Abbiamo già detto che è sbagliato pensare agli stranieri come a un’entità immobile e immutabile. All’opposto, gli stranieri a poco a poco diventano così simili ai nativi da confondersi con loro. Questo processo di assimilazione (diventare simili) – che può essere particolarmente rapido per i giovani, specialmente se nascono nel paese di arrivo o vi giungono in tenera età, e se la loro vita si svolge in stretto contatto con i coetanei autoctoni – sta avvenendo anche in Italia, come dimostrato anche da Itagen2, la prima ricerca quantitativa nazionale statisticamente rappresentativa su 10.000 ragazzi stranieri e 10.000 ragazzi italiani di età 11-14 anni, frequentanti le medie inferiori, residenti in zone dove vivono molti immigrati. Riprendiamone brevemente i principali risultati, considerando alcune dimensioni fondamentali per la costruzione della vita di relazione di un preadolescente: amicizia, tempo libero, religione, atteggiamento verso il futuro. Quest’ultimo aspetto viene considerato guardando sia al modo generale di atteggiarsi nel mondo (di tipo attivo o fatalista), sia alle aspettative verso la famiglia, la scuola, il lavoro. La caratteristica fondamentale su cui osserviamo questi aspetti della vita dei preadolescenti stranieri è il tempo d’arrivo in Italia. Vediamo come la somiglianza fra ragazzi italiani e stranieri cresce al diminuire dell’età di arrivo in Italia e come le seconde generazioni propriamente dette – i figli di stranieri nati in Italia – sono simili ai coetanei italiani. Vediamo anche se i giovani figli di stranieri assomigliano di più ai figli dei lavoratori manuali italiani, ossia a quelli della classe sociale a cui appartengono – quasi sempre – anche i loro genitori.
Quasi tutti i ragazzi figli di immigrati hanno almeno un amico italiano, ma – com’era facile immaginare – la frequentazione extrascolastica di amici italiani è strettamente connessa all’età di arrivo in Italia. Solo il 35% di chi è appena arrivato vede regolarmente gli amici italiani al di fuori dell’ambito scolastico, e questa percentuale cresce al diminuire dell’età d’arrivo, arrivando al 76% per gli stranieri nati in Italia, un valore identico alla media dei coetanei italiani, omogeneo per titolo di studio dei genitori. La situazione è molto diversa per le amicizie con stranieri. Solo un ragazzo italiano su quattro frequenta regolarmente amici stranieri, contro quasi uno straniero su due. Una situazione simile si osserva per la risposta alla domanda sulla prevalenza di amici italiani o stranieri, anche se la grande maggioranza degli stranieri nati in Italia e – in misura minore – immigrati in tenera età, ha prevalentemente amici italiani.
L’88% degli stranieri e il 95% degli italiani considerano gli amici di classe molto o abbastanza importanti, e i ragazzi stranieri nati in Italia stringono amicizie in classe in misura simile o superiore rispetto ai coetanei italiani. Ma anche chi è giunto in Italia in età 1-4 o 5-9 anni trova nei compagni di classe un importante riferimento relazionale. Solo i nuovi arrivati mostrano valori inferiori, ma potrebbe essere una condizione transitoria. Queste risposte indicano il ruolo multifunzionale della scuola dell’obbligo italiana, vero veicolo di integrazione e di accoglienza per i giovani stranieri.
Le caratteristiche appena illustrate delle relazioni di amicizia intessute dai giovani stranieri valgono a prescindere dal luogo di origine dei loro genitori. Tuttavia, la rapidità della creazione di una rete di amici italiani, la ricchezza e la solidità della rete stessa sono influenzate dal luogo di provenienza. Per i ragazzi originari dell’Europa dell’Est e dell’Albania, stabilire solide relazioni con i coetanei italiani è semplice e rapido. Anche chi viene dall’America Latina o dai paesi africani diversi dal Marocco non sembra avere molti problemi. Al contrario, i giovani marocchini e asiatici trovano maggior difficoltà nell’uscire dalla cerchia etnica e dal muro delle difficoltà linguistiche. Singolare è la situazione dei giovani cinesi, che anche se sono in Italia da molti anni tendono a mantenere una forte chiusura comunitaria. Ad esempio, solo il 31% dei ragazzi cinesi giunti in Italia prima del decimo compleanno si vede ‘spesso o molto spesso’ fuori scuola con gli amici italiani, contro il 70% della media degli stranieri.
