29. Le migrazioni di Dio
Il fenomeno delle migrazioni costituisce una situazione quasi sperimentale in cui si può individuare, valutare e confutare il modo in cui la religione rende solidale un gruppo nei momenti difficili, ne protegge i membri e li pone in pericolo di conflitto con le fedi dei gruppi vicini. Ogni essere vivente deve elaborare informazioni estratte dal reale, se non vuole morire di fame, di freddo e di solitudine. Ma, contemporaneamente, è costretto a vivere in un mondo di rappresentazioni, perché il suo cervello lo porta ad attribuire un significato simbolico agli oggetti, a elaborare narrazioni per creare solidarietà nel gruppo. E qui tutto si complica.
A partire dai paleoviaggi della famiglia Sapiens, i movimenti di popolazione non cessano di rimescolare le culture. Dopo ogni catastrofe naturale e ogni guerra, una parte della popolazione deve abbandonare il proprio paese originario, portandosi dietro strumenti e narrazioni, per rifugiarsi in un territorio vicino. Le popolazioni che l’accoglieranno vorranno naturalmente approfittare delle nuove braccia, ma non saranno disposte a condividerne le credenze. Questo processo, che già esisteva quando eravamo in pochi sulla terra, diventa complesso se consideriamo che oggi siamo 8 miliardi di individui e che la tecnologia ha rivoluzionato i trasporti e l’urbanistica. Gli immigrati abitano nelle periferie cittadine, e difficilmente si spostano verso il centro per integrarsi con la cultura ospitante. Questa limitazione urbanistica organizza la coabitazione separata dei due gruppi, ma ne ostacola l’assimilazione.1
Accolta con difficoltà, la popolazione in arrivo si chiude in sé stessa, formando un clan. È facile osservare segni di disagio come il consumo di farmaci, la diffusa presenza di consulti psichiatrici (per depressioni, suicidi), condotte antisociali come la delinquenza e, soprattutto, assenza di socializzazione, disoccupazione, soggiorni in isituti, violenze familiari e il mancato sostegno ai bambini che smettono di investire nella scuola. Questi indici di malessere variano a seconda del gruppo e delle circostanze sociali. Il ripiegamento sul clan, favorito dalla periferizzazione urbanistica, può essere combattutto dalla cultura d’accoglienza prima che intervengano dei profeti di sventura. Quando il paese ospitante è reso inquieto da questa stretta convivenza priva di scambi, reagisce chiudendosi e diffidando dei nuovi arrivati.
Se la migrazione è una scelta, il fenomeno non ha più grande importanza, perché dopo le prime inevitabili fatiche dell’acculturazione, il nuovo arrivato non tarderà a familiarizzare con i compagni d’università o i colleghi di lavoro. Ma nella migrazione forzata, dove chi arriva è triste per avere lasciato il paese d’origine e magari, dopo essere stato truffato o rapinato durante il viaggio, all’arrivo viene confinato in un quartiere sovrappopolato, allora i segnali di disagio tendono ad aumentare.
In questo gruppo in difficoltà, a inserirsi più facilmente nella cultura di accoglienza sono i bambini che parlano almeno due lingue. Circondati di cure durante l’infanzia, si sentono sostenuti dai genitori e accolti dai nuovi amici. E sono felici di diventare biculturali.2
Le politiche d’accoglienza svolgono una funzione importante nel nuovo destino degli immigrati. La soluzione peggiore è quella dei campi, dove nel giro di qualche giorno ricompaiono processi di socializzazione di tipo arcaico, con la legge del più forte che semina violenza nel gruppo. Questa politica di emergenza non sempre è evitabile, come si può vedere in Libano, con un milione e mezzo di siriani che si sono insediati sotto teloni bianchi eretti nei grandi viali, dove si commercia e si partorisce. I campi palestinesi in Giordania sono decenti, ma negli altri paesi arabi – e soprattutto nei territori palesinesi – somigliano più a baraccopoli, come quelli francesi di Calais. Quando i palestinesi, cacciati prima dall’occupazione ottomana e poi da quella egiziana, sono arrivati in Cile, sono diventati rapidamente cileni. Oggi, quando emigrano in Svezia, negli Stati Uniti o in Francia, se non vengono sistemati nei campi riescono a integrarsi fin dalla prima generazione. Se relegati nei campi, restano immigrati fino alla terza generazione.
