1.
La forza dei numeri

1. «Di fonderci insieme già l’ora suonò»

Migranti liberi e forzati. Ricchi e poveri. Giovani e vecchi. Tanti e pochi. Buoni e cattivi. Un incrocio continuo fra problemi e opportunità, dove si scontrano e si confrontano i valori, la cultura, l’economia e la demografia di più comunità umane.

Anche se ogni migrazione ha qualcosa di suo da raccontare, in realtà molti aspetti si ripetono nel tempo, specialmente per i possenti movimenti di persone che si susseguono dall’inizio della rivoluzione industriale. Tre parole si rincorrono sempre nelle storie migratorie: necessità, selezione, integrazione.

Le migrazioni nascono da due necessità contrapposte. Per i motivi più svariati, in un luogo non ci sono risorse sufficienti per permettere agli uomini di soddisfare le loro necessità e realizzare i loro sogni. Di converso, in un altro luogo – vicino o lontano – le opportunità sono sovrabbondanti rispetto agli uomini. Così, come attratti da una calamita, se i costi di trasferimento non sono proibitivi, un gruppo di abitanti del luogo di partenza si trasferisce nel luogo d’arrivo.

Ma le migrazioni non sono una lotteria, dove i biglietti vincenti vengono estratti a caso. Chi ha l’ardire di spostarsi non è uguale a chi resta a casa: spesso è più sano, più avventuroso, più determinato, più aperto al nuovo, disposto anche a inghiottire bocconi amari, a sopportare sacrifici e privazioni pur di realizzare il suo progetto di vita.

Grazie anche a questa preventiva selezione, i migranti diventano sempre più simili agli abitanti del paese che li ha accolti, tanto da diventare quasi indistinguibili da questi ultimi nel giro di pochissime generazioni.

Necessità, selezione e integrazione: tre parole-chiave per comprendere come non si dovrebbe parlare tanto di migrazioni e di stranieri (parole che pure ricorreranno di continuo anche in questo libro), quanto piuttosto di processi migratori. Trasformazioni che quasi sempre si ripetono con caratteristiche simili: un gruppo per lo più autoselezionato di persone fa il grande passo di lasciare il luogo dove ha trascorso il primo periodo della sua vita, attratto da prospettive (da esso ritenute) concrete di mobilità sociale; i suoi componenti, una volta trasferiti, iniziano a trasformarsi, diventando sempre più diversi rispetto ai loro coetanei rimasti in patria e sempre più simili agli abitanti del paese che li ospita. Infine, i loro discendenti, spesso in tempi assai ristretti, diventano praticamente indistinguibili rispetto ai coetanei nativi.

Per essere più precisi, piuttosto che di integrazione dei migranti, si dovrebbe parlare di fusione fra i migranti e i nativi, come vedremo in dettaglio verso la fine di questo libro, quando parleremo dell’originale mix che si sta producendo in Italia fra culture e religioni. Perché anche i nativi vengono in qualche modo modificati dall’interazione con i migranti, e da questi incontri nasce una popolazione nuova, così come una lega può avere proprietà anche molto diverse rispetto ai due metalli di partenza.

«Di fonderci insieme già l’ora suonò». Questo verso dell’inno nazionale è più attuale che mai nell’Italia di oggi, dove cinque milioni di stranieri e cinquantacinque milioni di italiani, affrontando le fatiche quotidiane dell’incontro e del confronto, stanno dando vita a qualcosa di nuovo. A metà dell’Ottocento, l’auspicio del giovanissimo Mameli era che i tanti Stati italiani si fondessero in un’entità del tutto nuova. Nel nostro piccolo, noi auspichiamo che da quel crogiuolo che è l’Italia di oggi non esca una campana stonata. Infatti, anche se il processo migratorio si muove con regole in qualche modo inerziali di selezione e di assimilazione, la sua velocità e la sua buona riuscita non sono affatto date. Esse dipendono in larga misura da condizioni influenzabili dall’azione dell’uomo: atteggiamenti culturali dei migranti e dei nativi, spinte e controspinte dell’economia, azioni di governo, e così via.

2. Migrazioni moderne

In questo primo capitolo parliamo di demografia. Perché con la rivoluzione demografica tutto è cambiato: sono le migrazioni moderne, bellezza, e non puoi farci niente. Possiamo però adattare la nostra società e – prima ancora – la nostra mentalità, per vivere al meglio questo grandioso mutamento.

