28. All’alba della spiritualità
Alle origini dell’umanità, gli esseri umani si spostavano molto. Due milioni di anni fa Homo erectus lasciò l’Africa orientale per migrare verso l’Europa e l’Asia e fare il giro del Mediterraneo, mentre 100 000 anni or sono il signore e la signora Sapiens, nostri arci-antenati, sono partiti a piedi dalla regione africana per installarsi in Europa e in Medio Oriente, dove si sono imbattuti nella famiglia Neandertal (fra i 50 000 e i 30 000 anni fa). I due gruppi hanno stabilito rapporti commerciali, bellici e sessuali di cui noi siamo il risultato: i nostri geni sono infatti fra l’1 e il 4 per cento neandertaliani.
I movimenti di popolazione erano dovuti, come oggi, a catastrofi naturali, eruzioni vulcaniche o ere glaciali. In quel periodo la terra era poco popolata,1 perché 10 000 anni fa un calo demografico portò a una riduzione di 15-20 000 anime.2 Allora c’era posto per tutti, il che non impediva che fossimo ancora minacciati senza tregua da catastrofi naturali e da altri gruppi di uomini che non ci somigliavano, non parlavano la nostra stessa lingua e ci contendevano gli spazi protetti, le piante e la selvaggina di cui avevamo bisogno per sopravvivere. Cacciavamo e uccidevamo per non soccombere. In quel contesto la lotta contro gli elementi naturali, e contro gli uomini che ci erano estranei, diventava una lotta per la sopravvivenza.
Si andava a caccia per socializzare, molto più che per nutrirsi. Dovevamo parlare per spiegare la strategia di caccia, e per coordinare il gruppo intorno alla divisione dei compiti (c’era chi individuava la selvaggina, chi la uccideva e chi spartiva la carne rispettando la gerarchia del gruppo). Il linguaggio dava forza ed efficienza, e l’invenzione delle armi diventò uno strumento di socializzazione. Da quando i nostri antenati hanno inventato i proiettili, l’arco, le frecce e hanno cominciato a fabbricare trappole, i membri del gruppo si sono sentiti più forti e sicuri. Come i nostri bambini quando si confezionano una spada con un pezzo di legno, e dopo avere inventato quell’arma immaginaria si sentono rassicurati.
L’arte si legò rapidamente alla morte. Oggetti appuntiti, armi, punte d’osso, sepolture e pitture decoravano le pareti e raccontavano storie di vita e di morte. Si disponeva il corpo del defunto secondo un codice posturale che significava: «Le ginocchia rivolte verso levante designano un uomo, verso il tramonto una donna». Si dipingevano le pietre, si spargevano petali di fiori, si suonava uno strumento musicale soffiando dentro le conchiglie, sfregando rami o scavando piccoli fori in un osso per ottenere un flauto. Questa paleoliturgia era bella e commovente. La famiglia di Cro-Magnon certamente piangeva, e levava lo spirito al cielo pensando al defunto, alla sua vita, alle sue opere e alla sua morte. Grazie all’allestimento di questi scenari il defunto veniva circondato da oggetti d’arte, di morte e di bellezza, mentre amici e parenti cantavano e offrivano alimenti. I testimoni di quelle rappresentazioni assistevano alla commedia della vita e della morte.