Per i preadolescenti, il tempo libero extrascolastico è un elemento fondamentale di integrazione e di costruzione della vita di relazione. Per tutti gli aspetti qui considerati, al crescere dell’età all’arrivo in Italia diminuiscono per i giovani stranieri le opportunità di impiego del tempo libero. Gli stranieri socializzati in Italia godono di possibilità praticamente identiche a quelle dei coetanei italiani. Le maggiori differenze si osservano per i ragazzi giunti in Italia dopo il decimo compleanno, specialmente se sono appena arrivati. Tuttavia, anche per i nuovi arrivati le opportunità di trascorrere piacevolmente il tempo libero non sono affatto rare: il 42% si allena regolarmente in una squadra sportiva, il 78% possiede una bicicletta, il 76% possiede più di cinque libri non scolastici, e così via.
Anche su questi aspetti l’origine fa la differenza. Spicca ancora la condizione ‘deprivata’ dei ragazzi cinesi – anche se in misura meno disastrosa rispetto alle reti di amicizia interculturali – e quella più positiva dei giovani provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Albania, dai paesi dell’Africa diversi dal Marocco, e questa volta anche dai paesi asiatici diversi dalla Cina. I ragazzi marocchini sono sfavoriti per le dimensioni connesse alla cultura ‘scolastica’ (sono agli ultimi posti per il possesso di libri), mentre per gli altri aspetti hanno risultati simili alla media degli altri stranieri.
Infine, vi sono notevoli differenze nell’abitudine a ritrovarsi per riunioni e feste collettive a carattere ‘etnico’. Anche su questo aspetto, i più refrattari sono i cinesi, che non sembrano in questo modo ‘compensare’ i minori contatti con i coetanei italiani. I maggiori tassi di partecipazione si osservano fra chi proviene dall’America Latina, dagli Stati asiatici diversi dalla Cina (Filippine e subcontinente indiano) e dagli Stati africani diversi dal Marocco (specialmente Ghana, Nigeria, Senegal e Tunisia). Comunque, in generale, diversamente da come si poteva immaginare, non ci sembra che l’usanza di ritrovarsi per feste ‘etniche’ sia particolarmente diffusa, visto che neppure un ragazzo straniero su tre afferma di parteciparvi con una certa regolarità.
A mano a mano che le società diventano più ricche e meno raccolte attorno ai tradizionali riferimenti comunitari, diminuisce il numero di persone che costruisce attorno alla religione i suoi principali riferimenti di valore, mentre parallelamente si indebolisce il ruolo istituzionale delle istituzioni religiose, nonché la loro capacità di condizionare il comportamento dei singoli e delle comunità. Se quanto detto è vero, ci aspettiamo che fra i giovani che provengono dai paesi in via di sviluppo i riferimenti religiosi siano più forti che fra i giovani italiani. Tuttavia, molti giovani stranieri provengono dall’Europa dell’Est e dalla Cina, ossia da paesi dove – nei decenni passati, e in Cina ancora oggi – le religioni sono state attivamente combattute o comunque non favorite dallo Stato. Quindi, è possibile che fra molti uomini e donne stranieri oggi in Italia, i riferimenti religiosi siano stati deboli ancor prima che lasciassero il loro paese, e che i loro figli siano cresciuti privi di un’educazione religiosa. Inoltre, a migrare per primi potrebbero essere proprio quelli più vicini culturalmente alla realtà di arrivo (la cosiddetta ‘socializzazione anticipatoria’), e quindi tendenzialmente meno religiosi.
