3.
Un laboratorio d’eccezione: la scuola

1. Di chi parliamo

La presenza di minori stranieri si articola in modi diversi, con numeri anche sensibilmente diversi, a seconda del ‘tipo’ di minori a cui ci riferiamo.

A una prima categoria, statisticamente oggi la più rilevante, appartengono i minori nati in Italia da famiglie straniere o miste (un coniuge italiano, uno straniero) e quelli arrivati in Italia molto piccoli, in età prescolare.

Sono i bambini che, essendo interamente o molto precocemente socializzati in Italia, e interamente scolarizzati qui (dallo scorso anno scolastico gli alunni stranieri nati in Italia, rispetto a quelli nati all’estero, hanno superato la soglia simbolica del 50%), presentano meno elementi di diversità rispetto ai minori italiani.

Nessuna differenza sul piano sostanziale: le opportunità cui accedono sono caratterizzate più dalla loro classe sociale e dal livello di istruzione dei genitori, che dal fatto di essere stranieri; con in più l’eventuale problema linguistico se la famiglia, come spesso ma non sempre accade, non parla italiano in casa o lo parla male – cosa che non è specifica dei soli migranti, peraltro.

Ma alcune rilevanti differenze sul piano formale, con conseguenze che hanno effetti sostanziali e di lungo termine sui loro percorsi di integrazione – e che li diversificano, come categoria, all’interno – : in primis la questione della cittadinanza. Mentre i figli di coniugi stranieri – fino ad ora (il progetto di riforma della cittadinanza dovrebbe tuttavia essere approvato a breve, allargando i meccanismi di acquisizione della medesima) – non hanno la cittadinanza italiana, e possono farne richiesta, con un meccanismo non automatico, solo al compimento del diciottesimo anno di età (con maggiori difficoltà per i non nati in Italia), i figli di coppie miste ce l’hanno, dal momento che il coniuge straniero l’acquisisce per matrimonio, e viene dunque trasmessa ai figli. A questi potremmo aggiungere gli adottati tramite adozioni internazionali, che acquisendo praticamente subito la cittadinanza italiana non sono di fatto mai stati stranieri, e acquisendo il cognome della famiglia adottante non sono nemmeno percepibili come tali: ma possono esserlo per quanto riguarda le differenze etniche e somatiche, e pagarne i relativi prezzi, come sanno bene le famiglie coinvolte e i loro figli – il caso famoso di Mario Balotelli insegna.

Una categoria meno rilevante numericamente, ma significativa per le maggiori difficoltà che attraversa, è quella dei minori arrivati in età scolare (con i relativi maggiori problemi di inserimento, specie per quel che riguarda la scuola dell’obbligo), soprattutto a seguito di ricongiungimento familiare, e i minori non accompagnati, giunti in Italia da soli, affidati dalle famiglie a parenti per far tentare loro la fortuna, o a presunti e sedicenti ‘zii’, talvolta sottoposti a tratta per essere sfruttati nell’accattonaggio o, peggio, nello sfruttamento sessuale, e infine quelli rimasti soli per aver perduto i genitori, magari durante il viaggio e la traversata verso l’Italia.

Questo significa che la questione minori è evidentemente intrecciata a quella della scuola, ma non si sovrappone completamente ad essa, e quest’ultima non la esaurisce. Cominciamo ad affrontare il problema, comunque, da lì.

2. La scuola dell’obbligo

Vediamo i dati fondamentali che connotano la situazione, secondo il rapporto nazionale 2015 Alunni con cittadinanza non italiana, curato dalla Fondazione Ismu (Istituto per lo studio della multietnicità) e dal Miur, relativo all’anno scolastico 2013-2014, che qui utilizziamo ampiamente.