Anche nelle società preindustriali vi furono grandi trasferimenti di popoli: per sopravvivere alla pressione di altre genti, per desiderio di conquista, per fuggire da disastri ambientali o climatici, per persecuzione religiosa, per politiche di popolamento. Tuttavia, nel passato gli spostamenti di uomini avevano per lo più carattere stagionale o locale. Ad esempio, molti abitanti delle montagne si trasferivano temporaneamente in pianura nei periodi di raccolto; all’inizio di novembre molti mezzadri veneti, emiliani o toscani facevano San Martino, cambiando podere con tutta la famiglia. Oppure, fra aree diverse, usualmente non lontane fra loro, c’era un continuo e regolare flusso di persone: ad esempio, le città italiane medievali erano in continuo deficit demografico, essendo i morti sistematicamente più numerosi dei nati, ma i ‘buchi’ venivano compensati da persone provenienti dal contado, dove, di converso, le nascite erano più numerose dei decessi.

Con il XIX secolo questi secolari equilibri si incrinarono: sotto la duplice spinta della rivoluzione economica e della rivoluzione demografica, masse imponenti di persone adulte andarono ‘fuori mercato’, e furono costrette a cercare fortuna lontano dal loro luogo di nascita, cercandola nelle nuove fabbriche. L’effetto delle trasformazioni economiche fu duplice: da un lato, grazie all’innovazione agricola, per ottenere la stessa quantità di cibo c’era bisogno di molte meno braccia; dall’altro, per lo più nelle città, nacquero zone industriali sempre più grandi, con crescente bisogno di manodopera.

La rivoluzione demografica ha inciso sulle migrazioni in modo ancora più profondo. Questa rivoluzione, che in tempi diversi ha ormai investito tutto il mondo, si sviluppa in tre fasi:

(1) la mortalità infantile e giovanile diminuisce mentre la natalità resta costante: di conseguenza aumenta notevolmente il numero di giovani che raggiungono l’età lavorativa e poi riproduttiva;

(2) le coppie iniziano a ridurre il numero di figli: nel giro di pochi anni, il numero di potenziali lavoratori si riduce drasticamente e la popolazione cessa di aumentare;

(3) sia la mortalità sia la natalità sono molto basse, ma l’età media alla morte continua a crescere: di conseguenza, la proporzione di anziani continua ad aumentare.

La prima fase (aumento del numero di bambini e giovani) è quasi ovunque contemporanea a un forte incremento della produttività agricola (ossia della quantità prodotta a parità di ore di lavoro), e quindi un alto numero di giovani-adulti rimane senza lavoro e vorrebbe andarsene. È quanto accadde in tutta l’Italia fra l’Unità e la prima guerra mondiale, e nelle campagne del Mezzogiorno e del Veneto fino a tutti gli anni Sessanta del Novecento. Il censimento del 1881 rivelò – fra la sorpresa degli statistici – che metà dei milanesi non erano nati a Milano. Nel primo secolo di Unità nazionale (1861-1961), almeno 25 milioni di italiani hanno lasciato l’Italia, quasi 700 al giorno.

Il declino delle nascite – che nel giro di pochi anni si traduce in drastico calo del numero dei giovani – si è verificato quasi ovunque contemporaneamente all’industrializzazione di massa, iniziando dalle aree urbane e più scolarizzate, generando una grave carenza di lavoratori, e attraendo in modo irresistibile giovani provenienti dalle zone ancora attardate nella prima fase della rivoluzione. Così, alcune aree d’Italia avevano fame di immigrati proprio mentre altre zone erano sovraccariche di persone ansiose di lasciare il paesello, dov’era impossibile trovare qualcosa da fare. Nel ventennio 1955-1975, alla stazione di Torino e di Milano e in altri poli urbani (come Roma) e industriali (come Mestre) arrivavano ogni mattina centinaia di immigrati provenienti dalle campagne del Veneto e dall’Italia del Centro-Sud, con le valigie di cartone cariche di pochi beni e di molte speranze.

Negli stessi anni, migliaia di italiani sono partiti dagli stessi luoghi per raggiungere la Germania, la Francia, il Belgio, il Canada, il Venezuela, gli Stati Uniti e l’Australia. Questa sfasatura temporale fra Italia del Nord-Ovest e il resto del paese nelle fasi delle rivoluzioni economica e demografica spiega un apparente paradosso: in Italia il picco delle migrazioni venne toccato proprio durante il boom economico, nel periodo di maggior creazione di nuovo lavoro. La stessa cosa si sta ripetendo oggi, a ritmi accelerati e con numeri ben più imponenti, nell’Asia sud-orientale, dove la rivoluzione demografica è iniziata cinquant’anni dopo l’Italia e dove sta procedendo veloce.

