontata da Andrew S. Grove, direttore generale dell'Intel, come esempio di quanto possa essere difficile per i dirigenti adattarsi ai cambiamenti del mercato.5-47
Grove confessa che dopo quei primi rapporti ci vollero diversi anni perché i vertici dell'azienda si rendessero conto che le compagnie giapponesi avevano usato i propri punti di forza nella microelettronica di precisione per battere l'Intel al suo stesso gioco, ossia nella produzione e nella vendita di chip per computer.
Questi momenti – nei quali il cambiamento delle circostanze trasforma una strategia vincente in disastro – sono cruciali nella storia di ogni azienda. Tali frangenti equivalgono a quella che Grove chiama una «valle della morte»: se un'azienda non è abbastanza pronta a ripensare la propria strategia mentre ha ancora i numeri – e la forza – per cambiare e adattarsi sarà condannata a indebolirsi o a chiudere.
Nell'affrontare queste situazioni in cui o la va o la spacca, le abilità emotive messe in campo dagli alti dirigenti comportano una differenza essenziale. È indispensabile la capacità di essere flessibili – di assorbire informazioni nuove e anche sgradevoli evitando di desintonizzarsi automaticamente e reagendo con prontezza.
Troppo spesso, invece, prende il sopravvento l'inerzia, e i vertici non riescono a leggere i segnali dell'imminente cambiamento di grande portata – o temono di agire in base a quei segnali, nonostante le regole del gioco stiano cambiando.
Ad esempio, durante tutti gli anni Ottanta, all'Intel l'assunto dominante era quello di essere un'«azienda che produceva memorie», che vendeva chip, sebbene già allora la sua quota di quel particolare mercato si fosse ridotta a circa il tre per cento. Si faceva a malapena caso al fatto che intanto un settore secondario – il ramo dei microprocessori, gli oggi ubiquitari «Intel Inside» – aveva cominciato a sbocciare quella che sarebbe poi diventata la nuova anima dell'azienda.
Il settore dell'alta tecnologia, forse fra tutti quello soggetto ai cambiamenti più veloci, è disseminato dei relitti di aziende i cui vertici non sono stati in grado di adattarsi ai cambiamenti del mercato. Un ingegnere che aveva lavorato ai Wang Laboratories ai tempi d'oro degli anni Ottanta – quando l'azienda arrivò a un volume di vendite di tre miliardi di dollari – e che vi rimase fino a vederla fallire, mi dice: «Ho visto a che cosa porta il successo: alimenta l'arroganza. Uno smette di stare a sentire i clienti e i dipendenti. Ci si compiace della propria azienda, e alla fine si viene scavalcati dalla concorrenza».
Grove sostiene convinto che la capacità di un'azienda di sopravvivere a una tale incombente valle della morte dipende da una sola cosa: «dalla reazione emotiva ai vertici». Quando il loro stesso status, il loro stesso benessere – e quello della loro azienda – affronta una grande minaccia; quando gli assunti sulla propria missione e il proprio lavoro – quelli ai quali sono più affezionati – sono in pericolo, quali emozioni prendono il sopravvento nei dirigenti?
All'Intel, l'adattabilità fu essenziale per affrontare due eventi critici fondamentali: la perdita del mercato dei chip e, più recentemente, il disastro verificatosi quando un difetto nel processore Pentium – allora nuovo – fece perdere fiducia nel prodotto a milioni di possessori di computer. Sebbene l'intero dramma aziendale avesse impiegato all'incirca solo un mese a svilupparsi dal principio alla fine, quel breve periodo riassunse un classico adattamento dei vertici alla sfida rappresentata da nuove realtà: un'iniziale negazione seguita da fatti inevitabili e da un'ondata di angoscia – il tutto risoltosi quando Grove e i suoi più alti dirigenti affrontarono la realtà optando infine per una concessione lacerante e costosa: la promessa di sostituire il processore Pentium a tutti coloro che ne avessero fatto richiesta, nonostante ciò comportasse per la compagnia un costo di 475 milioni di dollari.
Il quasi mezzo miliardo di dollari che le sostituzioni delle parti difettose costarono all'Intel fu il prezzo necessario per affermare il nome dell'azienda. La campagna capillare «Intel Inside» era intesa a far percepire agli acquirenti che il microprocessore nel computer è il computer. Questo assicurò all'Intel una lealtà, da parte del cliente, che andava ben oltre la marca di computer che essi compravano.
