19. Incertezze culturali ed estremismo religioso
Ogni volta che si attraversa un periodo di incertezza culturale, si riscontra un aumento delle forme radicali di religiosità.1 Quando l’ambiente perde coerenza e i valori ribollono in ogni direzione, gli individui sono disorientati: il mondo diventa meno chiaro, e i codici di comportamento talmente incerti che non si sa più a cosa richiamarsi. «Lavorare o andare in pensione, scegliere un sesso oppure un altro, mettere su famiglia o restare single, una scelta vale l’altra». Il venir meno di ogni scala di valori crea un’erranza psicologica. In un simile contesto culturale, il pensatore che porta luce e indica il cammino assume un effetto rassicurante. Con lui si torna a respirare, si ridà senso ai propri sforzi, non si vacilla più, si ridiventa costruttivi. Il bisogno di rassicurazione e di visione chiara spiega l’attuale fenomeno del ritorno religioso e integralista. I genitori democratici, rispettando la libertà dei figli, decidono di non interferire nelle loro scelte religiose, ma così facendo generano incertezza. Ed è nella nebbia che si diventa avidi di chiarezza. Con grande sorpresa dei loro cari, questi giovani si convertono spesso a una religione autoritaria in cui ritrovano le radici religiose sepolte nella storia familiare. Oggi, spesso, sono i bambini a insegnare ai genitori i rituali della tradizione ebraica, quasi cancellati dalle generazioni. I genitori tolleranti e ugualitari, che non hanno voluto imporre un credo rigido alla prole, si sorprendono e si rattristano nel vedere i figli convertiti al rigore islamico. Il processo democratico, che ha concesso ai bambini libertà di scelta, vira verso una religione totalitaria: c’è un solo Dio, una sola verità, un solo rituale, e chiunque se ne discosti è un miscredente che travisa le certezze di cui abbiamo bisogno. Il ritorno dell’angoscia favorita dal dubbio spiega perché i dissidenti siano più temuti dei nemici. Con gli oppositori la situazione è brutale ma chiara; quando invece le persone vicine a noi si allontanano dalla dottrina, indeboliscono l’edificio mentale che ci pacificava. Ogni divergenza è vissuta come un’aggressione, ogni altra religione diventa il nemico, o una falsa credenza.2 Per questo motivo i neofiti sono persone fragili: appena si sentono meglio, usciti dalle brume dell’incertezza, il dubbio rischia di farli ricadere. Per loro l’azione violenta è una legittima difesa.3 I giornalisti e gli artisti, che si sforzano di pensare con la propria testa, si ritrovano a essere considerati dissidenti. In una dittatura religiosa diventa giusto incarcerarli, perché minano la stabilità del gruppo. Anche uno scienziato può essere ritenuto un dissidente, perché propone un’innovazione. E incontrerà anche lui le aggressioni di chi ha fatto carriera contando sulle certezze che gli hanno permesso di ottenere il diploma e il posto di lavoro.
I genitori democratici sono fieri dello spirito tollerante con cui hanno lasciato ogni libertà ai figli adolescenti, accettandone le relazioni sessuali sotto il tetto di casa. I religiosi, all’opposto, sono fieri del controllo delle loro pulsioni.4 I genitori, quando hanno lottato contro l’eccessivo autoritarismo vissuto da bambini, sono fieri della propria tolleranza: «Non sono un oppressore, mio figlio sarà libero grazie alla mia mentalità aperta», dicono senza rendersi conto che la tolleranza genitoriale, abbattendo i muri, disorienta i giovani.
Ma i genitori non sono i soli a educare i figli e, in una cultura senza inquadramento, i giovani disorientati seguono chi li illumina. Contrariamente ai genitori che proclamavano «è vietato vietare», loro sono fieri di inibire le proprie pulsioni. Si possono perciò vedere gentili famiglie cristiane o musulmane in cui i genitori, dopo avere fatto bene il loro lavoro di genitori, si imbattono nella triste esperienza di vedere i figli coinvolti nell’estremismo religioso. L’attaccamento si è stabilito bene, ma gli adolescenti che hanno bisogno di ruoli e di epopee, nell’età in cui è giusto lanciarsi nell’avventura sessuale e sociale, si lasciano abbindolare da guru che sfruttano il loro desiderio di situazioni intense. Al contrario, quando i genitori troppo autoritari schiacciano lo sviluppo dei figli, questi tendono ad aderire a un gruppo tollerante. Serve tutto l’aiuto possibile per allevare un figlio capace di scegliere ed evitare gli estremi.