Emerge innanzitutto un aumento sostanziale in termini numerici: siamo passati dai 196.414 alunni non italiani dell’anno scolastico 2001-2002 (il 2,2% della popolazione scolastica) agli 802.844 attuali (il 9%). Trend ancora più significativo se paragonato a quello degli alunni italiani: più 19,2% di alunni stranieri, in soli quattro anni, tra il 2009-2010 e il 2013-2014; meno 2% di italiani, per le note tendenze demografiche in atto. È significativo però che gli stranieri siano sovrarappresentati fino alle medie, sottorappresentati poi: vuol dire che alcuni fanno più fatica o hanno meno motivazione ad andare oltre l’obbligo scolastico.

Le nazionalità maggiormente presenti, con più di centomila studenti, sono quella rumena, albanese e marocchina. Seguono, assai distanziate, Cina, Filippine, Moldavia, India, Ucraina, Perù, Tunisia; e, con percentuali tra loro assai vicine, Ecuador, Pakistan, Macedonia, Egitto e Bangladesh. Una pluralità molto accentuata, quindi, non riconducibile ad una o poche provenienze maggioritarie, con i connessi problemi di conoscenze e competenze degli insegnanti, dato che le lingue e le realtà di provenienza sono molto differenziate, anche culturalmente, e producono a loro volta una significativa diversificazione nel proseguimento del percorso scolastico. Il 48% delle presenze sono femminili, quasi come tra gli alunni italiani, e le ragazze prevalgono nella scuola secondaria. Vi è quindi un sostanziale equilibrio di genere, anche per quel che concerne i paesi musulmani.

3. Alcuni problemi da affrontare

Gli studenti neoentrati nell’anno scolastico 2014-2015, non nati in Italia, sono solo 33.054, pari al 5,2% del totale: un dato sceso per molti anni, ma tornato a crescere di recente – in collegamento con l’aumento degli sbarchi e degli arrivi legati all’emergenza attuale. E necessita di un supplemento di riflessione. La loro concentrazione è soprattutto nei primi anni di corso di ogni livello: probabilmente perché vengono inseriti ad inizio ciclo anche ragazzi più grandi, a prescindere dalla loro età anagrafica, e talvolta dal percorso di studi già affrontato. Tra essi vi è evidentemente una certa sovrarappresentazione di provenienti da paesi con gravi problemi, guerre, instabilità cronica, o che hanno vissuto arrivi particolarmente drammatici, con i traumi psichici conseguenti. Ed è evidente che abbisognano di maggiore supporto. A questo proposito va anche ricordato che la politica più diffusa è quella di inserire direttamente i ragazzi nei cicli educativi, lasciando che imparino l’italiano direttamente a scuola, se va bene con eventuale supporto didattico ad essi assegnato. È forse ipotizzabile in questi casi un supplemento di riflessione: che potrebbe far immaginare la frequenza prima di corsi di italiano appositamente dedicati, in specifiche classi ponte, e solo poi l’inserimento nella scuola, onde evitare frustrazioni e situazioni infelici ai ragazzi, e difficoltà e rallentamenti alle classi.

Un problema ugualmente serio, solo in parte real­mente arginabile, è quello delle scuole con elevata percentuale di stranieri: più del 30%. Rappresentano circa il 5% delle scuole: anche se, all’opposto, va ricordato che vi è anche un 20,6% di scuole che non ne hanno nemmeno uno, soprattutto al Sud, dove minore è la presenza di immigrati. In cifra assoluta, 2.851 scuole hanno più di un 30% di studenti non nati in Italia, 510 ne hanno più del 50% (di queste ben 322 sono scuole dell’infanzia, dove il problema è maggiore). Le scuole superiori in questa situazione sono 43, di cui 35 istituti professionali, molti peraltro serali, e nessun liceo. Il problema in questo caso non è in sé, e spesso ha meno a che fare con l’essere o no cittadini italiani, e più con la classe sociale, il livello di istruzione dei genitori e i bisogni economici familiari. Nel ricordare che basterebbe una diversa politica della cittadinanza, più aperta verso un sostanziale ius soli, per alterare significativamente al ribasso queste cifre, sottolineiamo che in certi casi (in taluni quartieri delle grandi città, in alcune città medie e piccole di distretti a forte componente immigrata) percentuali elevate di studenti non italiani sono inaggirabili: e le politiche di redistribuzione sul territorio possono funzionare solo nell’ambito di un raggio relativamente ristretto. Opportuni investimenti formativi in queste aree sono ipotizzabili e facilmente realizzabili, se ce n’è la volontà: temiamo che tuttavia in questo ambito il problema sia più nella percezione dei genitori italiani, e negli allarmi creati ad hoc da forze politiche e comitati per ottenere visibilità e consenso, che nella difficoltà a trovare soluzioni per risolvere gli effettivi problemi che si pongono.