La religione è assai rilevante nella vita dei preadolescenti italiani e stranieri. Solo il 15% dei ragazzi italiani e il 14% dei loro coetanei stranieri non attribuisce alcuna importanza alla religione, mentre più del 30% degli italiani e degli stranieri considera la religione molto importante per riuscire nella vita. Le differenze fra italiani e stranieri non sono troppo rilevanti, a nostro avviso anche perché in Italia molti sforzi della Chiesa cattolica sono indirizzati proprio verso i preadolescenti, che fino a una certa età rispondono con una frequenza relativamente sostenuta ai riti religiosi e alle attività proposte, come la catechesi preparatoria al sacramento della cresima, i gruppi scout, i campi scuola estivi, la frequenza all’ora di religione cattolica a scuola.
Il 41% dei ragazzi stranieri appena arrivati in Italia, attribuisce molta importanza alla religione, contro il 30% dei giovani stranieri nati in Italia. Tuttavia, anche tra questi ultimi la religione è ben lungi da perdere di rilevanza, poiché il 58% di essi attribuisce alla religione molta e abbastanza importanza per riuscire nella vita.
La rilevanza attribuita alla religione e la connessione fra religiosità e tempo di arrivo variano molto per paese di provenienza. Spicca lo scarso peso attribuito alla religione dai ragazzi cinesi e albanesi, ma anche – un po’ a sorpresa – da quanti provengono dall’America Latina. Ma colpisce soprattutto la forte connessione fra religiosità e tempo d’arrivo in Italia fra i giovani africani (specialmente fra i marocchini) e fra chi proviene da paesi asiatici diversi dalla Cina, ossia proprio fra coloro che appartengono a quelle società che attribuiscono una maggiore centralità al fattore religioso. Ad esempio, i ragazzi marocchini convinti che nella vita sia molto importante essere religiosi sono il 58% fra chi è appena arrivato in Italia, ma solo il 30% fra chi è nato in Italia o vi è giunto prima del terzo compleanno.
Quindi, se la religione può contribuire a mantenere accesa fra gli immigrati la fiammella dell’identità e della cultura del paese di origine, per la generazione degli attuali preadolescenti, questa fiammella tende presto a indebolirsi, se messa a contatto con una società secolarizzata.
Un’altra differenza fra società tradizionali e società economicamente sviluppate – parzialmente collegata ai discorsi appena affrontati sulla religione – riguarda l’atteggiamento verso il futuro. Nelle società tradizionali ci si potrebbe aspettare il prevalere di posizioni più fataliste, perché il destino delle persone è più soggetto al caso (al tempo atmosferico, alle malattie, ecc.), e alle caratteristiche ascritte (come la famiglia di nascita, la casta o il gruppo di appartenenza). Al contrario, nelle società ricche, dove l’accesso a ruoli di responsabilità passa quasi necessariamente per l’istruzione formale, le persone dovrebbero avere una maggior consapevolezza della possibilità di migliorare il loro status, e della responsabilità di ogni individuo nell’essere faber fortunae suae. Se quanto detto è vero, si può supporre che fra i giovani stranieri, specialmente fra quelli appena giunti in Italia, siano più diffusi atteggiamenti fatalistici, mentre fra i giovani italiani prevalgano atteggiamenti di tipo attivo. Di nuovo, ci attendiamo che gli stranieri siano tanto più simili agli italiani quanto prima sono arrivati in Italia.
In effetti, fra i giovani stranieri appena giunti in Italia gli atteggiamenti più fatalisti sono maggiormente diffusi e gli atteggiamenti attivi meno ricorrenti. Al contrario, i giovani stranieri nati in Italia condividono le posizioni espresse dagli italiani o hanno atteggiamenti ancora più attivi. Queste differenze sono particolarmente accentuate per la domanda forse più significativa per il futuro dei giovani intervistati, quella sull’importanza dell’istruzione per riuscire nella vita. Solo il 56% dei giovani stranieri appena arrivati risponde in modo affermativo, ma tale proporzione cresce rapidamente al diminuire dell’età d’arrivo, raggiungendo l’81% fra gli stranieri nati in Italia. Per quest’ultimo gruppo le risposte a questa domanda sono le stesse osservate fra i giovani italiani con i genitori mediamente istruiti, superiori rispetto ai giovani italiani con i genitori non istruiti (77%) e inferiori solo a chi ha i genitori molto istruiti (85%).