La religione è per i migranti un importante elemento di protezione, di dignità e autostima, ma i gruppi che si raccolgono intorno a un unico Dio offrono un vivaio di possibili prede ai predicatori ideologici. In un contesto di deculturazione un bambino non può riuscire a integrarsi da solo, se non ha la fortuna di incontrare una famiglia o un’istituzione dove acquisire un senso di sicurezza, andare a scuola, assorbire la nuova cultura e sopportare la perdita della famiglia d’origine.3
Quando il bambino è circondato da una famiglia in difficoltà, incapace di infondergli sicurezza, finisce che nel processo di acculturazione si scava un solco. I bambini imparano la lingua della cultura d’accoglienza più velocemente dei genitori e cominciano a vergognarsi delle proprie origini. Una madre polacca che stava lentamente imparando il francese aveva portato i figli a pranzare in un bar. Aveva ordinato un piatto al cameriere indicando il figlio: «Croque-monsieur». Poi aveva indicato la figlia dicendo: «Croque-madame». Alla fine aveva puntato il dito verso di sé dicendo: «Croque-moi». I bambini nascosero la vergogna ridacchiando. Questi genitori si sentono spesso umiliati dalla riuscita dei figli, vivendola quasi come un tradimento, un motivo di sdegno: « Dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto per te, tu ci disprezzi». Nelle famiglie in cui la religione ha evitato gli strappi, non ci sono questi gap nell’apprendimento culturale.4 La condivisione di una rappresentazione divina mantiene il legame fra le generazioni, creando solidarietà nel gruppo. Negli Stati Uniti, una popolazione cristiana ha un’idea di Dio che manifesta caratteristiche diverse a seconda dei credenti: il 31 per cento afferma che il Dio dei cristiani è autoritario, il 28 per cento lo vede come pura bontà e il 23 per cento lo considera distante.5 I membri credono tutti nello stesso Dio, ma con caratteristiche diverse per ognuno.
Presso i musulmani, l’idea di Allah è più unitaria: il 95 per cento afferma che ogni disobbedienza sarà severamente punita. Gli induisti la pensano così nell’80 per cento dei casi. Quanto ai cattolici peruviani, l’80 per cento crede in un Dio severo, idea condivisa solo dal 60 per cento dei cattolici asiatici. Gli ebrei credenti non impongono la propria visione agli ebrei laici o ai rappresentanti di altre religioni. Iniziano ogni cerimonia in sinagoga con una preghiera per ringraziare la Francia che, dopo il Concordato, ha concesso loro lo tra di cittadini. Dal confronto tra queste inchieste emerge che l’islam è la religione più unificante, e che anche i dogmi più rigidi evolvono adattandosi al contesto culturale.6
Quando lo sviluppo dei bambini non è in accordo con la fede dei genitori, i giovani sentono la religione come una costrizione, ma, quando le fedi si corrispondono, la religione acquisisce un effetto rassicurante che migliora l’unione fra generazioni.
Se la struttura familiare viene sostenuta da un mondo di rappresentazioni condivise, che siano religiose o attinenti a un progetto esistenziale, i bambini potranno avere la stessa integrità mentale dei bambini della cultura d’accoglienza. Ma quando i piccoli sono culturalmente randagi, perché abbandonati o perché la loro rapida integrazione si è dissociata da quella più lenta dei genitori, il tessuto familiare si lacera ed emergono disagi psichici sia nei genitori infelici sia nei bambini emarginati.7 Il contesto culturale svolge una funzione importante, orientando la religione verso un effetto protettivo o invece separatorio, verso una dichiarazione d’amore o verso l’inizio di un conflitto. Oggi regioni intere vivono sotto una costante minaccia di distruzione da parte dei vicini. La Turchia, l’India, la Corea del Sud e il Medio Oriente usano la religione per difendersi, ne fanno uno strumento bellico per opporsi alla guerra. Queste diverse religioni si irrigidiscono per proteggersi, al punto da esaltare i propri signori della guerra e i propri dittatori.
