Sto correndo su per le scale. Devo aprire lo schedario, ma sento qualcuno spostarsi in silenzio tra le stanze del pianterreno. Raggiungo lo studio, prendo la chiave che ho in tasca e la inserisco con dita tremanti nella serratura del mobile di metallo. Non gira, qualcosa non va. La estraggo e riprovo. Devo sbrigarmi, perché lui mi sta cercando stanza per stanza. La chiave continua a non funzionare, fino a quando non la forzo un pochino. Apro i cassetti con cautela, respirando appena, consapevole dei passi attutiti su per le scale. I primi tre contengono i fascicoli dei clienti, poi apro il quarto, il più basso. Sembra vuoto, ma quando mi accovaccio e allungo la mano per frugare sul fondo la trovo: la cassetta di metallo è nascosta lì.
I passi ora sono sul pianerottolo. Lui apre la porta della stanza degli ospiti, che scricchiola. Trattenendo il fiato, infilo la minuscola chiave nella serratura. Devo fare in fretta, ormai è qui. Apro la cassetta. La porta alle mie spalle si apre piano piano, costringendomi a chinarmi ancora di più per nascondermi. Quando alzo il coperchio, da dentro mi sale un grido di puro terrore, ma una mano mi tappa la bocca, soffocando il grido mentre è ancora in gola.
Mi sveglio di soprassalto, col respiro affannoso. Sono le conseguenze tangibili del sogno che ho appena fatto. Allungo una mano tremante per accendere la luce, ricordando che, mentre mi giravo e rigiravo nel letto nel pieno del mio incubo, a un altro livello del subconscio avvertivo la presenza di Nina che mi osservava. Volevo chiamarla, chiederle di salvarmi dal mio aggressore, ma non ci riuscivo.
Butto indietro le coperte e mi alzo. Tremo tutta. Non sono più così sicura di farcela a restare in questa casa da sola. La tentazione di telefonare a Leo e chiedergli di tornare è così forte che mi porto il cellulare fino in cucina. Ho un disperato bisogno di bere qualcosa che mi calmi i nervi, per cui riempio una tazza di latte e vado in cerca del cacao solubile. Tranquillizzata dal ronzio confortante del microonde, cerco di ricordare cosa c’era nella cassetta di metallo. Ma, così come la faccia dell’uomo che ha soffocato il mio grido, quel ricordo è sparito.
Riesco a non telefonare a Leo, ma sono già le cinque del mattino quando mi sento pronta per tornare a letto. Sebbene abbia dormito fino a tardi, l’incubo mi perseguita per il resto della giornata, mettendomi addosso un forte senso di disagio. Trovare altri capelli miei in cucina e in bagno aumenta la depressione. Li sto ancora perdendo a ciocche.
Suonano il campanello. È Eve che sta uscendo per la sua corsa mattutina. «Ti volevo ringraziare per sabato sera. Will e io siamo stati benissimo.»
Sorrido nel vederla saltellare da un piede all’altro sulla soglia, già in modalità riscaldamento. «Sono stata bene anch’io. È stato bello poter conoscere meglio Connor e Tim. Vuoi entrare?»
«No, grazie, ho bisogno di fare la mia corsetta.» Eve esita. «Non per fare la ficcanaso, ma qui è difficile non accorgersi delle cose. È tornato Leo?»
«No, è solo venuto a prendere dei documenti.»
«Come sta?»
Faccio una smorfia. «Pensa che lo stia trattando ingiustamente, per farmi sentire in colpa.»
«Non è giusto. Avrebbe dovuto essere sincero con te riguardo alla casa, per cominciare.»
«Lo so, ma se lo fosse stato adesso non abiterei qui. Non ti avrei conosciuto e non avrei conosciuto nemmeno gli altri. Non è sorprendente come funziona il destino?»
Lei smette di saltellare e mi guarda incuriosita. «Credi che il tuo destino sia di restare qui?»
«Sì. Credo fermamente che il fato ci porti dove dobbiamo essere.»
«Per uno scopo preciso, intendi?»
«Sì, anche se non ho ancora capito quale.»
«Quindi non stai cercando la verità dietro la morte di Nina?» Sembra una domanda innocente.
Sono confusa. «Se siete tutti convinti che sia stato Oliver a ucciderla, non c’è nessuna verità da cercare.»
«Peccato che tu non creda nella colpevolezza di Oliver.»
Nemmeno Tamsin ci crede, vorrei farle notare, ma non posso, perché capirebbe che ho origliato la loro conversazione.
«È questo che non capisco. Perché non pensi che sia stato lui? Non lo conoscevi neppure.»
«Hai ragione, lo conosco solo per quello che mi avete raccontato voi, ma proprio per questo non riesco a conciliare l’immagine che mi avete dipinto di lui con la violenza del crimine. Comunque non sto cercando di risolvere nessun mistero. Prima di tutto non spetta a me, e poi non c’è proprio niente da risolvere, visto che per tutti è stato Oliver.»
Siamo interrotte da Will che esce di casa e guarda divertito Eve. «Ancora qui? Avevo capito che avessi una gran fretta di andare a correre.»
Lei riprende a saltellare. «Infatti. Ciao, Alice.»