A parte, c’è il problema degli alunni rom, sinti e caminanti. Complesso, a partire dal fatto che molti di essi, la maggioranza (i dati sulla parte di essi tuttora nomade, che è una minoranza, sono per definizione incerti), sono cittadini italiani. I problemi di inadempimento dell’obbligo scolastico, soprattutto per coloro che vivono nei campi (circa un terzo, secondo alcune stime), sono reali, come anche un rapporto con la scuola vissuta da alcune famiglie più come un fastidio che come un’opportunità, e per alcuni ragazzi, non supportati dalle famiglie, come una difficoltà maggiore che per gli altri, a prescindere dalla cittadinanza. Le statistiche sono forse imprecise, dato che molti non sono segnalati come appartenenti a questi gruppi, e danno quindi risultati imprecisi e forse fuorvianti, che potrebbero spiegare, almeno in parte, il forte gap tra alunni presenti nella scuola primaria e secondaria di primo grado (rispettivamente elementari e medie). In totale si tratta comunque di 11.657 studenti; alcune stime, tuttavia, ipotizzano un numero di minori, parte dei quali non classificata come rom o altro, parte invece del tutto assente dalla scuola dell’obbligo, significativamente superiore.

Il problema di ritardi e ripetenze si pone: sono in questa situazione il 14,7% degli stranieri contro l’1,9% degli italiani nella scuola primaria (le elementari); il 41,5% degli stranieri contro il 7,4% degli italiani nella scuola secondaria di primo grado (la scuola media); e il 65,1% degli stranieri contro il 23,3% degli italiani nella scuola secondaria di secondo grado (le scuole superiori). Va però tenuto presente che il dato è inficiato dalla presenza degli studenti neoentrati, di cui abbiamo già parlato: in ritardo di default e dall’inizio, e più soggetti a cadute. Diversa è evidentemente la situazione degli studenti nati in Italia da genitori con una lunga permanenza nel nostro paese. Tra i fattori critici il minore capitale sociale e culturale delle famiglie (dovuto alla situazione sociale, non alla provenienza etnica), la mancanza di aiuto e supporto familiare nell’attività scolastica, anche per i gap di conoscenza linguistica dei genitori, l’appartenenza a reti sociali che investono meno, nell’immediato, sull’istruzione. Ciò porta tuttavia a disuguaglianze strutturali nelle carriere, con effetti persistenti e cumulativi nel lungo periodo.

I dati delle prove Invalsi mostrano come, comprensibilmente, gli alunni stranieri ottengano mediamente risultati peggiori dei nativi nelle prove di italiano (e un po’ meno in quelle di matematica); tuttavia le seconde generazioni nate in Italia ottengono risultati più simili a quelli dei nativi italiani: dal che si può dedurre, ed è al contempo banale e significativo ricordarlo, che il problema non è quindi l’essere o meno cittadino straniero, ma l’essere socializzato più o meno a lungo in Italia, e più o meno esposto alle influenze sociali del contesto in cui ci si trova.

