Quello del tasso di criminalità degli stranieri è argomento controverso e spesso strumentalizzato. Da un lato, ha solidi fondamenti statistici, ed è uno degli argomenti fondamentali per costruire la paura dello straniero. Dall’altro, comporterebbe alcune specificazioni che normalmente vengono sottaciute: offrendo di fatto un’interpretazione imprecisa se non sviante dei dati. È il caso allora di affrontarlo offrendo qualche elemento di chiarificazione.
Gli stranieri delinquono più degli autoctoni? Se si guardano i dati a disposizione, sulle denunce e sulle presenze in carcere, la risposta non può che essere: sì, senza ombra di dubbio. Fin qui è la parte facile. La parte difficile è quella di contestualizzare il fenomeno, oltre che di spiegarlo. Per scoprire che la risposta potrebbe essere: sì, e anche no.
Non c’è dubbio che tra le prime generazioni di migranti sia individuabile una propensione a commettere taluni reati, non tutti (soprattutto quelli meno gravi, puniti con pene minori), più alta della popolazione autoctona. Il problema è capire se questo pertiene alla condizione di migrante o, per capirci, a quella di marginale, non integrato, deprivato culturalmente e relazionalmente o, per dirla in una parola, più povero. Anche tra gli autoctoni infatti la propensione alla devianza non è omogeneamente distribuita: si distingue, oltre che per aree geografiche, per classe sociale, per livello di istruzione, per età (delinquono in proporzione maggiore le fasce d’età più giovani, che sono sovrarappresentate tra gli immigrati), per livelli di integrazione. E si dà il caso che, tra i neoimmigrati, la collocazione tra gli strati della scala sociale più bassi e meno alfabetizzati, e quindi meno integrati quando non volutamente marginalizzati, sia prevalente. Inoltre gioca un ruolo lo stesso sentirsi ed essere straniero: ognuno di noi, andando all’estero e vivendo anche solo per un breve periodo tra persone che parlano una lingua diversa e alla cui comunità non appartiene, ha provato un certa sensazione di libertà dal controllo sociale. Non per caso spesso è all’estero, o comunque al di fuori del proprio contesto di riferimento, che aumenta la propensione a lasciarsi andare a comportamenti non abituali – che, nel nostro ambiente, non attueremmo: dall’alzare il gomito, alla rissa, alla frequentazione di prostitute, ai comportamenti pedofili e al turismo sessuale, che per definizione si svolge altrove. Non è solo il diminuito controllo sociale, ad essere efficace: è anche l’idea che esso diminuisca, anche solo perché ci si trova tra persone che parlano una lingua diversa, e per questo ci si sente più liberi da freni inibitori. È un meccanismo che si attiva in noi quasi inconsciamente quando viaggiamo in altri paesi; è ragionevole ipotizzare che si attivi anche, per gli stessi motivi, tra gli immigrati come, prima ancora, tra gli emigranti italiani del passato. E che, pure, diminuisca man mano che il mondo in cui si vive viene percepito come proprio, linguisticamente e culturalmente: con il passare degli anni e poi delle generazioni. Come, del resto, ci confermano i dati: sia quelli della nostra emigrazione che quelli dell’immigrazione.
È dagli anni Trenta del Novecento che la sociologia analizza lo straniero come persona senza storia, e quindi più libera di agire scevra da costrizioni culturali: ciò che per alcuni autori ne ha fatto anche il tipo ideale dell’imprenditore capitalista, libero da legami, interessato solo al proprio scopo, legato solo dal rispetto della legge. E nello stesso tempo il legame etnico può essere alla base della costruzione di specifiche associazioni a delinquere, che condividono un sostrato culturale comune: la mafia italiana e quella cinese ne sono popolari esempi, ma fenomeni analoghi sono presenti in molte altre comunità straniere, anche per quel che riguarda la criminalità minorile e le gang giovanili.