Sono, questi, indizi rilevanti sulla consapevolezza acquisita dai giovani stranieri (e – presumiamo – anche dai loro genitori) relativamente all’importanza dell’istruzione formale per compiere percorsi di mobilità sociale ascendente all’interno della società italiana.
L’idea che i preadolescenti hanno del loro futuro familiare e lavorativo assomiglia probabilmente più al «vago avvenir» della Silvia leopardiana che a un preciso progetto di vita. Tuttavia, lo studio di questi aspetti è lo stesso interessante, perché le risposte date dai ragazzi su queste tematiche sono lo specchio del milieu familiare e sociale in cui essi hanno vissuto.
Itagen2 cerca di comprendere se gli intervistati siano più orientati verso la famiglia o verso il lavoro mediante tre domande. La prima è: «Quanti figli ti piacerebbe avere?». L’ipotesi è che chi desidera un alto numero di figli preferisca investire più sulla famiglia che sulla vita lavorativa. Abbiamo poi chiesto ai ragazzi di leggere la seguente frase: «Laura dice: per una donna, la cosa importante è incontrare l’uomo giusto, sposarlo e avere una bella famiglia. Paola dice: per una donna, la cosa più importante è studiare e trovare un lavoro», scegliendo in modo ‘secco’ fra la posizione di Laura e quella di Paola. Infine, ogni intervistato ha dovuto esprimere il suo grado di accordo sull’affermazione: «È meglio un lavoro pagato male, ma vicino ai genitori, che pagato meglio, ma lontano da casa».
L’ipotesi di partenza è che gli stranieri provenienti dai paesi in via di sviluppo siano più orientati verso la vita familiare e una maggior fecondità perché in questi paesi le donne sono più spesso mogli e madri e la fecondità è ancora relativamente elevata. In particolare, ci aspettiamo che chi proviene da paesi a più alta fecondità desideri un numero maggiore di figli e che gli italiani con genitori più istruiti siano anche più orientati verso il lavoro piuttosto che verso la famiglia e i figli.
I risultati sono del tutto diversi dalle nostre aspettative. Prima di tutto, non è vero che i giovani stranieri vogliono avere più figli di quelli italiani, anzi è vero piuttosto il contrario. In secondo luogo, non è vero che i gruppi con più fratelli vogliono anche avere più figli: gli stranieri – i cui genitori hanno in media 2,80 figli – vorrebbero averne 1,98, ossia 0,82 figli in meno. Gli italiani, invece, i cui genitori hanno 2,37 figli, vorrebbero averne 2,16, con uno scarto di 0,21, molto inferiore rispetto a quello osservato per gli stranieri. Anche su questa dimensione, gli stranieri nati in Italia si comportano in modo simile ai coetanei italiani.
Infine, anche il tempo d’arrivo in Italia opera in modo inatteso. Al crescere dell’età d’arrivo, diminuisce per gli stranieri il numero di figli desiderato, e aumenta lo scarto con il numero di figli dei genitori, che per i giovani appena arrivati è prossimo all’unità. Questo risultato può essere forse spiegato alla luce dell’esperienza di questi giovani, spesso protagonisti di vite trascorse nella solitudine delle famiglie spezzate.
Anche questi risultati sono diversi secondo il luogo di provenienza dei giovani stranieri intervistati, di nuovo in modo per noi inatteso. Nei paesi o gruppi di paesi extraeuropei da noi considerati – con l’eccezione della Cina – la fecondità è assai superiore a quella italiana. Ebbene, proprio in questi paesi il numero di figli desiderato è assai inferiore rispetto al numero di fratelli, e questo scarto cresce fortemente al crescere dell’età di arrivo in Italia, sia perché i nuovi arrivati appartengono per lo più a famiglie più numerose, sia perché desiderano, loro stessi, un numero inferiore di figli. Il caso ‘estremo’ è quello del Marocco. I preadolescenti marocchini appena giunti in Italia appartengono, mediamente, a famiglie di 3,98 fratelli, ma per loro desiderano solo 1,81 figli, ossia due figli in meno rispetto ai loro genitori, ma anche 0,35 figli in meno rispetto alla media dei coetanei italiani.