4. Intercultura in classe

La scuola ha fatto spesso notizia, in questi anni, a seguito di fatti di cronaca concernenti la difficoltà di interpretare e di cogliere le pluralità culturali, con effetti talvolta deleteri, anche se dettati dalle migliori intenzioni. Ci riferiamo ad occasionali fatti di cronaca, molto mediatizzati e spesso molto distorti per ragioni di polemica politica, riguardanti la pluralità culturale e religiosa.

Vale la pena di dedicarci una riflessione, perché al di là dei numeri, il tema è molto sentito in sé, anche da chi non vive dentro la scuola ma ha a che fare con essa: genitori, comitati, associazionismo, giornalisti, militanti dell’una o dell’altra posizione.

La scuola è un luogo, oltre che un’istituzione, dove l’incontro tra culture diverse, oltre che essere un dato, ha una sua ragion d’essere e di essere teorizzato: perché va a toccare l’idea e la definizione stessa di cultura come patrimonio sociale che la scuola ha il compito di trasmettere. Solo che un approccio multiculturale, che oggi si preferisce correttamente definire interculturale – che ha per presupposto il rispetto per l’altro e l’invenzione di modalità di convivenza tra culture diverse – si può portare avanti in molti modi. Si può fare per addizione: aggiungendo contenuti, conoscenze, simboli, momenti e luoghi di incontro, prodotti e consumi diversi. Si può, ancor meglio, procedere per interpenetrazione: facendo lo sforzo di pensare modalità diverse di incontro e di confronto (è del resto quanto accade nella vita quotidiana, quando incontriamo persone di altri mondi e le frequentiamo). Quello che non ha nessun senso fare è procedere per sottrazione: negando la propria cultura, o nascondendone i simboli (che oltretutto, in questo caso, finiscono per risaltare ancora di più, come accade quando togliamo un crocifisso da una parete dove è rimasto a lungo, magari non percepito, rendendolo paradossalmente più visibile).

Il mondo della scuola, con la sua forte presenza di immigrati di culture, lingue e religioni diverse, è in questo ambito un laboratorio d’eccezione. Ma proprio per questo, dato che si procede per tentativi ed errori, spesso in assenza di una preparazione adeguata, è anche il luogo dove più spesso si fanno passi falsi grossolani, magari in buona fede e con ottime intenzioni: che però, come noto, lastricano le vie della perdizione, o semplicemente del perdersi.

Esiste infatti un multiculturalismo improvvisato, che è speculare all’identitarismo grossolano e altrettanto privo di riflessione di chi poi grida al tradimento culturale, e a cui offre imperdibili occasioni di manifestarsi. È interessante che di questo multiculturalismo non siano di solito responsabili gli immigrati o, come spesso si finisce per credere, i musulmani, bensì insegnanti di larghe idee ma di troppo astratte vedute: non è cioè un conflitto tra noi e loro, qualunque cosa questo voglia significare, ma tra di noi a proposito di loro, che ne sono più le pedine e le vittime che gli attori.

Alcuni esempi, presi dal vero. L’insegnante che toglie il crocifisso dal muro perché ci sono in classe dei bambini stranieri. Quello che nella canzone da imparare a Natale sostituisce ‘Gesù’ con ‘virtù’ per timore di offendere qualcuno, o che dice al bimbo musulmano di non partecipare alla recita perché rappresenta la Natività (e lui che sarebbe ben contento di fare anche la parte di Gesù, del resto un venerato profeta dell’islam, pur di partecipare, ci rimane male...). La direttrice didattica che decide che non si fa più il presepe a Natale, ma solo l’albero, che è meno ‘compromissorio’. La commissione didattica che si oppone alla conferenza su temi o da parte di responsabili religiosi. E via elencando. Il tema esiste: ma è chiaro che il modo più ragionevole di affrontarlo non sembra proprio essere quello della cancellazione, peraltro illusoria, di una realtà culturale, in nome del rispetto di altre culture – la cui valorizzazione non prevede necessariamente, anzi non prevede proprio, la negazione dell’identità culturale altrui, pure in rapida trasformazione.

