10.
Se non ora, quando? Il posto della politica

1. Oltre le norme: il modello implicito delle immigrazioni italiane

Con provvedimenti legislativi e amministrativi diversamente orientati, la politica italiana ha definito e ridefinito il suo approccio verso le immigrazioni dall’estero, sulla spinta di un saldo migratorio che – nel primo decennio del XXI secolo è stato di quasi mille persone al giorno. Per comprendere cos’è accaduto, non è però sufficiente considerare i cambiamenti normativi, ma bisogna guardare alla concretezza di tutto il processo, perché il modello dell’immigrazione si definisce come impasto fra norme e prassi sedimentate nel corso degli anni.

Anche se non bisogna dimenticare le tragedie del Mediterraneo, la grande maggioranza degli stranieri adulti è entrata ed entra in Italia in modo regolare o semiregolare (con visto turistico, permesso di lavoro stagionale, ecc.), è transitata per un periodo più o meno lungo di irregolarità, ed è stata poi regolarizzata: con i decreti-flusso, con i periodici provvedimenti di sanatoria, oppure grazie all’allargamento dell’Unione Europea, che nel 2007 ha fatto uscire dal limbo centinaia di migliaia di bulgari e rumeni. Le due ultime leggi quadro sull’immigrazione (Turco-Napolitano del 1998 e Bossi-Fini del 2002) hanno fallito l’obiettivo di stabilire un flusso ordinato di ingressi regolari: la buona intenzione di garantire un numero di ingressi congruente con l’offerta di lavoro si è scontrata con procedure burocratiche impraticabili e con la realtà di un mercato del lavoro basato – per gli italiani come per gli stranieri – su procedure informali. Anche il tentativo di espellere dall’Italia gli immigrati irregolari caduti nelle maglie dei controlli si scontra con difficoltà pratiche di diversa natura, come i costi e la scarsa possibilità di stabilire accordi di riammissione con i paesi di provenienza.

La mancanza di meccanismi legali di ingresso e di espulsioni effettivamente praticabili ha avuto conseguenze pesanti: per gli stranieri irregolari, per gli italiani, per gli stranieri regolari e per tutto il sistema migratorio. In questi anni hanno prosperato le organizzazioni criminali, che gestiscono gli ingressi e la permanenza irregolare nel nostro paese. I Centri di identificazione e di espulsione (Cie) – dove secondo la Turco-Napolitano si doveva sostare al massimo per quindici giorni, portati poi all’incredibile intervallo di diciotto mesi a metà del 2011, ridotti a tre mesi a fine 2014 – sono diventati una specie di fisarmonica, dove le forze dell’ordine si limitano a mandare gli irregolari a forte sospetto di delinquenza. Una moltitudine di stranieri ha vissuto il ricatto e il rischio dell’irregolarità, nell’impossibilità di definire un percorso di integrazione che avrebbe potuto essere molto più rapido e agevole. Inoltre, centinaia di migliaia di datori di lavoro italiani e stranieri sono vissuti nella pratica impossibilità di regolarizzare rapporti di lavoro con i dipendenti immigrati: per i più spregiudicati questo è stato un vantaggio, perché ha abbattuto il costo del lavoro, mentre per gli altri, specialmente per le famiglie, e per tutta la collettività si è trattato di un costo, perché ha fatto crescere la zona grigia del lavoro nero, turbando anche il mercato regolare per alcuni settori cruciali per il paese, come l’edilizia e l’agricoltura. Il percorso a ostacoli per raggiungere il permesso di soggiorno e la residenza anagrafica ha definito un filtro implicito all’ingresso, individuando gli immigrati più dotati in termini di risorse economiche, reti sociali, ecc.: forse questo ha ‘selezionato’ persone tenaci e furbe, ma certamente non quelle più ‘utili’ per il mercato del lavoro.

2. Come rendere normali anche in Italia le immigrazioni regolari?

Più in generale, l’attuale meccanismo effettivo di ingressi-espulsioni ha un impatto negativo sul sistema-paese, perché legittima implicitamente comportamenti extra legem, incluse larghe sacche di evasione fiscale e contributiva. Inoltre, la vita di molte persone viene resa complicata e penosa. Questo meccanismo va cambiato. Va preso atto dell’impossibilità di predeterminare le esigenze di un mercato del lavoro come quello italiano, sostanzialmente basato su conoscenze personali e familiari. Bisognerebbe avere più fiducia nella capacità del mercato di stabilire l’incontro fra domanda e offerta, stabilendo norme che ne permettano il funzionamento regolare anche con una stabile componente legata all’immigrazione.