Come interpretare il radicale scostamento di questi risultati dalle ipotesi di partenza? È opportuno riandare alle interpretazioni classiche sui meccanismi sottostanti alle prime fasi del declino delle nascite, quando le coppie abbandonano la fecondità non controllata. Questo fenomeno – avviatosi nelle regioni italiane fra fine Ottocento e la prima metà del Novecento, e che ora investe pienamente molti Stati da cui provengono gli attuali immigrati verso l’Italia – si innesca quando le coppie si rendono conto che, diminuendo la prole, possono vivere meglio e, specialmente, possono garantire ai figli già nati un futuro migliore, mediante processi di mobilità sociale ascendente realizzati anche grazie all’accesso all’istruzione formale. Le ricerche hanno mostrato che in questa fase, per gran parte delle coppie, la fecondità realizzata è maggiore rispetto a quella desiderata, sia perché la volontà di ridurre la prole matura ‘in corso d’opera’, sia a causa della scarsa dimestichezza con i metodi di controllo delle nascite.
È possibile che i giovani stranieri respirino in famiglia questo clima culturale, e che vedano un numero eccessivo di figli come un ostacolo a quella mobilità sociale ascendente che è poi il fine ultimo dei sacrifici affrontati – da loro e dai loro genitori – con lo sradicamento migratorio. Inoltre, in un contesto come quello italiano, con scarsi servizi verso la famiglia con figli e con assegni familiari e sgravi fiscali molto contenuti, i giovani preadolescenti stranieri potrebbero anche dar molto peso alle difficoltà affrontate dai loro genitori nel conciliare il lavoro e la cura dei figli, potendo raramente contare su una rete di solidarietà primaria, costituita in primo luogo dalla famiglia allargata e dalla parentela.
L’orientamento dei giovani figli di immigrati verso la ‘carriera’ piuttosto che verso la famiglia emerge anche dalle risposte alla seconda domanda posta su queste tematiche. Di nuovo, le aspettative iniziali vengono smentite, perché sono i giovani italiani (e le giovani italiane) a preferire la donna ‘angelo del focolare’, e la scelta verso la ‘donna in carriera’ è ancora più spinta per le ragazze e per gli immigrati appena giunti in Italia, con la sola eccezione dei ragazzi provenienti dal Marocco. Le nostre ipotesi sulla ‘linearità’ del processo di modernizzazione trovano invece qualche conferma nella terza domanda posta su queste tematiche. Gli stranieri accetterebbero meno volentieri un lavoro meglio pagato, ma lontano da casa, e questa caratteristica è più accentuata fra chi è appena giunto in Italia, a prescindere dal luogo di provenienza. Tuttavia, questo risultato potrebbe essere dovuto alla nostalgia ancora forte dei legami spezzati con lo spostamento e al desiderio, per i nuovi arrivati, di mantenere contatti stretti con i genitori, in un contesto di vita ancora nuovo.
Per ognuno dei tre aspetti qui sondati, si realizza comunque un processo di convergenza fra i figli degli immigrati e i figli degli italiani, in linea con l’ipotesi di assimilazione formulata all’inizio di questo capitolo. Infatti, le risposte degli stranieri si avvicinano sistematicamente a quelle degli italiani al diminuire dell’età di arrivo in Italia.