Detto questo, è doveroso aggiungere che la scuola è l’istituzione che ha fatto di più e meglio per favorire percorsi di integrazione, di co-inclusione, di riconoscimento delle specificità culturali, di costruzione di percorsi interculturali reali, in termini di formazione dei docenti e di didattica rivolta agli studenti, sia stranieri che autoctoni: per la semplice ragione che è stata l’istituzione in cui l’immigrazione si è manifestata per prima nei grandi numeri, quando altri non ci pensavano ancora e l’immigrazione non era una priorità – nemmeno nel discorso pubblico, nemmeno politicamente, nemmeno come bersaglio. E in qualche modo il meccanismo ha funzionato. E laddove non ha funzionato non è stato tanto sul problema della cittadinanza, e della differenza culturale. Il problema più generale della scuola è semmai sociale, e non di sua integrale responsabilità, perché è un problema della società tutta intera. È il problema su cui si arrovellava già don Milani: non è che la scuola integra poco o male i figli degli stranieri, ma integra poco o male i figli dei poveri. Non produce sufficiente mobilità sociale perché è inserita in una società immobile, i cui meccanismi la scuola da sola non è in grado di scardinare.

5. Non solo bambini e ragazzi: l’istruzione superiore e universitaria

Il tipo di istruzione superiore maggiormente scelto dagli studenti stranieri è quello degli istituti tecnici: preferiti dal 38,5%. E quasi la metà degli studenti che proseguono nell’istruzione universitaria, il 49,7%, viene da lì – in misura significativamente superiore agli italiani che scelgono il medesimo indirizzo, e si fermano al diploma. Il 37,9% sceglie invece gli istituti professionali, che fino a poco tempo fa mantenevano il primato delle scelte (il 15,5% del totale degli iscritti ai professionali è straniero, secondo l’Isfol). Ma anche tra questi, una percentuale significativa, il 17% del totale degli stranieri iscritti all’università, sceglie poi di proseguire gli studi (gli italiani provenienti dai professionali che vanno all’università sono, in percentuale, la metà): segno che la scelta del professionale, più che voluta, è indotta – dalle necessità, e probabilmente anche da pressioni interne alla scuola e alla società. Il 23,5% degli immigrati non nati in Italia iscritti all’università proviene invece dai licei.

In totale gli studenti universitari non comunitari sono 10.053. Oltre il 41,4%, tuttavia, ha conseguito il diploma all’estero, e ha raggiunto l’Italia esclusivamente per studiare. Gli effetti sulle ripetenze e i ritardi nelle superiori si ripercuotono anche sull’ingresso in università: tra l’80 e il 90% degli italiani si iscrive a 18-19 anni, mentre i non nati in Italia risultano in ritardo, al momento dell’iscrizione, di un anno o più. Ed entrano anche con valutazioni agli esami di Stato significativamente più basse. Prevale, tra gli studenti universitari, la componente proveniente dall’Europa dell’Est.

Ma prima di analizzare i numeri conviene forse tornare all’ABC. Viviamo in un mondo che sempre più sta scoprendo, o riscoprendo, la sovranazionalità della cultura, l’indispensabilità dello scambio di informazioni. La ricerca scientifica ne è l’esempio più forte: comunità transnazionali, cieche alle differenze culturali, unite da un interesse specifico e da una lingua comune che è l’esperanto della scienza, l’inglese, come ieri era il latino. Un laboratorio di un paese in via di sviluppo si distingue da quello di un paese avanzato solo per la più o meno abbondante dotazione di mezzi, non per il metodo di lavoro: e condivisa è la sensazione di appartenere a una koinè, una lingua comune, che incorpora valori e strumenti. Ma la cultura umanistica (che del resto non distingueva tra le scienze) l’aveva in fondo preceduta: la mobilità di studenti e docenti ne è l’esempio più alto fin dall’invenzione delle università – in cui la bellezza dello scambio e il valore della contaminazione culturale erano i prerequisiti stessi della comunità di appartenenza.