Piuttosto che fissare in modo aleatorio e per ogni provenienza i numeri degli ingressi regolari, si potrebbero estendere i tempi del permesso di ingresso a tempo determinato (ad esempio a sei mesi), condizionato alla disponibilità di un garante (persona fisica e/o giuridica) residente in Italia. Non sembra utile predeterminare il numero di tali permessi di ingresso, mentre va garantita la trasformazione automatica in permesso di soggiorno per quanti dimostrino di aver trovato un’occupazione regolare e un alloggio stabile. Per quanti non trovassero un’occupazione e una casa, scatterebbe invece l’espulsione, e il garante sarebbe co-responsabile dell’eventuale permanenza irregolare in Italia. Grazie a questa co-responsabilità, i garanti dovrebbero favorire l’arrivo solo di persone effettivamente in grado di trovare rapidamente un lavoro regolare.

Questo meccanismo avrebbe il pregio di semplificare le procedure burocratiche, riducendo i relativi costi e adattando il sistema normativo sugli ingressi-espulsioni al mercato del lavoro e alla società italiana, salvaguardando le giuste finalità delle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, ossia connettere migrazioni e lavoro. Infatti, per i migranti adulti, è senz’altro opportuno collegare la permanenza stabile in Italia al lavoro, perché in caso contrario si favorirebbero comportamenti opportunistici, essendo il welfare italiano – che a noi può sembrare disastrato – immensamente più favorevole di quello garantito nei paesi con forte emigrazione. Del resto, è stata proprio l’identificazione fra migrazione e lavoro a definire il modello migratorio del nostro paese, rivitalizzando l’articolo 1 della Costituzione.

La speranza è che la messa in atto di meccanismi di ingresso più praticabili asciughino la platea degli stranieri irregolari che secondo le stime dell’Ismu erano ancora 400.000 al primo gennaio del 2015. Infatti, solo se gli stranieri irregolari sono pochi è possibile mettere in atto meccanismi di espulsione credibili e praticabili.

Nonostante gli sbarchi, in questi ultimi anni gli arrivi dall’estero per motivi di lavoro si sono dimezzati, per effetto della crisi. Sarebbe opportuno approfittare di minore pressione migratoria per modificare i meccanismi per gli ingressi regolari. Alleggerendo in questo modo anche la burocrazia, e perseguendo l’importante obiettivo di fare coincidere legislazione e prassi, affinché in Italia i processi migratori non vadano più a braccetto con l’irregolarità.

3. Acquisizione piena dei diritti civili

Trent’anni di storia italiana hanno mostrato che buona parte degli immigrati sono here to stay: qui per rimanere. Inoltre, con 100.000 nascite l’anno con almeno un genitore straniero, è evidente che l’Italia, nel giro di pochi anni, diventerà un caleidoscopio di diverse provenienze e culture, unificate – come più volte sottolineato anche in questo libro – dal sogno di migliorare la propria condizione, e dalla volontà di realizzare tale sogno attraverso il lavoro. È quindi evidente la necessità di completare il modello migratorio con percorsi di acquisizione dei diritti civili e della piena cittadinanza.

Recentemente, qualche passo è stato fatto con i meccanismi di punteggio per ottenere la carta di soggiorno permanente, che viene concessa solo se si supera un esame di italiano per il quale è possibile anche frequentare corsi appositamente istituiti. Ma non basta. Se nel 2014 in Italia 140.000 stranieri sono divenuti cittadini italiani, molti di più sono quelli in irragionevole lista d’attesa, e i meccanismi di concessione della cittadinanza sono farraginosi, lenti e complessi. Inoltre, per gli stranieri non comunitari non è previsto alcun tipo di diritto di voto, neppure per le elezioni comunali.

Questa situazione è paradossale, ed è in palese contraddizione con il fatto – ormai accettato da tutti, almeno a parole – che un gran numero di immigrati diventerà parte integrante della società italiana. Negli altri grandi paesi europei di immigrazione, che pure provengono da storie molto diverse, la definizione di percorsi praticabili di concessione della cittadinanza viene sfruttata come acceleratore di integrazione.