Com’è facile immaginare, quasi nessuno dei preadolescenti vorrebbe fare i ddd jobs. La grande maggioranza di loro vorrebbe fare l’ingegnere, il dottore, il manager, oppure l’artigiano specializzato (oltre – naturalmente – agli aspiranti calciatori o alle aspiranti modelle). Queste prospettive – che per i nostri giovanissimi sono invero assai remote, e quindi sono più sogni che progetti concreti – non si differenziano fra italiani e stranieri, ed è anche simile la quota di italiani e di stranieri che pensa di frequentare l’università. I risultati vanno letti anche alla luce della grande importanza assegnata all’istruzione e all’istituzione scolastica dai giovani preadolescenti stranieri (con l’eccezione, di nuovo, dei giovani figli di cinesi). I giovani stranieri – e con tutta probabilità anche i loro genitori – puntano molto sulla scuola italiana come veicolo per il riscatto sociale; inoltre, le possibilità di profondi contatti fra ragazzi e adulti di diversa provenienza fanno della scuola interclassista italiana un vero e proprio melting pot interculturale. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il problema è che non sempre l’istituzione scolastica è all’altezza di queste attese, e in particolare non sempre è in grado di fornire ai ragazzi stranieri gli strumenti culturali per realizzare pienamente le loro alte aspettative di mobilità sociale.
Un primo segnale del forte iato fra desideri e possibilità è nelle risposte a una questione concernente il futuro prossimo, ossia la scuola superiore che i nostri intervistati pensano di frequentare. Innanzitutto, per gli italiani si confermano le note grandi differenze di classe, con la quota di chi pensa di frequentare il liceo doppia fra i figli di genitori molto istruiti (69%) rispetto ai figli di genitori poco istruiti (34%). Per gli stranieri, limitiamo il confronto a chi è giunto in Italia prima del quinto compleanno, in modo da evitare che le risposte siano condizionate dalla scarsa conoscenza del sistema scolastico, da prospettive residenziali e migratorie ancora non del tutto definite e da oggettive difficoltà linguistiche. Le differenze secondo il paese di provenienza non potrebbero essere più ampie. Ancora una volta, spicca la posizione isolata e problematica dei giovani figli di cinesi, tra i quali gli incerti sono molto numerosi (il 46%), e meno di un giovane su cinque pensa di iscriversi al liceo. Per tutte le altre provenienze, gli incerti oscillano fra il 25% e il 30%, valori in linea con quelli degli italiani con genitori poco istruiti. La quota degli aspiranti liceali oscilla fra il 50% di chi proviene da paesi asiatici diversi dalla Cina e il 35% dei giovani figli di marocchini. Su questa dimensione, gli stranieri di diversa provenienza (con l’esclusione dei cinesi) sono in una posizione intermedia fra i figli degli italiani con basso e medio titolo di studio.
Il principale risultato di Itagen2 è che – per le dimensioni finora sondate di costruzione della vita di relazione – i giovani stranieri socializzati in Italia sono molto simili ai coetanei italiani, specialmente a quelli appartenenti a classi sociali basse o medio-basse. Tale contiguità non è limitata a dimensioni esteriori (come i rapporti di amicizia, il modo di trascorrere il tempo libero, le scelte scolastiche), ma si realizza anche per aspetti valoriali intimi: la religiosità, il modo di atteggiarsi di fronte alla vita, i sogni per il futuro, il numero di figli desiderato, il lavoro e i ruoli di genere.
Per tutti questi aspetti, i ragazzi stranieri socializzati in Italia sono assai più vicini ai coetanei italiani che ai coetanei provenienti dal loro stesso paese, ma giunti in Italia da più grandi. Questi ultimi, quando sono preadolescenti, hanno tratti di maggior diversità rispetto ai coetanei italiani. Sono più chiusi nella loro cerchia ‘etnica’, hanno meno possibilità per impiegare il loro tempo libero, sono più religiosi, più fatalisti, ma anche più orientati verso famiglie con meno figli e in cui la donna lavora. Non possiamo dire se anche loro – quando si impadroniranno della lingua italiana, proseguiranno nella carriera scolastica e lavorativa, irrobustiranno le reti di relazione con i coetanei non provenienti dal loro paese, acquisteranno dimestichezza con la nostra società – diverranno simili ai coetanei italiani, oppure se manterranno alcune peculiarità del loro paese di provenienza. Tuttavia, verosimilmente, questi ragazzi seguiranno percorsi almeno in parte diversi, proprio perché la loro socializzazione primaria è avvenuta al di fuori del contesto italiano.