La terza fase, quella della ricchezza e dell’invecchiamento, è tipica dell’Occidente di oggi: gran parte delle persone è benestante, e la produttività è altissima. Di conseguenza, la maggioranza dei nativi può permettersi di rifiutare i ddd jobs, ossia i lavori ritenuti sporchi, pericolosi e umilianti (dirty, dangerous and demeaning). Nello stesso tempo, si moltiplicano gli anziani che hanno bisogno di essere accuditi. Le società che attraversano questa fase continuano a generare una notevole offerta di lavoro, e sono fortemente attrattive per quanti vivono in paesi con sovrabbondanza di uomini, ancora immersi nella prima fase della rivoluzione. Ecco perché, negli ultimi trent’anni, l’Italia – malgrado un’economia non particolarmente florida – è stata così attrattiva per gli immigrati provenienti dai paesi demograficamente giovanissimi del Sud del mondo. Secondo le stime delle Nazioni Unite, all’inizio del 2015 nell’Africa sub-sahariana vivevano 962 milioni di persone (nel 1950 erano appena 180 milioni), e il 63% di loro aveva meno di vent’anni. Solo recentemente – e non in tutti i paesi – la fecondità è iniziata a diminuire.

Inoltre, l’Italia è stata particolarmente attrattiva anche per uomini e donne dell’Europa ex comunista dove – specialmente a causa di un sistema produttivo ancora arretrato – i fattori economici di espulsione operano con forza, malgrado la proporzione di giovani non sia particolarmente elevata.

3. Attrazioni e fughe irresistibili

Le migrazioni moderne sono profondamente diverse da quelle delle società agricole. Perché la loro causa profonda risiede in qualcosa che non si era mai verificato prima nella storia dell’umanità, ossia nella rivoluzione demografica, o – più precisamente – nei tempi sfasati con cui la rivoluzione demografica, a partire dal XIX secolo, si è manifestata e si sta manifestando nelle regioni e nei paesi del mondo.

Per comprendere ancor meglio la forza irresistibile che ancora oggi hanno questi numeri, rispondiamo a due semplici domande. Quante persone dovrebbero entrare nei paesi ricchi e in Italia nei prossimi vent’anni, affinché la popolazione in età 20-64 (la potenziale forza lavoro) non diminuisca? E quante persone dovrebbero uscire dai paesi poveri, affinché la popolazione della stessa età non aumenti? Per rispondere non è necessaria una grande immaginazione, perché chi avrà 20 anni nel 2035, nel 2015 è già nato, e quindi le nostre previsioni – o, meglio, quelle della Population Division delle Nazioni Unite – sono basate su proiezioni molto realistiche delle popolazioni che già oggi vivono nei diversi paesi.

Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i paesi ricchi ‘blindassero’ le loro frontiere, nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni, con una diminuzione fra il 2015 e il 2035 di quasi 4,5 milioni l’anno. D’altro canto, se i paesi poveri chiudessero improvvisamente le loro frontiere, nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno.

Nel prossimo ventennio, dunque, il mondo ricco non potrà fare a meno dei migranti. Come è accaduto nei decenni passati, la grandissima parte dei nuovi giovani asiatici, africani e sudamericani continuerà a vivere e a lavorare nel suo paese. Ma è sufficiente che uno su dieci si trasferisca per coprire il deficit di forza lavoro del mondo ricco.

Nell’Italia del crollo delle nascite post-1975 e della lunga sopravvivenza, la situazione demografica è ancora più ‘estrema’. Nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia – a saldo – 325.000 potenziali lavoratori, un numero vicino a quelli effettivamente entrati nel ventennio precedente. Altrimenti, nel giro di appena vent’anni i potenziali lavoratori caleranno da 36 a 29 milioni, a mano a mano che i baby boomers, nati negli anni 1955-1975, andranno in pensione. Diminuiranno anche i giovani con meno di vent’anni (da 11,2 a 9,7 milioni), mentre gli anziani con più di 65 anni sono destinati ad aumentare in modo inarrestabile, passando da 13,3 a 17,8 milioni (e ancora di più, se riusciremo a combattere con maggiore efficacia alcune malattie).

È vero: in Italia ci sono molti disoccupati, specialmente nel Mezzogiorno; è possibile e auspicabile aumentare di molto il tasso di occupazione delle donne; possiamo incentivare il lavoro dei giovani e degli anziani. Tuttavia, con un simile scenario demografico è fin troppo facile immaginare che migliaia e migliaia di stranieri ogni anno giungeranno nel nostro paese: perché gli anziani hanno bisogno di essere accuditi, e perché molti lavori gli italiani possono permettersi di evitarli, come vedremo meglio nel prossimo capitolo. Magari non saranno 300.000 l’anno, ma probabilmente non molti di meno.

Nelle pagine che seguono vedremo in che modo questi nuovi flussi migratori possano diventare volano di sviluppo economico, culturale e sociale.