Il semplice fatto di essere religiosi tranquillizza la coscienza, perché diventa sufficiente rispettare le regole. Quando Dio ci indica la via, il senso dell’esistenza diventa meritare un’altra vita dopo la morte. In caso di sventura, si può contare sulla solidarietà dei correligionari. Questi vantaggi dipendono dal contesto. Quando si muore di sete, un bicchiere d’acqua fresca diventa un evento straordinario. Ma quando si è bevuto molto e fa freddo, il bicchiere d’acqua suscita repulsione. Lo stesso vale per il bisogno di Dio: «Le persone che hanno una vita facile sono meno religiose, e la religiosità non apporta loro nessun beneficio in termini di soddisfazione di sé, di autostima e di appartenenza».5
La minaccia dell’esclusione e il sentimento di solitudine attivano una ricerca di attaccamento che la religiosità può curare. Una società rassicurante e uno Stato protettivo quindi, allontanando le tensioni indeboliscono i legami sociali e il bisogno di religione. La Danimarca è un esempio di tale processo, dove il successo sociale rende inutile la religione. In quel paese felice dove regna l’ateismo, ognuno è attento all’altro. Centinaia di biciclette vengono parcheggiate senza lucchetto contro i muri, in attesa del ritorno del proprietario. I genitori si coordinano intorno ai figli e gli insegnanti parlano agli allievi senza alzare la voce. In un contesto simile, ogni inquadramento religioso sarebbe vissuto come una costrizione inutile, e un Dio punitore farebbe l’effetto di un assurdo tiranno.
In un ambiente difficile, minacciato dal freddo, dalla fame o dalla paura, la religione assume un effetto rassicurante e solidarizzante. Dio veglia su di noi, ci indica la strada e ci punisce quando sbagliamo. Il Dio punitore all’epoca in cui le dure condizioni sociali esaltavano gli uomini e ostacolavano le donne era l’immagine del padre-padrone. Quando i minatori lavoravano sottoterra per quindici ore al giorno, sei giorni su sette, le loro donne li portavano in palma di mano. Gli uomini si calavano in tunnel surriscaldati così stretti che dovevano staccare con i picconi blocchi di carbone che ricadevano sulle loro schiene e a volte sulle loro teste. Mi ricordo bene questi uomini che, scesi in miniera per la prima volta all’età di dodici anni, morivano di silicosi prima dei cinquanta, respirando a piccole boccate per non asfissiare. Consegnavano poi l’intero stipendio alla moglie che, in cambio, si occupava della casa, dei bambini e del loro benessere. Era una forma di parità? Oggi un simile patto coniugale avrebbe un altro significato. Nella cultura occidentale gli uomini non lavorano più in condizioni così estreme, e le donne sanno svolgere tutti i nuovi mestieri altrettanto bene degli uomini. Tornare a occuparsi della casa sarebbe per loro un’insopportabile ingiustizia.
Ho visto recentemente, nella Repubblica Democratica del Congo, donne in abiti multicolore sgobbare piegate dal dolore. Incapaci di attraversare gli stretti cunicoli delle miniere di coltan, queste ragazze sognano di sposarsi, e occuparsi di marito e figli. In un tale contesto sociale, occuparsi della casa è una liberazione. In Mongolia la coppia è oggi un’unione affettiva, sessuale, sociale ed educativa. «Senza mia moglie non sono niente» afferma il ricco allevatore che consacra i propri sforzi alla famiglia. «Mio marito è un tesoro, grazie a lui non ci manca nulla» riconosce la moglie.