In altri paesi più sicuri, invece – come l’Islanda o la Nuova Zelanda – un rigido vincolo religioso avrebbe l’effetto di una costrizione insopportabile. In questo diverso contesto, una religiosità più rilassata conferisce un aspetto più sorridente alle religioni praticate in quei paesi. I fieri maori esibiscono il proprio spirito guerriero ormai solo sul campo da rugby, mentre nella vita di ogni giorno convivono senza timori con altri gruppi umani che adorano un Dio diverso.8
La gioia di essere biculturali si costruisce giorno dopo giorno, modificando le abitudini relazionali. Quando il processo non funziona e le due culture rimangono dissociate, nasce un conflitto morale. «Sono come seduto fra due sedie» afferma, per spiegare la propria confusa identità, un giovane che cerca di integrarsi in una cultura d’accoglienza improntata a valori opposti ai suoi. Oppure: «Voglio diventare una donna occidentale, ma mia madre e le mie sorelle lo considerano immorale». Quando i genitori vengono a patti con le due culture, i bambini si integrano facilmente e il processo conduce nell’arco di poche generazioni a un’assimilazione non violenta: «Ho un nonno ebreo, ma io sono cristiano». L’assimilazione imposta fin dalla prima generazione, invece, è vissuta come una violenza contro le origini. Quando qualcuno, nel paese d’accoglienza, critica la religione dei padri, i bambini sentono – malgrado il loro desiderio di integrarsi – una punta di amarezza verso la cultura ospitante. Ma se questa si interessa alla cultura dei genitori, loro si sentono orgogliosi e compiaciuti di essere biculturali. La novità è che nella terza generazione, perfettamente integrata, i bambini immigrati partono alla ricerca delle proprie origini. Non è raro che un discendente di repubblicani spagnoli cacciati dalla guerra civile nel 1936 dichiari di voler tornare in Spagna, con grande sorpresa dei genitori che si sentono completamente francesi. Questo bambino non viene cacciato dalla Francia, ma riavvicinandosi al paese degli antenati sente di vivere un’esaltante avventura identitaria.
Molti sudamericani sognano di tornare in Spagna, la «madrepatria» che i loro antenati avevano combattuto nelle guerre di indipendenza del XIX secolo. Vari nordamericani vanno alla ricerca delle proprie radici tedesche o irlandesi, provando l’ineguagliabile gioia della genealogia. Si tratta in questi casi di un’emigrazione non forzata, semmai sognata, necessaria per espandersi e rinsaldare la propria identità.
Il fenomeno è particolarmente sorprendente negli ambienti ebraici dove, per tutto il Medioevo, la solidarietà di questo popolo disperso è stata rafforzata dalle persecuzioni. Gli ebrei abituati a viaggiare si sentivano spiazzati arrivando in una città dove non c’erano cugini ad attenderli. Quando dal XVII secolo sono divampati i pogrom, questo popolo multiculturale ma unito in un solo Dio ha vissuto l’emigrazione come una forzatura e allo stesso tempo una gioia: «La Polonia rappresenta l’infelicità, l’Europa è una terra del sapere e la Palestina incarna il passato e la speranza».9 Quello ebraico era uno spazio più metaforico che fisico, ma le persecuzioni europee e arabe l’hanno costretto all’esilio. È stata la speranza a guidare il popolo. È per questo che i bambini riscoprono oggi con gioia il giudaismo dei nonni, e lo insegnano ai genitori che credevano di averlo dimenticato? Verso i dieci anni chiedono al rabbino di ragguagliarli sulla fede e sui rituali, poi rientrano a casa e mostrano ai genitori, stupiti e lieti, cosa fare per tornare ebrei.
Qualcosa di analogo avviene negli Stati Uniti, dove nascono associazioni di cosiddetti «Neri» i cui genitori, magari, si erano battuti per far cessare la discriminazione basata sul colore della pelle. I giovani Neri si sentono meno neri nella comunità in cui il colore della loro pelle è un colore «normale», mentre in un ambiente di bianchi si sentono più neri: oggetto di sprezzo, alterigia e, a volte, di aggressioni vere e proprie. Vige anche una classifica del colore della pelle: meno è nera, meno loro si sentono aggrediti. Ecco perché un assassinio di matrice razzista è considerato un crimine contro l’umanità ma, anche, un’occasione per unire le vittime in una legittima difesa che porta in luce il loro orgoglio di essere neri.10