A differenza del solitario viaggiatore erudito che parte per il Grand Tour armato solo della propria curiosità e dei mezzi per soddisfarla, il ricercatore, il docente, lo studente universitario si muovono più in nome dell’universalità della cultura che delle sue particolarità. E sono, di fatto, gli ambasciatori e i messaggeri di un mondo globale nei suoi presupposti anche culturali. Mentre la qualità e il valore di una istituzione universitaria si misurano sempre più con il livello di internazionalizzazione e la capacità di attrarre talenti, come docenti e come studenti, da lontano. Un processo di cui si ha poca consapevolezza, nel nostro paese: non saremmo stati altrimenti a livelli sempre molto bassi di presenza straniera nelle università, enormemente inferiori a quelli degli altri paesi europei, in questo assai più lungimiranti del nostro. E questo sia relativamente al numero di studenti stranieri, che relativamente ai docenti (mentre molti dei nostri studenti migliori vanno a proseguire gli studi, e spesso a insegnare, altrove). Eppure è un investimento. Perché sia che restino, a formare il nerbo delle classi dirigenti senza nemmeno aver pagato il costo della loro educazione (costo semmai sostenuto dai paesi di provenienza), sia che tornino, e diventino classe dirigente nei loro paesi, con un forte attaccamento al nostro e reti di relazione e affinità culturale, il guadagno è evidente, persino in termini meramente economici, di interscambio, di bilancia commerciale. Come lo è nel formare giovani generazioni nate qui.

Anche tra gli stranieri, tuttavia, non ci sono solo o studenti o lavoratori: secondo l’Istat, il 15,8% dei cosiddetti Neet (Not in employment, education or training), coloro che né studiano né lavorano, sono stranieri: più degli italiani rispetto al peso della popolazione nella stessa fascia di età. Sono in questa condizione il 24,7% degli italiani, il 34,6% degli stranieri comunitari e il 35,9% degli stranieri non comunitari. Ma con forti differenze per nazionalità: sono Neet il 56,3% dei provenienti dal Bangladesh, il 50,5% dal Marocco, il 49,3% dalla Tunisia, il 48,4% dall’Egitto: con una prevalenza quindi di paesi musulmani, anche se non sapremmo dire quanto la religione sia un fattore esplicativo. Sono invece Neet solo il 18,5% dei cinesi, il 20,1% dei peruviani, il 21,2% dei filippini: che trovano evidentemente un maggiore supporto dalle loro reti di conoscenza e dal capitale sociale e relazionale di cui sono portatori. La percentuale di Neet è maggiore tra le donne, il 67,3%: mentre tra italiani le percentuali sono invertite, e sono maggioritari, con il 50,3%, i Neet maschi – per questioni culturali e familiari, legate ad alcune nazionalità in particolare.

Dai dati Pisa-Ocse 2012 risulta anche che l’Italia è tra i paesi con un maggiore divario tra i risultati scolastici di nativi e immigrati: segno che non sono un destino, e che le politiche educative di un paese, e i suoi investimenti in materia, possono risultare decisivi nel determinare successo o insuccesso dell’integrazione scolastica. Va anche detto che l’Italia è in buona compagnia: oltre ai prevedibili Spagna e Grecia, risultano tra i paesi con divario maggiore anche Svezia e Norvegia, spesso portati ad esempio per altri loro successi nel campo dell’integrazione.

