15. L’enunciato della legge crea connessioni nel cervello. I tabù alimentari creano solidarietà nel gruppo
Si dice spesso che i perversi provino piacere nel trasgredire la legge, come Don Giovanni che gode a violare i codici sociali o coniugali. Ma dove sono le leggi quando si vive in un mondo senza l’Altro? Conta solo il piacere, si soddisfa la pulsione e niente più.
Lo psicopatico si diverte a trasgredire la legge. Rompendo le regole si sente forte, sprezzante nei confronti di chi le rispetta. Gode della profanazione, come quei giovani che attaccano e distruggono i simboli dell’ordine come la polizia, i vigili del fuoco, la scuola, le paline dell’autobus. Resi vulnerabili da una precoce carenza educativa, non hanno imparato a controllare le emozioni. Erotizzano il rischio di farsi prendere, si eccitano all’idea di essere catturati. La trasgressione è infatti un gioco di libertà: «Io non sono sottomesso come gli altri».
I giocatori amano il rischio di perdere. Non è il guadagno a interessarli, perché uscendo dalla sala giochi regalano la vincita al primo che passa, o la spendono senza pensarci. A eccitarli è la possibilità di perdere, come i giovani che si gettano dai ponti con un elastico legato alla caviglia. Dopo il panico del salto, sconfitta la paura della morte, rimangono come inebriati per giorni, drogati dagli ormoni dello stress e dall’aumento di secrezione delle endorfine. Per tutta la vita si ricorderanno con orgoglio di quell’istante di panico superato.
È forse in virtù di questi benefici psicoaffettivi che il Dio punitore svolge un ruolo centrale all’interno delle religioni? Durante l’esodo dall’Egitto, il Dio degli ebrei – terribilmente in collera – punì gli egizi inviando loro le Dieci Piaghe con l’invasione delle rane, degli sciami di insetti, la morte dei primogeniti maschi e, infine, l’annegamento dei soldati nel Mar Rosso… Salvando il popolo ebraico, l’ira vendicatrice di Dio chiese in cambio una rigida obbedienza, punendo gli ingrati che non si attenevano alla sua legge.
Il Dio dei cristiani si preoccupa dei peccati, della mancata obbedienza della legge divina. Oggetto della trasgressione è spesso un piacere: c’è il peccato della carne, il peccato di gola che durante l’Inquisizione ha portato a odiare la musica e a non tollerare il riso. I piaceri del pensiero sono stati osteggiati come peccati dello spirito. Mordere la mela, addentare il frutto dell’albero della conoscenza era una colpa grave, che meritava la cacciata dell’uomo dal paradiso. Erano invece perdonati i peccati di gioventù; i peccati veniali meritavano solo una leggera reprimenda. Il vantaggio di un bilancio che gerarchizza l’universo della colpa è che la punizione offre l’occasione di espiare, di riscattare l’infrazione commessa. Il castigo è fonte di sollievo.
In ambito protestante si guarda più alla moralità delle decisioni. È giusto comprare un’indulgenza per evitare la punizione? È corretto abbandonare le popolazioni primitive alla loro fede nei falsi dei? Possiamo disinteressarci delle persecuzioni degli ebrei? È ovvio che in una visione del genere il peccato di gola diventa meno importante, una semplice debolezza in un contesto che valorizza una parca alimentazione.
Si potrebbe quasi parlare di razionalizzazione affettiva, che consisterebbe nel dare forma verbale a un sentimento. «Se sto bene è perché ho rispettato i precetti divini. Le mie azioni sono state giudicate buone da un’entità sovrannaturale, che mi ha ricompensato. Se invece sto male, è perché ho disubbidito». Quando si redige un bilancio delle colpe, una grande infelicità diventa il segno di una grande colpa: «I tuoi genitori devono avere commesso un crimine molto grave per essere puniti in questo modo ad Auschwitz». Una lieve malinconia, invece, è indice di piccole manchevolezze: «Cos’ho fatto al buon Dio per avere dei bambini che amo e che commettono tante sciocchezze?»
Quando lo sviluppo del sistema nervoso ci dà accesso alla teoria della mente, diventiamo capaci di attribuire un’intenzionalità a un ente invisibile (un concetto astratto che viene considerato un essere reale). Non ci pare assurdo, né fantasioso, prendere emotivamente «per buona» la possibilità che un ente invisibile vegli su di noi, ci ricompensi o ci punisca secondo un bilancio morale delle nostre azioni.
