6. Il lutto e l’attivazione dell’attaccamento

L’attaccamento, concepito ed elaborato da John Bowlby,1 è un sistema osservabile e manipolabile sperimentalmente. Il neonato nella fase preverbale si orienta verso la persona che lo rassicura (la madre, il padre, la tata) per cercare una vicinanza protettrice e mantenerla. Questo sistema di attaccamento, impresso nella nostra memoria biologica, si risveglia in caso di allerta. Perché, quando ci capita un lutto, sentiamo il bisogno di stringerci a coloro che amiamo e che subiscono la nostra stessa perdita? In Libano, durante la guerra civile (1975-1990), il padre che partiva al mattino per andare al lavoro trasmetteva un’ansia diffusa: «Chissà se rientrerà?».2 Il suo ritorno serale era un momento di festa. «È qui, ancora vivo, che bello poter continuare ad amarlo!». Il sentimento di perdita seguito dal ricongiungimento è un efficacissimo attivatore di attaccamento. Quando invece si è sempre sicuri di essere amati, tutti i giorni allo stesso modo, la sicurezza affettiva intorpidisce la psiche: «Come sono tristi le vostre felicità» diceva Cioran ai giovani di buona famiglia. Ci vuole un pizzico di disperazione, per provare la gioia di combatterla vittoriosamente. «Bisogna essere malinconici all’eccesso, infinitamente tristi. Soltanto allora si verifica una reazione biologica salutare. Fra l’orrore e l’estasi, io pratico una tristezza attiva».3

Amo Cioran, il suo umorismo cinico: con la sua brutale eleganza sa esprimere ciò che i neurofisiologi ci dimostrano attraverso le «coppie di opposti». Troppo dolore porta all’estasi, e una grande gioia può trasformarsi in dolore.

Si può applicare lo stesso ragionamento all’amore di Dio? Quando Dio è presente ogni giorno, in una cultura pacifica, all’interno di una famiglia devota fino alla saturazione, non ci accorgiamo quanto gli siamo attaccati. Occorre una perdita, una rottura familiare o un impoverimento culturale perché la privazione acuisca il bisogno di credere in Lui, e rinnovi la gioia del suo amore rassicurante.4

Nel lutto, una stella affettiva si spegne. Per continuare a vivere dobbiamo riorganizzare la nostra costellazione familiare. Lo stesso succede quando siamo colpiti da un evento lacerante (un divorzio, la perdita del lavoro, una guerra, o anche solo un trasloco): dobbiamo trovare ogni volta nuovi oggetti d’amore. Ma il verbo «amare» ci porta verso obiettivi ogni volta diversi: non amiamo nostra madre come amiamo nostra moglie, i nostri figli, il cibo o Dio. Questa orientazione affettiva universale crea una struttura diversa per ogni oggetto. All’inizio, chi è colpito dal lutto non vive ancora in una nuova famiglia, ma fluttua nelle vecchie parentele dov’è venuta a mancare una figura di attaccamento. Il defunto, morto nel mondo reale, non lo è nei legami che ha stretto in vita. Se siamo abituati a vivere con qualcuno di cui ci siamo presi cura ogni giorno, questa persona rimane viva nei nostri ricordi. Il nostro cervello è fatto così: insiste a proiettare nel futuro ciò che ha avuto nel suo passato.5 Caterina, dopo avere perso il figlio ventenne precipitato incidentalmente dalla finestra, si è dovuta recare all’obitorio per riconoscere il corpo del ragazzo. La stanza era gelata, e i piedi del giovane sporgevano dal lenzuolo. «Ero ossessionata dall’idea che tu potessi avere freddo, così senza calze».6 Il figlio, morto nel mondo reale, continua a vivere nel ricordo della madre. Un pensiero, assurdo nella realtà, può avere una logica nella memoria di chi gli sopravvive. Un uomo senza calze ha freddo ai piedi. Fenomeni del genere sono frequenti nel caso clinico dell’arto fantasma, quando il paziente percepisce realmente un arto amputato. Le allucinazioni associate al lutto non sono rare nel ricordo dei parenti sopravvissuti. Le vedove si rivolgono ancora al marito morto, apparecchiano la tavola per lui, di notte sentono il suo respiro nel letto. È in questi momenti che il vuoto della perdita chiede di essere colmato con una rappresentazione sovrannaturale, protettrice e rassicurante. L’appello a Dio si impone come un bisogno urgente, e la cultura di chi è sopravvissuto propone luoghi di preghiera, formule, scenari, profumi, canti, abiti, gesti e raduni che danno forma a questo appello, colmando la dolorosa assenza.