Nel caso francese, ad esempio, la semplice nascita nel territorio nazionale non rileva ai fini dell’attribuzione della cittadinanza se non per i minori figli di apolidi o di genitori sconosciuti o che non trasmettono la loro nazionalità. Tuttavia, dal 1998 ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri acquisisce automaticamente la cittadinanza francese al momento della maggiore età se, a quella data, ha la propria residenza in Francia o vi ha avuto la propria residenza abituale durante un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi. Le autorità pubbliche e gli istituti di insegnamento sono tenuti a informare le persone interessate sulle disposizioni normative in materia. Inoltre, l’acquisizione automatica può essere anticipata ai 16 anni dallo stesso interessato, o può essere reclamata per lui dai suoi genitori a partire dai 13 anni e con il suo consenso, nel qual caso il requisito della residenza abituale per 5 anni decorre dall’età di 8 anni.

In Italia, invece, la concessione a 18 anni per lo straniero nato in Italia e che vi ha sempre risieduto non è automatica, ma avviene su richiesta formulata prima di compiere il diciannovesimo anno: non c’è alcun obbligo di comunicazione di questo diritto da parte delle autorità competenti, e non c’è alcun modo di anticipare la concessione.

La Camera ha approvato, e il Senato sta discutendo mentre finiamo di scrivere questo libro, un’innovativa proposta di concessione della cittadinanza ai minori, basata su un sistema misto di ius loci e ius scholae. Secondo questa nuova legge, i minori stranieri hanno diritto alla cittadinanza secondo due diversi meccanismi.

In primo luogo, potrà acquistare la cittadinanza per nascita chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Per ottenere la cittadinanza del bambino ci sarà bisogno di una dichiarazione di volontà espressa da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. Senza tale dichiarazione, l’interessato può fare richiesta di acquisto della cittadinanza a partire dal sedicesimo compleanno.

In secondo luogo, anche se i genitori non hanno il permesso di soggiorno di lungo periodo, potrà ottenere la cittadinanza il minore straniero nato in Italia o entrato nel nostro paese entro il dodicesimo anno di età che abbia frequentato regolarmente, per almeno 5 anni nel territorio nazionale uno o più cicli presso scuole italiane dell’obbligo o di formazione professionale triennale o quadriennale idonea al conseguimento di una qualifica professionale. Nel caso in cui la frequenza riguardi il corso di istruzione primaria, sarà necessaria la conclusione positiva di tale corso. La domanda andrà fatta dal genitore, cui è richiesta la residenza legale, oppure dall’interessato dopo il sedicesimo compleanno.

Questi aspetti normativi vanno salutati come segnali importanti di civiltà e consapevolezza del fatto che l’Italia sta sempre più diventando un crogiuolo di etnie diverse, e che queste etnie debbono ‘fondersi insieme’. Tuttavia, essi non vanno sopravvalutati. Come mostrano il caso francese e americano, se è semplice e a costo zero cambiare questo tipo di norme, è poco utile o addirittura dannoso concedere la patente di cittadino a chi non ha gli strumenti per esserlo per davvero, perché si creano aspettative destinate ad essere frustrate.

4. La sfida dei richiedenti asilo

I richiedenti asilo non sono ‘invisibili’. A loro non è adattabile il modello migratorio che da più di vent’anni si è attagliato alla società italiana. Richiedono procedure precise, rispetto di convenzioni internazionali, che prevedono un prima, un durante, un dopo. Percorsi chiari e difendibili anche a livello internazionale. Spesso abbiamo provato a ignorarli, salvandoli dal naufragio e poi girandoci dall’altra parte. Nel 2014, secondo il Ministero degli Interni, sono sbarcati sulle nostre coste 140.000 profughi, ma solo 60.000 hanno chiesto asilo all’Italia. Gli altri 80.000 hanno preso il volo (o, meglio, il treno o il bus) verso l’Europa del Nord. Così, l’Unione Europea continua a bacchettarci, dicendo che non facciamo il nostro dovere di identificare tutti quelli che sbarcano in Italia. Come spesso accade, gli italiani sono maestri dell’emergenza, ma cattivi programmatori di medio e lungo corso.

