Sei dodicenni già vecchi, sei ex bambini-soldato. Avevano visto la morte, forse l’avevano anche data, erano vissuti a contatto con l’orrore. E di colpo si erano ritrovati invecchiati: la fronte solcata da rughe profonde, gli occhi che in pochi mesi avevano smesso di ridere, le mascelle serrate che indurivano i tratti del volto. Uno di loro, più sorridente e con due fossette sulle guance, mi annunciò che la guerra in Congo era finita e lui voleva diventare un calciatore, o un autista di quelle meravigliose automobili che aveva visto nelle ONG di Goma. Somigliava a mio nipote, salvo per la pelle scura. Un altro mi chiese di spiegargli perché lui stava bene soltanto in chiesa. «Non vedo che immagini spaventose. Ma appena entro in chiesa vedo cose belle». Gli altri avevano approvato, cosa che divertì molto il calciatore-autista.1
Non seppi rispondere, e vidi la delusione dipingersi sui loro volti. Li stavo lasciando soli nel loro dolore, non sapevo aiutarli a capire perché, quando entravano in chiesa, le loro ferite diventavano meno dolenti, l’angoscia che li opprimeva si placava e svanivano le immagini dell’orrore. All’età di quattordici anni Elie Wiesel fu gettato in un inferno dove la realtà si era trasformata in follia: Auschwitz. Di ritorno dal regno dei morti non riusciva a parlare, finché una forza intima lo costrinse a testimoniare. Intorno a lui tutti domandavano: «Quale Dio ha potuto permettere tutto questo?»2 Qualcuno aveva perso la fede: «Se Dio esistesse, non l’avrebbe permesso». Il ragazzo si sentiva lacerato, la sua fede era ancora viva ma trafitta da una domanda lancinante: «Perché Dio l’ha permesso?» Fu così che Wiesel capì che Dio soffriva per la presenza del male: «Dio è in pena dopo Auschwitz, e io ho bisogno di Lui».
Possiamo forse ignorare che, oggi, sette miliardi di persone si rivolgono a Lui ogni giorno, lo sentono vicino affettivamente, temono il suo giudizio e si incontrano in meravigliosi luoghi di preghiera chiamati chiese, moschee, sinagoghe e altri templi?
Potremo cercare di capire perché questo bisogno fondamentale sfocia così spesso in un linguaggio totalitario che pietrifica le anime e, in nome dell’amore per il prossimo, si trasforma a volte in odio nei confronti dell’Altro?
Ho condotto questa indagine per rispondere a quei bambini, volevo capire che cosa, nell’animo umano, stabilisce l’attaccamento a Dio.