La mia nuova paziente mi piace. Ho già capito che sarà una bella sfida, ma mi sta bene così. Prende posto di fronte a me, accavallando le gambe snelle, trasudando sicurezza. È una donna in pace con se stessa. Ma abbiamo tutti del buio dentro di noi e, più profondamente è sepolto, più è interessante.
Prendo il taccuino dal tavolo e la penna dalla tasca. Potrei scrivere i miei appunti su un laptop, ma i pazienti preferiscono ancora questo metodo antiquato. Il problema di usare uno schermo, credo, è che il paziente non sa mai cosa stiamo facendo dietro di esso, se stiamo davvero scrivendo o se guardiamo una serie su Netflix.
Quando attacco con le domande standard, lei mi scruta divertita. «Davvero lo vuole sapere?»
La guardo con severità e lei, mortificata, scavalla le gambe, tira giù l’orlo della gonna e si concentra sulle risposte.
«Perché è qui?» le domando, quando arriviamo alla fine. Poi le tengo il solito discorsetto su come qualunque cosa dirà non uscirà da questa stanza.
Questa stanza. Giro lo sguardo sulle pareti rosa pallido, sulla finestra affacciata sulla strada. Non ci sono scuri o veneziane a proteggerci da occhi indiscreti, solo delle tende che a quest’ora del giorno non posso accostare. Per questo ho disposto le nostre poltrone vicino alla parete di fondo. Come sempre, la discrezione è tutto.
«Non ho nessun problema grosso», spiega. «Penso solo che stare per un po’ in terapia mi potrebbe giovare, se non altro per capire come ci si sente. E per parlare. Parlare fa sempre bene, giusto?»
«Sicuramente.»
Così parliamo della sua infanzia felice; della sua adolescenza, senza veri problemi; della sua carriera, che la soddisfa. L’unica cosa di cui non parla è il marito. Sapendo che è sposata, il suo è un silenzio rivelatore.
Poso il taccuino. «Da quanto tempo è sposata?»
Quando mi guarda meravigliata, accenno alla sua mano sinistra e alla sottile vera d’oro che porta all’anulare.
«Potrei essere vedova», mi fa osservare.
«Lo è?»
«No.»
Aspetto.
«Sette anni. Sono sposata da sette anni.»
«Sette anni felici?»
«Estatici, li definirei. Nemmeno uno screzio.»
Reprimo un sospiro. Che delusione.
Mi sporgo verso di lei, gli occhi fissi nei suoi. «Lo sa cosa diceva Henry David Thoreau della felicità?»
Adesso quella delusa è lei. Si sporge a sua volta, gli occhi fissi nei miei. «Sì, so perfettamente cosa diceva della felicità Henry David Thoreau. Ed è un gran mucchio di palle.»