Il tabù diventa così l’organo della coesistenza. Nell’istante in cui prendiamo coscienza dell’esistenza di un Altro, non possiamo più permetterci ogni cosa. Il sesso è il dominio in cui la pulsione va più fortemente regolata dalle pressioni culturali. Il fatto di non sottometterci ai nostri istinti è la prova definitiva che rifuggiamo la bestialità per entrare nel regno dell’umano. Il divieto dei rapporti carnali fra consanguinei diventa il segno distintivo dell’uomo civilizzato. Un atto sessuale biologicamente possibile diventa insopportabile nel momento in cui è rappresentato come un grave crimine. L’adesione a una rappresentazione verbale inibisce la pulsione biologica.
Ora è tutto chiaro! Peccato però che i pensieri più chiari siano anche i più ingannevoli. Gli animali non proibiscono l’incesto, ma quando sono allevati insieme stabiliscono un attaccamento reciproco che inibisce l’atto sessuale da noi definito «incesto».1 Si dà il caso che, ancor prima del divieto dell’incesto, viga l’obbligo a evitare alcuni cibi biologicamente consentiti.2 Questa organizzazione dell’universo commestibile è probabilmente dovuta alla necessità di ridurre le informazioni percepite per dare una forma al mondo circostante. Se dovessimo percepire tutto regnerebbe la confusione, avremmo un bombardamento di informazioni disordinate. Appena il sistema nervoso seleziona i dati, e le parole illuminano alcuni segmenti della realtà, tutto ciò che non viene detto resta in ombra. È solo quando il mondo prende forma che l’essere vivente riesce ad adattarvisi. Ecco perché una tigre «considera» un uomo che cammina come una preda commestibile mentre lo stesso uomo, se è in bicicletta, perde la sua forma commestibile e non stimola più l’appetito della tigre.
Per noi umani, che viviamo essenzialmente in un mondo di rappresentazioni, le parole hanno un grande potere illuminante. Vediamo meglio ciò che viene detto, e la connotazione affettiva delle parole suscita in noi emozioni profonde. Potete verificarlo invitando a cena un’amica e cucinando per lei un buon piatto di carne con salsa, che lei assaporerà con gusto. Poi, alla fine del pasto, confessatele: «La carne che hai appena mangiato è quella del tuo cagnolino». Lei eromperà in un grido di orrore e di certo vi odierà per averle fatto trasgredire un tabù alimentare: non si mangia il proprio adorato cane con cui si convive da vent’anni!
Tutte le religioni seguono precise regole di condotta alimentare. Nelle sepolture paleolitiche già a impronta religiosa, i defunti erano sotterrati con vestiti, armi e cibi che consumavano abitualmente, affinché potessero nutrirsi nell’aldilà. In tutte le religioni è proibito il consumo di alcuni alimenti biologicamente commestibili, ma la cui ingestione è insopportabile per via della rappresentazione vigente. Il pesce, agli inizi del cristianesimo simbolo della pesca miracolosa, ha strutturato i pasti del venerdì fino al XX secolo. Mangiare pesce permetteva di evocare il Cristo. I musulmani provano disgusto all’idea di ingerire carne di maiale mentre, fra gli ebrei, il semplice fatto di rispettare le regole della cucina kasher – il mantenimento della separazione fra latte e sangue e particolari cure nel lavaggio di posate e vasellame – organizza la vita religiosa quotidiana all’interno della casa.
I tabù che strutturano la vita della collettività suscitano emozioni unificanti per il gruppo. I membri provano la sensazione di vivere tutti nello stesso mondo, un mondo fraterno e familiare che infonde sicurezza. I divieti vengono imposti sotto forma di semplici enunciati. Nella realtà gli alimenti tabù si potrebbero tranquillamente mangiare. Se un musulmano o un ebreo ingoia un pezzo di carne di maiale credendo che sia selvaggina, può trovarlo gustoso, ma basta dirgli «stai mangiando carne di maiale» per provocare una repulsione.