La religiosità individuale deve articolarsi su quella culturale per essere efficace. Dopo un’angoscia metafisica, la pratica religiosa serve a restituire la stima di sé, aiuta a gestire l’evento, offre certezze utili a riorganizzare il comportamento e attribuire un senso al destino che ci opprime.7

In generale, la religione definisce l’ambiente che ci circonda. Basta rispettarne le regole per sentirsi integrati e accettati da chi amiamo. Dobbiamo partecipare ai riti per essere visti. I raduni dei credenti offrono l’occasione per esprimere la propria fede, ottenere l’approvazione dagli altri e, talvolta, anche la loro ammirazione. Ci permettono di rafforzare la nostra autostima, temporaneamente minata dalla sventura che ci ha colpito: «Erravo come un’anima in pena, ma dopo essere stata alla moschea mi sono sentita sostenuta dalle preghiere, dai rituali di purificazione e dalla mia ascesa spirituale». Questo intimo sentimento religioso, sostenuto dalla religiosità dell’ambiente circostante, è diverso dalla sensazione metafisica dell’esistenza di Dio. Sono due emozioni distinte: è possibile credere in Dio senza recarsi in chiesa, e viceversa. Quando la religiosità intima si armonizza con la struttura religiosa della cultura di appartenenza, proviamo un forte sentimento di coesione, rassicurante e socializzante. Diventiamo soggetti morali valorizzati dal gruppo, anche se prima della cerimonia «erravamo come un’anima in pena». Quando le due religiosità, intima e culturale, si armonizzano, la valorizzazione di sé è fortemente sostenuta.8

Ognuno ha la propria strategia di socializzazione. In genere si tendono ad accettare i valori collettivi, ma c’è chi si individua differenziandosene, dichiarandosi credente in un contesto in cui la religione non è un valore prioritario o, al contrario, proclamandosi ateo in una cultura in cui il gruppo è strutturato dal conformismo religioso. Questa strategia, in cui l’opposizione diventa una forma di autoaffermazione, caratterizza il periodo adolescenziale, ma segnala anche la difficoltà di raggiungere l’autonomia mentale nei giovani che faticano ad affermarsi se non per opposizione.

Giunti all’età in cui si comprende l’idea della morte (fra i sei e gli otto anni), quando la maturazione cerebrale rende possibile la rappresentazione del tempo, scopriamo che la nostra esistenza avrà irrimediabilmente fine. Qualcuno si rassegna, altri si indignano. Questi ultimi vivono come scandaloso un fenomeno naturale con cui le piante, gli animali, gli esseri umani e persino i pianeti finiscono ineluttabilmente per entrare in contatto. In termini metafisici potremmo dire: «So che la morte esiste, ma siccome ricordo di essere esistito per tutta la vita, mi rappresento la mia vita dopo la morte». Se credo in una vita dopo la morte, devo gestire la mia vita prima di morire in modo da conoscere un’eternità confortante. La mia esistenza non sarà più disordinata; si organizzerà intorno a questo progetto: «Io so ciò che bisogna fare… per essere una persona giusta basta ubbidire alle leggi divine e servire il gruppo. Ci sono precetti comportamentali e rituali che placano le mie angosce, cancellano la mia erranza intellettuale e mi offrono certezze. Obbedendo alle leggi divine sento di poter governare la mia vita, ma anche governare il Dio che ci governa. Basta obbedirgli, digiunare ogni tanto e, quando è necessario, offrirgli qualche sacrificio. Il mondo è chiaro, io so come fare e dove andare. La mia vita ha un senso, io la controllo e, obbedendo, mi sento libero».