Per una qualsiasi organizzazione, reinventarsi significa mettere in discussione assunti fondamentali, prospettive, strategie e identità. Tuttavia, le persone sono attaccate emotivamente a tutti questi elementi della loro vita lavorativa, il che rende ancora più difficile il cambiamento.5-48 Consideriamo il disastro in cui incorse la Schwinn Bicycle Company, che da metà degli anni Cinquanta fino a tutti gli anni Settanta era stata il numero uno, in America, nella produzione di biciclette.5-49 Azienda a proprietà familiare, la Schwinn non riuscì a percepire le tendenze, emerse negli anni Ottanta, del motocross e delle mountain bike e fu lenta a entrare in competizione con i concorrenti esteri sul mercato in espansione delle costose biciclette ultraleggere per adulti. I vertici dell'azienda, ignorando i mutamenti di gusto degli sportivi, furono decisamente troppo lenti nel ripensare le proprie strategie di marketing. Un sales manager liquidò le nuove biciclette ultraleggere con una battuta carica di sarcasmo: «Ci devono montare sopra o portarle a braccia?»
Fra i creditori che infine condussero la Schwinn alla bancarotta nel 1992 c'erano i suoi fornitori d'oltremare – compresa la Giant Bicycles di Taiwan, che proprio l'azienda americana, con le sue ordinazioni, aveva involontariamente aiutato a diventare un titano del settore.
In aziende grandi e piccole, un tale cambiamento nelle realtà di mercato, naturalmente, è una parte inevitabile della competizione. Il dirigente di una società che elabora dati per i concessionari di automobili mi racconta: «Uno dei nostri principali competitori aveva un giro di affari di 400 milioni di dollari l'armo solo per la fornitura di moduli ai concessionari. Poi noi introducemmo un sistema per far loro usare computer e stampanti laser, facendo così a meno di quei moduli. Siamo arrivati a 60 milioni di dollari l'anno – tutti affari sottratti a quel nostro concorrente. Proprio questo mese, alla fine, si sono svegliati e hanno introdotto un sistema computerizzato in com-petizione con il nostro – ma ci hanno impiegato quattro anni, e gli è costato un'enorme fetta di mercato».
Era un tipo brillante, su questo non c'erano dubbi. Era un Certified Public Accountant con due master – uno in economia e uno in amministrazione aziendale – e un corso avanzato in finanza, il tutto presso un'università dell'Ivy League. Per molti anni era stato un tipo di spicco come addetto ai crediti e responsabile della gestione rischi per un'importante banca internazionale. E ora lo licenziavano.
La ragione? Non sapeva adeguarsi al suo nuovo lavoro. Il successo gli aveva guadagnato un posto in un team istituito dalla banca per reperire compagnie prometterti nelle quali investire. Compito del gruppo era quello di recuperare il valore dei titoli di stato in paesi dove essi avevano subito una svalutazione fino all'80 per cento. In quegli stessi paesi, i titoli potevano ancora essere investiti al loro pieno valore nominale. Ma invece di aiutare il proprio gruppo a pensare alle situazioni positive che potevano fare di una compagnia un buon acquisto, questo ex responsabile della gestione rischi si limitava a insistere nel suo vecchio approccio caratterizzato dalla negazione.
«Si intestardiva ad analizzare i punti deboli, alla ricerca dei possibili svantaggi, soffocando gli affari, invece di crearne», mi disse il responsabile della selezione dal quale egli si recò dopo aver perso il lavoro. «Alla fine il suo capo ne ebbe abbastanza e lo licenziò. Proprio non riusciva ad adattarsi al nuovo obiettivo.»
Di questi tempi, nel mondo del lavoro, la vera costante è il cambiamento. «Una volta eravamo molto rigidi nel nostro modo di operare: si faceva tutto attenendosi alle regole: A, B, C, D – non c'era altro modo», mi racconta un venditore di spazi pubblicitari su un'importante rivista. «Ora, però, decidiamo da soli; non c'è una formula prefissata che stabilisca il modo in cui lavorare. Siamo incoraggiati a correre dei rischi, a lavorare in team. L'atmosfera è cambiata. Ma sembra che alcune persone non sappiano che pesci prendere. Si trovano in difficoltà con questo nuovo modo di fare le cose.»