La semplice rappresentazione verbale induce un’autentica sensazione fisica di disgusto, perché vengono coinvolti gli stessi circuiti cerebrali di quando ci si vede offrire una sostanza marcia o puzzolente. In quest’ultimo caso il disgusto è una reazione fisiologica di adattamento a una sostanza potenzialmente pericolosa: una reazione di sopravvivenza, che si esprime con una precisa mimica facciale. Le tecniche di neuroimaging funzionale permettono di constatare che il correlato neurologico del disgusto fa virare al colore rosso (segno di un intenso consumo energetico) l’insula anteriore, la corteccia cingolata anteriore, la corteccia temporale inferiore, i gangli della base, la corteccia orbitofrontale laterale e naturalmente l’amigdala, ovvero il centro di elaborazione neurologica delle emozioni intense.3
È sufficiente trasmettere un filmato che mostra il comportamento disgustoso di un uomo che mangia sbavandosi addosso e maltrattando la sua dolce vicina di tavola, per suscitare in tutti le stesse mimiche facciali, attivare gli stessi circuiti cerebrali e provocare una generale sensazione fisica di repulsione: «Quel tipo è rivoltante» dice lo spettatore. Si tratta di un disgusto mentale provocato da immagini che fanno nascere nell’osservatore una vera sensazione fisica di ripugnanza. Ecco spiegato perché un tabù alimentare messo in luce dalla verbalità di una cultura – «è un crimine mangiare carne di maiale» – suscita un’autentica sensazione di disgusto in chi ne ha interiorizzato l’enunciato verbale.
Il disprezzo è come un disgusto, scatenato, però, da un’affermazione morale. Si narra di un uomo che, dopo aver fatto credere a tutti di amare una divinità, la imbroglia: Giuda Iscariota, per guadagnare qualche soldo, non esita a dare un bacio a Gesù per indicarlo agli zeloti e consegnarlo alle torture che lo attendono. Per oltre mille anni questo racconto ha suscitato l’indignazione di chi venerava il figlio di Dio, l’innocente Salvatore. Oggi lo stesso scenario, riletto alla luce delle moderne interpretazioni, non provoca più lo stesso odio: anche Pietro ha tradito, ma ha chiesto perdono, mentre Giuda, ritenendosi indegno dell’amore di Cristo, ha preferito suicidarsi. Oggi questo racconto viene letto diversamente e suscita un’emozione diversa: non attivando quindi più, probabilmente, le stesse aree cerebrali, non provoca la stessa repulsione. Al pensiero di Giuda che tradisce il Signore per guadagnare trenta monete d’argento, le mimiche facciali di coloro che amano Gesù e credono in questo racconto esprimeranno probabilmente un furente disprezzo. Possiamo figurarci le loro immagini cerebrali diventare rosse di rabbia in corrispondenza della corteccia prefrontale sinistra e della giunzione temporoparietale, così come si vedeva nell’immagine cerebrale di chi assisteva a un filmato sul tema del tradimento.4 Non si tratta più della reazione di sopravvivenza e di adattamento a una sostanza pericolosa, ma della reazione di un gruppo cementato dalla condivisione dello stesso sentimento d’indignazione. Il punto di partenza dell’emozione non è più una sostanza nauseante, ma la rappresentazione di immagini e parole ripugnanti, una credenza insopportabile che serve da collante per tutto il gruppo, ne rinforza la coesione e permette di manipolarlo come un sol uomo.
Quando vediamo una persona vomitare, i nostri neuroni reagiscono in modo speculare, allertando i circuiti del disgusto e provocando un’autentica sensazione fisica di nausea.5 Le zone cerebrali che si illuminano – quelle predisposte al rigetto degli alimenti – sono le stesse che suscitano repulsione quando proviamo una sensazione di disprezzo. È sufficiente che una persona vicino a noi mostri disprezzo per uno sconosciuto, che si attiva in noi un sentimento analogo. Noi disprezziamo, odiamo, gli individui o i popoli che i nostri cari odiano o disprezzano, partecipando così al contagio delle idee.6
A provocare la reazione di adattamento non è più una sostanza ripugnante, ma una rappresentazione astratta. I contagi mentali si verificano anche in risposta a rappresentazioni irreali. Il beneficio adattativo è enorme, perché ci pone nelle condizioni di provare le stesse emozioni delle persone che amiamo, di abitare il loro stesso mondo mentale e di avvertire un delizioso senso di appartenenza, che ci conforta e ci fortifica dandoci un senso di familiarità e fratellanza.
L’altra faccia della medaglia è che questo atteggiamento non induce a scoprire il mondo mentale di altri che hanno credenze o storie diverse dalle nostre, fuori dai nostri schemi e dalle opinioni comunemente ammesse. Proviamo, nel profondo di noi stessi, un rifiuto per il diverso: disprezziamo i miscredenti che non professano la nostra stessa fede. Siamo buoni con i nostri familiari, con chi è uguale a noi, ma restiamo perversi con chi ci sembra diverso; viviamo in un mondo senza l’Altro, come recita la definizione moderna della perversione. Se i nostri amici sono i simboli del nostro mondo, gli Altri ne diventano i diavoli.