Il problema più grosso sono i tempi. Alla fine del 2015 nelle comunità di accoglienza vivevano 100.000 persone in attesa di conoscere l’esito delle commissioni (20 in tutto il territorio nazionale) e – in caso di non concessione dell’asilo – dell’eventuale ricorso in tribunale. Con tempi di attesa mediamente di due anni. Una follia.

Lo Stato sta cercando di accorciare questi tempi. Le commissioni per la concessione dell’asilo sono state recentemente raddoppiate e rafforzate, e negli ultimi mesi del 2015 i tempi di attesa di questa fase si sono ridotti. Inoltre, sulla scorta di un importante decreto legislativo dell’agosto 2015 (quasi del tutto ignorato dai media), che ha ridefinito in dettaglio tutte le procedure, un numero significativo di magistrati verrà distaccato nelle corti dove maggiore è il peso dei ricorsi. I primi dieci magistrati sono stati applicati in via straordinaria (ossia al di là delle quote previste dall’ordinamento giudiziario) il 22 dicembre 2015 dal Consiglio Superiore della Magistratura, e altri dovrebbe seguire a breve.

Nel frattempo, sarebbe però opportuno che quanti attendono il verdetto sull’asilo avessero l’opportunità di studiare, lavorare, non stare con le mani in mano. Alcuni Comuni hanno meritoriamente sottoscritto convenzioni per impiegare i richiedenti asilo – che almeno in una prima fase per convenzione internazionale non possono lavorare – in lavori di pubblica utilità. Sono cose molto importanti, anche in vista di un loro inserimento, se avverrà, nella società italiana.

Resta il problema del dopo. Solo in pochi casi, in caso di asilo negato, si procede effettivamente ad accompagnare lo straniero irregolare al suo paese di origine: perché è molto costoso e anche perché non con tutti i paesi sono attivi accordi di riammissione. A nostro avviso, si potrebbe, anche in questo caso, concedere un permesso semestrale di ricerca di lavoro – sempre con uno sponsor a fare da garanzia – da trasformare in permesso di soggiorno se il lavoro viene effettivamente trovato. In caso contrario, l’immigrato, con la garanzia dello sponsor, si impegnerebbe a ritornare nel paese di origine, eventualmente grazie anche a un contributo per il viaggio.

Grazie alle sue pregresse peculiarità socio-economiche e culturali, l’Italia ha avuto la fortuna di evitare la migrazione ghettizzata, favorendo contatti rapidi e proficui fra italiani e stranieri. Un sistema scolastico pubblico e interclassista, un sistema produttivo basato sulla piccola impresa e, quindi, su stretti rapporti di fiducia fra imprenditore e lavoratore, un ricco reticolo di organizzazioni di volontariato, un sistema insediativo basato sulla proprietà della casa hanno realizzato un processo implicito di integrazione, facilitato da una sovrabbondante offerta di lavoro manuale, sia nel settore delle imprese che delle famiglie, attenuatesi solo durante questi anni di crisi.

Tutto ciò ha permesso in pochi anni a cinque milioni di persone di stabilirsi nel nostro paese, senza creare grandi sconquassi sociali.

In questo libro abbiamo mostrato come le migrazioni moderne si giovino di potenti meccanismi regolatori, che spontaneamente tendono a favorire l’integrazione. Tuttavia, l’integrazione stessa può venire fortemente rallentata da alcune storture molto “italiane”. Le principali sono: la pretesa di determinare per via burocratica e in modo nominativo gli ingressi e le uscite; la rigidità del sistema scolastico; la difficoltà di gestire le richieste d’asilo. Per non parlare dei timori irragionevoli e degli ingiustificati buonismi, entrambi politicamente alimentati e strumentalizzati.

In sintesi, ci sembra che una buona fusione fra italiani e stranieri abbia tre grandi nemici, fra loro allea­ti: una pubblica amministrazione rigida, inefficiente e poco propensa a lottare contro le diseguaglianze; una società italiana che non valorizza il merito e l’impegno individuale; un’errata narrazione pubblica dei grandiosi fenomeni di globalizzazione. Chi nei prossimi anni governerà l’Italia dovrà combatterli con tenacia, competenza e passione civile.