Le persone che mancano della capacità di adattarsi sono dominate dalla paura, dall'ansia e da un profondo sconforto personale di fronte al cambiamento. Ad esempio, nelle organizzazioni, molti manager hanno delle difficoltà ad adattarsi alla tendenza di distribuire l'autorità e la responsabilità e di prendere decisioni. Come mi disse un alto dirigente della Siemens AG, la holding tedesca: «La gente ha ancora vecchie abitudini per quanto riguarda l'autorità. Il nuovo modello dà agli individui il potere di decidere da soli, delegando le responsabilità verso il basso della gerarchia, avvicinandosi al cliente. Ma quando gli affari vanno male – ad esempio quando per un mese il profitto va giù – alcuni manager sprofondano nel panico e tornano al loro vecchio metodo di gestione esercitando un controllo più stretto. Nel momento in cui lo fanno, indeboliscono il nuovo modello».
Se c'è una competenza necessaria di questi tempi, quella è proprio l'adattabilità.5-50 Chi è maggiormente dotato di tale competenza è in grado di controllare la paura del nuovo, ama il cambiamento e trova stimolante l'innovazione. Questi individui sono aperti a recepire nuove informazioni e – come il gruppo dirigente dell'Intel – sanno rinunciare ai vecchi assunti, adattando il proprio modo di operare alle situazioni nuove. Essi si trovano a proprio agio con quel genere di ansia tanto spesso associata al nuovo o all'ignoto, e sono disposti a rischiare tentando di fare le cose in modi non ancora sperimentati.
Essere capaci di adattamento richiede flessibilità nel percepire molteplici prospettive sugli eventi. Questa flessibilità dipende, a sua volta, da un talento emotivo: l'abilità di sentirsi a proprio agio nelle situazioni ambigue e di restare calmi di fronte a svolte impreviste. Un'altra competenza che fa da puntello alla capacità di adattamento è la fiducia in se stessi – soprattutto quella sicurezza che consente di adeguare rapidamente le proprie risposte fino al punto di lasciar perdere tutto, senza scrupoli o riserve, nel momento in cui la realtà cambia.
L'apertura al cambiamento e al nuovo che caratterizza l'adattabilità lega questa competenza a un'altra, sempre più apprezzata in questi tempi turbolenti: l'innovazione.
La Levi Strauss, la grande azienda produttrice di abbigliamento, si trovò ad affrontare un grosso problema quando si scoprì che in Bangladesh le sue subappaltataci usavano manodopera infantile. Gli attivisti delle organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani stavano facendo pressione sulla Levi Strauss affinché smettesse di consentire ai propri subappaltatori di impiegare lavoratori minorenni. Ma gli investigatori della compagnia scoprirono che probabilmente, se avessero perso il lavoro, alcuni bambini, a causa della povertà, sarebbero stati spinti alla prostituzione. Avrebbero dunque dovuto licenziarli, per assumere una posizione di principio contro il lavoro infantile? Oppure sarebbe stato meglio tenerli, per proteggerli da un destino ben peggiore?
Ecco la soluzione creativa: nessuna delle due cose. La Levi Strauss decise di continuare a pagare ai bambini il loro stipendio purché essi andassero a scuola a tempo pieno per poi riassumerli una volta che avessero compiuti i 14 anni – in quel paese, l'età in cui si diventa maggiorenni.5-51
Questa risposta innovativi costituisce un esempio di pensiero creativo per le multinazionali che cercano di essere socialmente responsabili. Arrivare a una soluzione così originale richiede idee che a un primo sguardo possono sembrare troppo radicali o rischiose – e ciò nondimeno avere il coraggio di metterle in atto fino in fondo.
Nell'ambiente di lavoro, il fondamento emotivo dell'innovatore sta nel trarre piacere dall'originalità. Nel luogo di lavoro la creatività ruota intorno all'applicazione di nuove idee per ottenere dei risultati. Chi ha questa capacità identifica rapidamente i problemi chiave e sa semplificare nodi di complessità apparentemente micidiale. Fatto più importante, costoro riescono a trovare connessioni e modelli originali che altri trascurano.