Nella Germania del XVIII secolo, frammentata in decine di principati,6 le condizioni di vita erano terribili: suolo ghiacciato, case gelide, donne e bambini decimati dalla morte, miseria, epidemie, guerre croniche… In un simile contesto di sofferenza quotidiana, l’unica bellezza era la chiesa. La domenica gli uomini vestiti a festa ascoltavano i cori dei bambini, e le donne indossavano cappelli e abiti eleganti. Il curato faceva il suo sermone dal pulpito, elevando l’anima e dando un senso alla sofferenza. Quando la realtà è dolorosa, si fantastica di un altrove meraviglioso, un paradisiaco aldilà. All’epoca i tedeschi emigravano in Austria e nei paesi tropicali dell’America del Sud. Le donne, infelici, vedevano i mariti come eroi, ne esaltavano il coraggio, la forza e persino la violenza, che permetteva loro di affrontare quel crudele stile di vita. Gli uomini, consacrati al lavoro forzato, rientravano a casa stanchi e trovavano le mogli a nutrirli, a volte anche a lavarli. Se si ammalavano, venivano a mancare i soldi per comprare da mangiare e, quarantotto ore dopo, la famiglia era alla fame. Gli uomini soffrivano con fierezza, enunciavano la Legge e non avevano la possibilità di intrecciare relazioni affettive con i figli. Erano temuti e ammirati. In cielo, un super padre faceva lo stesso lavoro. Si amava il Dio protettore, e si temeva il Dio punitore che giudicava le azioni degli uomini durante il loro passaggio sulla terra, decidendo nel giudizio finale quale vita meritavano dopo la morte.
Le interdizioni morali vertono sui piaceri che rammolliscono gli individui. Bisogna evitare alcuni alimenti, non mangiare certe carni, digiunare un giorno alla settimana, o al mese a seconda della religione. Occorre rinunciare ai godimenti del sesso, alla contemplazione del corpo di una donna o al piacere di ascoltare musica. Un tempo la sola avventura ammessa era la toga del prete o la spada del soldato. Gli altri… che si sposino, diceva San Paolo. A quel punto ci si sentiva sollevati e meno in colpa, in una cultura in cui il piacere metteva a repentaglio la combattività. Sacrificare i piaceri della vita assume un significato trascendentale se lo si fa in obbedienza a un Dio. Ci si sente vicini a Lui rifiutando il vino o la carne di maiale, perché vi si rinuncia per Lui. I piccoli sacrifici hanno l’effetto di cementare il gruppo: un ebreo può invitare un non ebreo alla propria tavola, ma non potrà mangiare alla tavola di un goy. Se accetta l’invito per amicizia, potrà sedersi ma senza mangiare. Mentre si priverà del piacere di condividere un pasto, penserà a Dio e Gli offrirà la propria astinenza. La rinuncia ai piaceri della tavola diventerà per lui un’occasione di ascesa spirituale.
Tutte le religioni hanno scoperto questa procedura. Per far piovere bisogna sacrificare un pollo o accendere dei ceri. Per impedire che il sole cada sulla Terra bisogna immolare un neonato. Per intervenire presso il Signore che ha inviato qualche malattia a un nostro caro, bisogna fare un’offerta a un’opera che cura questi malati. Anche i politeisti offrono sacrifici agli dei, ma si tratta di divinità meno metafisiche, forse più naturali e dunque più accessibili, che si accoppiano con gli esseri umani e litigano fra loro.
La religione cattolica utilizza spesso l’effetto riparatore della penitenza. Dopo l’assassinio di padre Hamel a Saint-Etienne-du-Rouvray, nel 2016, la chiesa era insudiciata del sangue e dei resti di oggetti e corpi umani. Ogni fedele che entrava in quel luogo sacro si sentiva oppresso dall’evocazione del crimine. L’utilizzo empio della chiesa ne aveva profanato la purezza. Per riparare al male fatto è stato necessario compiere un rito penitenziale, innalzare al cielo fiori e oggetti di culto e aspergere le pareti con l’acqua benedetta per lavare via il sangue versato. Solo dopo il cerimoniale, i fiori, gli oggetti, il pane e il vino hanno potuto ritrovare ciascuno il proprio posto. Tornata la purezza, la chiesa ha potuto accogliere una messa durante la quale i fedeli hanno perdonato i profanatori. Lo scenario penitenziale, con la sua cerimonia riparatoria, ha scacciato l’orrore, e il luogo sacro è diventato di nuovo frequentabile. Questa strategia spirituale funziona perché mette in scena ciò che, nel profondo, speriamo per noi stessi.