Inoltre osservazioni impressionistiche, non ancora supportate da sufficienti dati statistici (ma lo sono nell’esperienza di altri paesi di immigrazione), mostrano che nelle scuole superiori e nelle università sia minore l’incidenza percentuale degli immigrati rispetto alla popolazione immigrata totale, ma sia spesso maggiore la motivazione alla riuscita, e quindi la propensione a – e la capacità di – ottenere buoni risultati, almeno per quella che, comunque, allo stato attuale delle cose, è un’élite. È chi è già garantito che ha meno bisogno di ottenere buoni risultati, anche se spesso viene adeguatamente sostenuto dalle famiglie nell’ottenerli; mentre chi parte da posizioni più sfavorevoli è maggiormente spinto ad utilizzare anche l’istruzione come forma di mobilità sociale, nonostante il minor supporto da parte delle famiglie (e sappiamo che non sempre è così).

6. «Sine schola nulla salus»

Gli studenti non nati in Italia costituiscono un importantissimo valore aggiunto per le politiche di integrazione: non solo loro personali, ma anche per le loro famiglie. È noto anche dall’esperienza del corpo docente come gli studenti di origine straniera che sanno meglio l’italiano e conoscono meglio i meccanismi di funzionamento della società (e, banalmente ma non secondariamente, taluni meccanismi burocratici) agiscano anche come mediatori culturali, e più concretamente come traduttori linguistici, anche per i loro genitori, in particolare per le madri, che spesso non sono presenti nel mercato del lavoro e vivono quindi, specie in alcune culture, condizioni di maggiore isolamento. Spesso proprio attraverso i figli in età scolare si è riusciti a coinvolgere anche le madri in corsi di lingua, ma anche percorsi di scambio culturale, magari attraverso la valorizzazione delle diverse culture gastronomiche, di educazione alla sessualità, ed altro ancora: consentendo loro di imparare, ma anche di socializzare con altre donne, anche di altri paesi, e favorendo la costituzione di importanti reti di relazione.

Inoltre le competenze linguistiche e culturali più carenti (specie per i non nati in Italia), se nel breve termine possono talvolta produrre difficoltà e ritardi, come si è visto, nel medio termine sono risorse che potranno essere attivate dagli interessati, offrendo loro un valore aggiunto da spendere nel mercato sociale e in quello del lavoro, ma utili anche al sistema-paese, che potrà beneficiare non solo delle loro conoscenze linguistiche – strategiche quanto poco studiate in Italia – ma anche della conoscenza delle realtà e dei paesi d’origine loro o dei loro genitori, e di una maggiore sensibilità verso le tematiche transnazionali e della mobilità. Una ricchezza che in Italia non si è ancora imparato a valorizzare. Ecco perché le scelte di intervento e gli investimenti, anche nel supportare forme di mediazione culturale e linguistica laddove necessaria, sono fondamentali, e vanno considerati spesa produttiva, non spesa improduttiva – investimento, non spreco.

Oltre tutto noi vediamo la scuola in questa fase, in cui l’immigrazione è ancora una relativa novità. Ma forse una similitudine, quella con i nativi e gli immigrati digitali, può aiutarci a comprenderne le dinamiche. Gli adulti sono in qualche modo degli immigrati della pluralità culturale, etnica, religiosa. Gli studenti – tanto di origine straniera quanto figli di italiani – sono invece dei nativi della pluralità: il mondo culturalmente plurale è molto naturalmente il loro, perché è quello che hanno vissuto; e anche una certa propensione alla mixité relazionale, e al meticciato culturale, diventa un dato acquisito, esperienziale e fattuale prima ancora di essere eventualmente teorizzato. L’integrazione sui banchi di scuola avrà quindi degli effetti integrativi di lungo termine su tutta la società. Ciò offre una certa legittimazione e dà una singolare pertinenza al ragionamento che si sta facendo nelle proposte di cambiamento della legge sulla cittadinanza: dove si suggerisce di passare, più che da uno ius sanguinis sostanziale a uno ius soli temperato, verso una sorta di ius scholae, in cui la cittadinanza possa essere acquisita da tutti coloro che hanno compiuto un ciclo scolastico nel nostro paese; assumendo che sia questo, più e prima ancora che il compimento della maggiore età, ciò che attesta un percorso di integrazione e i mezzi per portarlo a buon fine.