Chi non è incline all'innovazione, invece, di solito si lascia sfuggire il quadro generale e resta invischiato nell'analisi dei dettagli, affrontando così i problemi complessi in modo lento e noioso. Il timore del rischio lo fa esitare di fronte alle idee nuove. Quando poi cerca di trovare delle soluzioni, spesso non riesce a rendersi conto del fatto che ciò che ha funzionato in passato non rappresenta sempre e necessariamente la risposta buona per il futuro.
Le carenze in questa competenza possono spingersi anche oltre la semplice mancanza di immaginazione. Le persone che si sentono a disagio nell'affrontare il rischio diventano critiche e tendono ad assumere un atteggiamento di negazione. Sempre cauti e sulla difensiva, costoro deridono o insidiano le idee innovative.
La mente creativa è, per la sua stessa natura, un poco indisciplinata. Esiste una naturale tensione fra l'autocontrollo ordinato e l'impulso innovativo. Non è che le persone creative debbano essere per forza emotivamente fuori controllo; piuttosto, chi ha un vivo istinto creativo è aperto a una gamma più ampia di impulsi e di azioni rispetto agli spiriti meno avventurosi. Ed è proprio questo che, dopo tutto, crea nuove possibilità.
Nelle grandi organizzazioni la capacità di autocontrollarsi – nel senso di seguire le regole – fa prevedere prestazioni eccellenti, soprattutto dove un burocratico senso del dovere è ricompensato. Ma nelle società imprenditoriali, e nelle attività creative come la pubblicità, essere eccessivamente controllati è un fattore che lascia prevedere il fallimento.
Un investitore tedesco deplora, nel suo paese, la mancanza di sostegno nei confronti di quel pensiero innovativo e di quella disponibilità ad assumersi rischi che sono il cuore stesso della speculazione imprenditoriale. Sento manifestare la stessa preoccupazione in Giappone. L'investitore tedesco mi racconta: «Molti paesi, come il mio, si stanno preoccupando di come incoraggiare le capacità imprenditoriali che creano nuovi posti di lavoro». La capacità di correre dei rischi e l'impulso a perseguire idee innovative sono il carburante che alimenta lo spirito imprenditoriale.
L'atto dell'innovazione è al tempo stesso cognitivo ed emotivo. Avere un'intuizione creativa è un atto cognitivo; ma comprendere il suo valore, alimentarla e seguirla fino alla sua attuazione richiede competenze emotive come la fiducia in se stessi, l'iniziativa, la costanza e la capacità di persuasione. In tutto il processo, poi, la creatività richiede una varietà di competenze legate all'autocontrollo, che aiutino a superare i vincoli interiori posti dalle stesse emozioni. Come osserva lo psicologo di Yale Robert Sternberg, questi vincoli comprendono fluttuazioni in emozioni che vanno dalla depressione all'esaltazione, dall'apatia all'entusiasmo, e dalla distrazione alla concentrazione.5-52
Nel diciannovesimo secolo, il matematico Jules-Henri Poincaré propose un modello dell'atto creativo articolato in quattro stadi fondamentali, che nelle sue linee generali vale ancora oggi. Il primo stadio è quello della preparazione – l'immersione nel problema e la raccolta di un'ampia gamma di dati e informazioni. Molto spesso, nella ricerca creativa, questo primo stadio porta a una frustrante impasse – molte possibilità ma nessuna intuizione.
Nella fase successiva, quella dell'incubazione, l'informazione e le possibilità fermentano in un angolo della mente. Lasciamo che essa giochi: sogniamo a occhi aperti, facciamo libere associazioni, indugiamo nel brainstorming e raccogliamo le idee non appena esse affiorano. Poi, con un po' di fortuna, passiamo a una terza fase, quella dell'illuminazione – il momento dell'Eureka! – quando finalmente arriva l'intuizione che ci porta davvero avanti. Questo è un momento eccitante, un culmine. Ma l'illuminazione non basta: il mondo del lavoro è costellato di idee promettenti mai realizzate. La fase finale è quella dell'esecuzione, la traduzione dell'idea in azione. Ciò richiede un atteggiamento perseverante e risoluto a dispetto di tutte le obiezioni, gli insuccessi, i tentativi e i fallimenti che solitamente insorgono di fronte a qualsiasi innovazione.