L’arte religiosa rende visibile la morte invisibile. Il disegno di un morto infonde, nell’anima dei partecipanti a un rito funerario, un sentimento di trascendenza. Ma, in un mondo di rappresentazioni simboliche, l’uomo procede diversamente dalla donna. Il maschio è avvantaggiato dalla forza e dall’attitudine alla violenza. Le femmine, più tranquille e appesantite dalle continue gravidanze, sembrano meno inclini alla violenza fisica ma possiedono l’incredibile dono – al limite del magico – di mettere al mondo esseri viventi. Quando un neonato le preme nel ventre, quando il latte le esce dai capezzoli, la donna somiglia a una divinità animale. È capace di dare la vita, ci fa sentire più vicini a Dio, e nutre con i suoi seni bambini e animali. «È capace di partorire, di domare i felini»,3 come mostrano alcune sculture metafisiche dell’Anatolia del VII secolo (Catal Hoyük), e come si può vedere ancora oggi in Nuova Guinea, quando le donne masticano alimenti per piccoli animali oppure offrono il seno ai cuccioli.4
Nel paleolitico, dall’istante in cui comprende di avere la sua forza nell’artificio (quello degli utensili e della parola), l’uomo si sottrae alla natura e la domina. L’artificio modifica radicalmente la rappresentazione che l’uomo ha di se stesso. Egli non si vede più come un debole animale umano perseguitato e divorato dalle tigri con i denti a sciabola, incapace di correre veloce, di nuotare sott’acqua o volare nel cielo. Appena accede al mondo virtuale, l’uomo diventa padrone della natura. Fabbricando utensili e inventando parole, dà vita a un universo mentale che lo mette in contatto con forze invisibli. Cesellando armi, dona la morte per poter vivere. Costruendo tombe, mette in scena un mondo metafisico, su cui regna una forza che lui chiama «anima».5
L’uomo abita ormai un mondo virtuale in cui ammira gli animali e li teme, in cui desidera le donne e ne ha paura perché il loro corpo ha il potere di dare la vita. In questo mondo di rappresentazioni, gli animali non sono più soltanto fonte di cibo: possiedono una forza mentale di cui l’uomo vuole appropriarsi. I rituali di uccisione continuano ai nostri giorni sotto forma di caccia alla volpe e corse dei tori, dove un gracile individuo, armato di spada e intelligenza, impone la sua legge a un mostro di muscoli che cerca di incornarlo. Gli oppositori della corrida pensano che il torero si diverta a torturare uno splendido animale innocente, mentre per gli aficionados si tratta di una messa in scena mitica, quasi spirituale, durante la quale un uomo dimostra, in una danza di morte con l’animale, di essere più forte di chi vorrebbe annientarlo.
L’uomo moderno è nato 40 000 anni fa, grazie alla scoperta di tecniche e racconti che hanno ribaltato l’idea che si era fatto del proprio posto in seno alla natura. Usava la creatività e la violenza per sconfiggere la morte. La donna garantiva la sopravvivenza dando alla luce altri individui, e gerarchizzava il gruppo spartendo la selvaggina e cucinando il cibo.
L’uomo è l’unico animale che usa la creatività per sottrarsi alla propria condizione bestiale. L’invenzione del più piccolo oggetto tecnico gli conferisce un senso di forza e libertà. E quando trasforma in parole la sua idea del posto che occupa nell’universo, crea un mondo di racconti a cui crede e a cui si sottomette.
Quando fu inventata la scrittura, 30 000 anni fa, in una terra che oggi chiamiamo Iraq, l’uomo si diede la prova che, incidendo dei segni su un pezzo d’argilla, poteva rappresentare cose e avvenimenti che non erano presenti. Agendo sulla materia, lo scriba sumero arricchiva il mondo reale di informazioni virtuali che esistevano al di là di ciò che veniva percepito: la tecnica diventava sorella della magia! Si può agire sul reale grazie a vocaboli detti o scritti. È sufficiente pronunciare le parole: «Per Astaroth, Astarath e Belzebù» perché le entità ebraico-babilonesi agiscano sull’anima degli individui trasmettendo loro formule matematiche e portandoli a scoprire tesori. Basta imprimere alcuni segni su una coppa d’argilla, incidere un pezzo di pergamena o una tavoletta, per scoprire e padroneggiare un mondo dell’aldilà. «Le formule magiche sono… lo strumento che agisce oltre le distanze spaziotemporali.6 È sufficiente dire: «Sole, sorgi» o «Apriti, Sesamo» per constatare che, in effetti, il sole sorge e forse la roccia si aprirà. L’uomo non ha bisogno di capire in che modo la disposizione delle stelle agisca sulla sua psiche, per credere in questa idea. Gli basta dire che è nato sotto il segno del Leone o del Capricorno. Può addirittura affermare che i Leoni sono generosi e arroganti, e che i Capricorni sono segni di terra attaccati agli oggetti materiali, perché così è scritto.
Per sedurci, un racconto deve risuonarci dentro, dare forma verbale a ciò che ci preoccupa, parlarci della nostra discendenza, del nostro destino sulla terra e della nostra vita dopo la morte. Gli annali religiosi nutrono questo bisogno fondamentale.