Corre sino in fondo al vialetto, dove l’aspetta Will. Si scambiano qualche parola, poi lei gli stampa un bacio sulla bocca prima di sparire nel giardino al centro della piazzetta. Dopo avermi salutato con la mano, Will la segue camminando. Mentre lo guardo allontanarsi, mi rendo conto ancora una volta che, più tempo passo con gli ex amici di Oliver e Nina, più sento che qualcosa non quadra. Secondo Eve al Circle è difficile non accorgersi delle cose, e infatti sapeva che ieri Leo è venuto qui a casa, eppure prima di morire Nina è riuscita a portare avanti una relazione per mesi senza che nessuno, nemmeno uno dei residenti, si sia accorto che qualcuno entrava e usciva da casa sua più spesso del dovuto. Quindi o Nina e il suo amante si vedevano al di fuori del Circle, oppure lui riusciva a raggiungere casa di lei senza farsi notare, il che porterebbe dritto a Will. Usando il buco nella recinzione, Will sarebbe potuto andare e venire a piacimento senza timore di essere avvistato. Anche se lavora da casa, Eve va a correre per almeno un’oretta tutte le mattine e trascorre tutti i giovedì da sua madre. Volendo, Will avrebbe avuto innumerevoli occasioni per vedersi con Nina mentre Eve era fuori.
Non mi ci vuole molto per accettare che invece sì, sono proprio il tipo di persona capace di mettere il naso nelle faccende altrui. La chiave dello schedario è un prurito che non riesco a ignorare. Ho cercato di distrarmi lavorando a testa bassa, ma mercoledì in pausa pranzo non riesco più a trattenermi.
Recupero la chiave dal vasetto di terracotta e salgo nello studio di Leo. Staccare la chiave più piccola da sotto il cassetto della scrivania è inutile, se nello schedario ci sono solo i fascicoli dei clienti. Lo apro. I primi tre cassetti contengono solo questo: file ordinate di documenti, ciascuno inserito nella sua cartella sospesa. Mi chino ad aprire anche il cassetto più in basso e nel vederci solo altre cartelle – non tante quanto nei primi tre cassetti, perché sono spinte verso il fondo per lasciare spazio a quelle nuove – comincio a sentirmi un po’ una stupida.
E a vergognarmi di me stessa. Seduta per terra, mi chiedo come una parte di me abbia davvero potuto sperare di trovare qualcosa. Ma mi serve una pietra dello scandalo, perché se finirò per lasciare Leo ho il timore che l’informazione taciuta e la bugia su di me – che hanno entrambe contribuito a cambiare i miei sentimenti nei suoi confronti – non verranno accettate come un motivo sufficiente, non solo da lui ma anche da altri cui tengo, per esempio Ginny, Mark e Debbie. Forse ai loro occhi quelle menzogne non appaiono così gravi. Voglio ancora bene a Leo, ma la fiducia se n’è andata. Gliel’ho detto il giorno in cui gli ho raccontato della mia amica, che se non mi fidassi più di lui sarei costretta a lasciarlo. Lo sapeva, eppure ha voluto lo stesso correre il rischio.
L’ultimo cassetto è ancora aperto e, quando io, scoraggiata, gli do una spinta per chiuderlo, da sotto le cartelle sbuca fuori qualcosa. Ho appena il tempo di accorgermene prima che il cassetto si richiuda, rimangiandosi l’oggetto. Col cuore in gola, lo riapro e infilo una mano sotto le cartelle. Le mie dita toccano qualcosa di solido, che afferro e tiro verso di me aspettandomi che sia un libro, magari un’agenda da tavolo. Invece è una cassetta di metallo nero.
La fisso. A parte il colore – me l’ero immaginata rossa come quella che avevo io da ragazzina – è esattamente il tipo di cassetta che si apre con una chiave come quella nascosta nella scrivania. Poi ricordo l’incubo che ho avuto l’altra notte, con una cassetta nera proprio come questa, il cui contenuto mi aveva strappato un grido, soffocato da una mano stretta intorno al collo.
Mi alzo, guardando nervosamente verso la porta. Dalla strada mi arrivano delle voci: un genitore che parla, un bambino che ride. Mi tranquillizzano. È ora di pranzo, in giro c’è gente e se apro la cassetta adesso, alla luce del giorno, non mi succederà niente di brutto.
Vado a staccare la piccola chiave da sotto il cassetto della scrivania, dicendomi che potrebbe anche non essere quella giusta. Quando prendo in mano la cassetta, mi stupisco di quant’è leggera. La scuoto e sento qualcosa urtare contro il fianco, forse un libretto, o un diario. Penso a Nina.
Appoggio la cassetta sulla scrivania per aprirla. La chiave entra subito, io la giro e alzo il coperchio.
All’inizio lo scambio davvero per un diario, ma non lo è. Si tratta di un passaporto, uno di quelli vecchi blu che non sono più validi. Sento l’adrenalina scorrere nelle vene. Era di Nina? Lo prendo con cautela, con le dita che tremano già, perché per quale motivo Leo dovrebbe avere il passaporto di Nina? Lo apro alla pagina della fotografia, e a quel punto mi si mozza il fiato. La foto, scattata almeno vent’anni fa ma che non lascia dubbi, non è di Nina, bensì di Leo. Poi leggo il nome e il mondo che credevo di conoscere mi crolla addosso ancora una volta. Il cognome di Leo sul documento è Carter, non Curtis.
Annaspo alle mie spalle in cerca della sedia e mi ci accascio, vagamente consapevole del campanello che suona. Perché Leo mi ha detto di chiamarsi Curtis se invece si chiama Carter? Ricordo bene com’è sembrato sul punto di svenire qualche giorno fa, quando affrontandolo dopo aver saputo dell’omicidio gli ho chiesto chi fosse veramente. Intendevo dire chi era per mentirmi in quel modo, invece lui deve aver pensato che avessi scoperto la sua vera identità.
Il campanello suona ancora, gettandomi nel panico. Leo si dev’essere accorto che la chiave non è più nel portafogli e deve avere intuito che l’ho presa io. Balzo in piedi. Che motivo m’inventerò per avergliela sottratta? Poi mi dico: se ha un passaporto con un altro nome deve avere un segreto da nascondere, un segreto molto peggiore del furto di una chiave da un portafogli.