«C'è un'enorme differenza fra chi effettivamente inventa qualcosa e lo traduce in realtà e chi s limita a sognarci sopra», sottolinea Phil Weilerstein, direttore della National Collegiate Inventors and Innovators Alliance. Coloro che riescono a seguire fino in fondo le proprie idee e a metterle in pratica, mi dice, «tendono ad avere un elevato livello di intelligenza emotiva: è gente che capisce come, per far accadere qualcosa di nuovo, debbano confluire moltissimi elementi – la maggior parte dei quali umani. Occorre comunicare con la gente e persuaderla, risolvere problemi insieme e collaborare.»
Ray Kurzweil, l'inventore del software per il riconoscimento vocale, è d'accordo. «Il coraggio è essenziale se vuoi far decollare un progetto creativo», mi disse. «Ma non ci vuole solo coraggio, serve anche l'abilità di un venditore.»
Oggi il vero modello dell'invenzione, anche nella scienza, si sta spostando da una dimensione individualista a una dimensione collettiva. «In campi come le complesse tecnologie moderne e il mondo aziendale ci troviamo chiaramente in un'era nella quale le idee del singolo raramente portano a progressi significativi», ho sentito dire da Alex Broer, vicerettore della Cambridge University ed ex direttore della ricerca IBM, in occasione di un briefing sull'intelligenza emotiva tenuto per la British Telecom.
«Le idee dell'individuo devono adattarsi a una matrice d'innovazione che si diffonde attraverso un gruppo di ricercatori in tutto il mondo» aggiunge Broer. «Devi parlare con tutti. Perciò, per sapere come e da chi ottenere idee rilevanti, oggi occorre molta più intelligenza emotiva di prima» – non parliamo poi di quella necessaria per istituire le coalizioni e le collaborazioni che porteranno quelle idee alla fruizione.
Le nuove idee sono fragili, fin troppo facilmente uccise dalle critiche. Si dice che sir Isaac Newton fosse così sensibile agli attacchi che si trattenne dal pubblicare un lavoro sull'ottica per quindici anni – ossia fino alla morte del suo critico più accanito. I manager che lavorano con gruppi creativi possono aiutare ad alimentare i germogli delle nuove possibilità proteggendoli dalle critiche troppo precoci che tendono a farli appassire.
«Noi abbiamo una regola, e cioè che ogni qualvolta qualcuno propone un'idea creativa, le persone che la commentano per prime debbano fare la parte di «avvocati difensori», ossia difenderla e sostenerla», mi raccontò Paul Robinson, direttore del Sandia National Laboratory. «Solo in un secondo tempo possiamo ascoltare le inevitabili critiche che altrimenti rischierebbero di uccidere l'idea ancora in boccio.»
Marvin Minsky, pioniere dell'intelligenza artificiale al MIT, osserva che il problema di trarre vantaggio dalla creatività non si risolve solo con la creazione di idee, ma anche con la scelta di quelle su cui scommettere. Mi raccontò che verso la fine degli anni Settanta la Xerox aveva messo a punto sei prototipi della stampante laser, i primi nel loro genere, e ne prestò uno al suo gruppo del MIT per provarla. Come ricorda Minsky, «noi del MIT dicemmo: "È fantastica" ma qualche vicepresidente della Xerox ignorò la nostra opinione e decise di non approfondire la tecnologia. E così la prima a immettere le laser sul mercato fu la Canon – mentre la Xerox perse l'occasione d'oro di partire in prima fila nella corsa a un mercato da un miliardo di dollari.»
Raggelante come la voce del dubbio è la sua stretta parente – la voce dell'indifferenza. Gli ingegneri hanno un termine per indicarla: NIH – «not invented here», ossia «non inventato qui»: in altre parole: se non è un'idea nostra, non ci interessa. Teresa Amabile, una psicologa della Harvard Business School, elenca quattro «killer della creatività», ciascuno dei quali limita la memoria di lavoro – lo spazio mentale nel quale ha luogo il brainstorming e fiorisce la creatività – e stronca la capacità di correre dei rischi.5-53
• Sorveglianza: un atteggiamento incombente e di costante controllo che soffoca l'essenziale percezione di libertà necessaria al pensiero creativo.