Alcuni gruppi – in particolare i giovani marocchini – ricevono dalle famiglie un sostegno culturale ed economico assai più debole rispetto ai figli di stranieri provenienti da altri paesi (come i romeni e i filippini), e presumibilmente faranno più fatica a realizzare le loro aspettative. Ma la maggior eccezione rispetto all’assimilazione sono i giovani figli di cinesi, che continuano a vivere in una società parallela, rispondente quasi a un modello di autosegregazione etnica. Questo fatto – proprio per la sua unicità – potrebbe essere legato a fattori culturali, come si può dedurre anche da alcune frasi tratte dall’intervista di un giovane cinese di 23 anni, appena diplomatosi con 100/100, che, pur essendo un immigrato di ‘successo’, e pur essendo in Italia da otto anni, si relaziona prevalentemente con altri cinesi:
Tra i coetanei frequento soprattutto i cinesi perché è più comodo e poi ci sono alcuni vecchi amici che sono venuti anche loro in Italia e ci teniamo in contatto e ogni tanto vado a trovarli, anche se sono un po’ lontani (...). Mio fratello è sposato con una cinese e non ha mai avuto ragazze italiane: da questo punto di vista i miei genitori ci hanno lasciato molto liberi di scegliere. Se immagino il mio futuro lo immagino con una ragazza cinese, perché mi sento ancora molto legato alla Cina (...). Mi sento cinese perché la mia infanzia l’ho passata là (...). In casa parliamo solo cinese, perché è la lingua che tutti conosciamo e parliamo meglio: mia mamma non parla quasi per niente italiano e mio padre pochissimo (...). A casa mangiamo cinese. La famiglia è come se fosse una piccola Cina, perché parliamo cinese, mangiamo cinese (...). Non abbiamo il satellitare, ma mio zio sì, però è lontano e non andiamo mai a vedere la tele da lui: le notizie sulla Cina le trovo su internet perché in casa abbiamo il computer e navigo sui siti cinesi. Poi ci sono i giornali: adesso in Italia si distribuiscono quattro giornali cinesi, che però a M. arrivano solo per abbonamento (...). I cinesi fanno tutti le stesse cose perché hanno forti legami tra di loro e anche perché sono un gruppo un po’ chiuso. C’è anche molto spirito di imitazione.
Un altro risultato importante e di intensità – almeno per noi – sorprendente è il forte orientamento ‘carrieristico’ dei giovani stranieri appena giunti in Italia. L’idea che il ragazzo proveniente da paesi poveri e prolifici sia a sua volta portatore di un ideale di famiglia numerosa e di ruoli femminili tradizionali è smentita dai fatti. Le migrazioni sono innanzitutto grandi processi di selezione, alimentati – in primo luogo – da forti aspirazioni alla mobilità sociale. Forse, proprio questo carattere dei migranti è il primo strumento d’integrazione, insito nella natura economica di gran parte delle migrazioni verso l’Italia. È un risultato che fa ben sperare – in una prospettiva più generale – perché la società italiana non potrà che giovarsi della grande ‘ansietà di miglioramento’ portata in dote dai nuovi cittadini che vengono da lontano.
Sempre che, naturalmente, le aspirazioni possano effettivamente diventare realtà. Purtroppo, come abbiamo visto in dettaglio nel capitolo dedicato alla scuola, nuove disuguaglianze, secondo il luogo di provenienza dei genitori, si sovrappongono a quelle vecchie, secondo il livello culturale e la dimensione della famiglia. I giovani stranieri, un po’ meno quelli nati in Italia, hanno risultati scolastici sensibilmente peggiori rispetto ai coetanei italiani. Vengono bocciati e lasciano la scuola molto più di frequente rispetto ai figli degli italiani, prendono voti più bassi, si iscrivono a scuole più professionalizzanti. Questo è un grosso problema per l’Italia, perché – come è accaduto in altri paesi – se i giovani stranieri non avranno a disposizione risorse per raggiungere una posizione sociale migliore dei loro genitori, potrebbero sviluppare forme di opposizione, rancore e antagonismo verso la società ospite e le sue regole.