Una visione del mondo binaria offre gli strumenti per dominare l’angoscia. Quando si pensa che tutto ciò che non è grande è piccolo, tutto ciò che non è forte è debole, e tutto ciò che non è uomo è donna, si ha a disposizione un’arma per attaccare i potenziali nemici. «Se mi comporto bene, sarò ricompensato; quindi se mi comporto male sarò punito». Bisogna prendere un po’ le distanze per capire che la coppia di opposti bene-male è fatta di un insieme di inibizioni emotive: «Non posso permettermi tutto», «Questo è bene, quello è male». Chi segue i precetti che lo porteranno in paradiso ha meno paura della morte, perché sa che, se ubbidisce, lo attenderà una vita migliore. Ma il pensiero binario può anche indurre a credere che chi ha fatto il male si reincarnerà in una scimmia, o brucerà tra le fiamme eterne. In queso caso la trasgressione acuisce il timore della morte. Il renitente sarebbe potuto andare in paradiso ma, invece, ha preferito il piacere immediato ed è giusto che paghi. Gli sarebbe bastato rinunciare a un piacere momentaneo, ma non ha voluto fare un piccolo sacrificio che gli avrebbe permesso di vivere meglio più tardi, nell’eternità. Peggio per lui, ha fatto la sua scelta.
La reazione binaria spiega perché alcuni individui, torturati dal dolore di vivere, odiano tutto ciò che potrebbe portare al godimento: lasciarsi andare costerebbe loro la pena eterna. Quando un uomo gode eroticamente della vista di una donna, se ha acquisito uno stile di attaccamento sicuro penserà: «La semplice presenza di una donna è un momento di felicità». Ma se il suo stile di attaccamento è insicuro – è il caso di un uomo su tre –7 emetterà un giudizio del tipo: «Questa donna scatena in me un desiderio angosciante. Se dovessi malauguratamente lasciarmi andare all’immaginazione sessuale, soffrirei le pene dell’inferno. Ogni donna che mostra il corpo è un pericolo. Che diritto ha costei di aggredirmi? Devo metterle un velo per sentirmi in pace».
Le donne reagiscono allo stesso modo. Le più sicure pensano: «Quest’uomo ha sorriso guardandomi. Amo questa complicità, apprezzo questo dolce istante di gioia». Una donna insicura invece dirà: «Gli uomini pensano solo a quello. Con che diritto manifestano un desiderio sessuale mentre io non posso impedirmi di avere dei seni?»
Per tutte queste ragioni, un credente rigido accetta di morire per una verità universale ed eterna. Quando la morte è un male relativo, la sessualità può essere trascesa: vale la pena combatterla, basta un piccolo sacrificio. Chi dubita, rifiuta di morire per un valore relativo: «Ho dei momenti di incertezza, mi è capitato di cambiare opinione incontrando altre persone, leggendo dei libri, scoprendo culture con valori diversi dai miei. Ho apprezzato questi modi alternativi di vivere la vita umana, perché volete che muoia per una verità che è magari destinata a cambiare?»
La fede in Dio contribuisce al controllo delle emozioni. La risonanza magnetica funzionale mostra chiaramente come la corteccia cingolata anteriore (ACC) – che produce segnali di sconforto in caso di dolore fisico o di conflitti relazionali – diminuisca la propria funzione di allerta nel caso di soggetti che si rapportano a Dio attraverso rituali religiosi.8 Una rappresentazione protettiva, quella divina, che pacifica e dà senso, finisce per attenuare la percezione della sofferenza.
È probabilmente attraverso questa strategia neurologica e mentale, che i comportamenti di espiazione e redenzione mitigano l’angoscia e il senso di colpa. Quando un credente soffre della rappresentazione che si fa delle proprie colpe o dei peccati che ha commesso, gli basterà seguire un comportamento purificante, di autopunizione o di altruismo, per placare la propria sofferenza mentale.
È lo stesso nella vita quotidiana, quando i piccoli sacrifici aiutano a gestire le emozioni. Chi riesce a dilazionare un piacere immediato si sente padrone dei propri istinti. Quando si è forti e calmi si socializza facilmente, ma quando si è sopraffatti dall’intensità delle proprie pulsioni, o quando la cultura esaspera la tendenza a sentirsi in colpa, i sacrifici possono diventare esagerati, come nelle sanguinanti autoflagellazioni o nelle marce a quattro zampe della Sacra Muerte in Messico dove i penitenti, spesso ex narcotrafficanti, si automutilano per mitigare le proprie colpe.9 Che il sentimento del peccato sia dovuto a un atto reale, a una rappresentazione immaginaria o a una religione repressiva, in ogni caso l’autopunizione assume un significato etico e pacificante.