• Valutazione: un atteggiamento critico che compaia troppo precocemente o sia troppo intenso. Naturalmente le idee creative dovrebbero essere criticate – non sono tutte ugualmente buone, e quelle promettenti possono essere perfezionate e rifinite grazie a critiche costruttive. Ma la valutazione diventa controproducente quando porta a preoccuparsi incessantemente del giudizio altrui.
• Controllo eccessivo: la microgestione di ogni singolo passo. Come la sorveglianza, questo atteggiamento alimenta un senso di costrizione oppressivo che scoraggia ogni forma di originalità.
• Scadenze implacabili: un programma troppo intenso che genera una sensazione di panico. Sebbene alcune pressioni possano essere motivanti – e le scadenze e gli obiettivi aiutino a concentrare l'attenzione – possono anche uccidere la fertile «libertà» in cui fioriscono le idee nuove.
Per adattarsi prontamente alle mutevoli realtà del mercato occorre una creatività collettiva, la sensazione – percepita a ogni livello della compagnia, di essere a proprio agio in condizioni di incertezza. Consideriamo la SOL, un'impresa di pulizie industriale di grande successo operante in Finlandia. Quando, nel 1992, venne trasferita a una conglomerata più grande a proprietà familiare, aveva 2000 dipendenti, 1500 clienti ed entrate annuali di 35 milioni di dollari. Solo quattro anni dopo aveva raddoppiato i clienti portandoli a 3000, quasi raddoppiato il numero dei dipendenti e raggiunto entrate di 60 milioni.5-54
I dipendenti della SOL godono di una straordinaria libertà nel proprio lavoro. Si tratta di un ambiente dove sono stati aboliti titoli, uffici individuali, come pure gli extra o le segretarie riservati agli alti dirigenti. Né ci sono orari di lavoro stabiliti – e questa è forse la frattura più radicale in Finlandia, dove quasi tutte le aziende aderiscono a una rigida giornata lavorativa dalle 8 alle 16. La SOL ha liberato i suoi dipendenti consentendo loro di essere creativi riguardo a quale lavoro fare e a come farlo.
Questa autonomia ha consentito alla SOL di brillare per la prontezza dell'innovazione in un settore all'antica e di basso livello. In alcuni ospedali, ad esempio, gli impiegati della SOL videro uno spazio per offrire altri servizi, e così hanno assunto alcuni compiti di assistenza notturna ai malati, ad esempio li aiutano ad andare in bagno, o avvertono i medici delle emergenze. In diverse catene di negozi di drogheria, i dipendenti della SOL riforniscono gli scaffali durante i turni di notte.
La creatività tende anche a essere potenziata in organizzazioni che, come la SOL, indulgono meno alle formalità, hanno ruoli meno definiti e più flessibili, danno autonomia ai dipendenti, hanno un flusso di informazione aperto e operano in squadre miste multidisciplinari.5-55
Proprio come la creatività individuale, anche nelle organizzazioni l'innovazione fiorisce attraverso diversi stadi. I due più essenziali sono l'inizio – in primo luogo l'emergere dell'idea – e l'implementazione, ossia la sua realizzazione pratica.
In un'organizzazione, coloro che generano le idee e coloro che difendono l'innovazione sono solitamente persone diverse, appartenenti a gruppi diversi. Uno studio condotto su migliaia di persone impiegate nei dipartimenti di ricerca e sviluppo delle industrie meccaniche ha dimostrato come gli individui che producevano le idee avessero tendenzialmente punti di forza in un ambito di expertise ristretto e trovassero piacevole immergersi nel pensiero astratto.5-56 Si trattava inoltre di persone che preferivano lavorare individualmente.
Invece, coloro che sapevano difendere efficacemente le innovazioni risultanti erano particolarmente bravi nell'arte della persuasione e nella consapevolezza politica: bravi a vendere idee e a trovare sostegno e alleanze. Sebbene non sia necessario affermare che l'expertise tecnico è vitale per generare idee innovative, quando si tratta poi di mettere quelle idee in pratica, la differenza sta tutta nel sapersi orientare nella rete di influenze di cui l'azienda è permeata. Un'organizzazione che abbia a cuore l'innovazione deve dunque sostenere entrambi questi insiemi di competenze nei suoi personaggi-chiave.