In un certo senso è quindi fisiologico che si producano fenomeni devianti in misura maggiore rispetto alla popolazione autoctona. Per fare un esempio, è notorio che tra i nostri emigranti negli Stati Uniti non ci sono stati solo i tanti lavoratori che hanno contribuito allo sviluppo di quel paese, ma anche la mafia, e i nomi leggendari di Al Capone e Lucky Luciano (e quello altrettanto leggendario del poliziotto Joe Petrosino, che ai criminali mafiosi diede la caccia); ma è altrettanto notorio che essi hanno soprattutto caratterizzato la prima generazione di migranti, e solo quelli provenienti da alcune regioni e con un determinato capitale sociale e culturale, ovvero livello di istruzione, classe sociale e altro ancora – cioè quelli con maggiori problemi di integrazione nel nuovo contesto.
Le ricerche condotte in molti paesi ci dicono tuttavia che la tendenza scende con l’aumento del reddito e il ricongiungimento familiare, o comunque la costruzione di nuclei familiari stabili (a dimostrazione che la disponibilità di risorse economiche, culturali e relazionali conta più del passaporto). Se ne potrebbe dedurre che non è tanto la condizione di straniero, ma quella di marginale, e, per dirla con categorie classiche dell’indagine sociale, la povertà materiale, di risorse sociali e di capitale culturale, ad essere determinante. Ciò che si può vedere con grande chiarezza anche nelle carceri, analizzando la presenza in esse degli italiani: sono presenti solo alcune classi sociali e non altre, alcuni livelli di istruzione e non altri, le provenienze da determinati quartieri e non da altri, alcune professioni e molto meno altre. Allo stesso tempo, diversi studi testimoniano una maggior propensione a certi tipi di devianza e criminalità in alcuni gruppi etnici o appartenenze nazionali rispetto ad altri, pur a parità sostanziale di condizione sociale: a conferma che anche le culture di provenienza contano, ma pure si trasformano, e possono farlo in modi differenziati.
Detto questo, ci sono anche condizioni specifiche che vanno analizzate più da vicino. Ma cominciamo dai numeri. Quanti reati sono commessi da stranieri? E quanti sono gli stranieri in carcere?
Cominciamo dalle denunce. Nel periodo 2004-2013, secondo dati forniti dal Ministero dell’Interno (riassunti nel Dossier Statistico Immigrazione 2015 del Centro Studi e Ricerche Idos, da anni il più diffuso strumento di divulgazione statistica sulle tematiche dell’immigrazione), le denunce, nel loro complesso, sono passate da circa 3,2 milioni a circa 3,5 milioni. Molte di esse sono tuttavia contro ignoti: quelle contro autori noti sono passate da 691.860 nel 2004 a 897.144 nel 2013. A differenza di quanto si potrebbe aspettare l’opinione comune, quelle contro italiani sono aumentate da 513.618 a 657.443 (con una crescita del 28% pur in presenza di un leggero calo della popolazione), mentre quelle contro stranieri sono passate da 255.304 a 239.701 (con un calo del 6,2% pur in presenza di un raddoppio della popolazione straniera). L’incidenza delle denunce contro stranieri, pur in calo, resta tuttavia molto elevata: dal 32,5% del 2004 al 26,7% del 2013. Inoltre il 17% delle denunce a carico di stranieri riguarda la normativa sul soggiorno: un reato che, dipendendo dalla normativa vigente, cambia a seconda di essa, e in un certo senso da essa è prodotto; e che gli italiani non potrebbero commettere neanche volendo.
La tendenza in calo si inserisce comunque in un trend europeo. Secondo Eurostat, ancora una volta a dispetto di una percezione e di un dibattito mediatico e politico che propone interpretazioni opposte, i reati sono mediamente in calo nei 28 paesi dell’Unione Europea (del 12% tra il 2003 e il 2012, nonostante l’aggravarsi, negli ultimi anni analizzati, della crisi), anche se alcuni paesi, tra cui Belgio, Svezia e Lussemburgo, sono in controtendenza.
Passiamo ora dalle denunce alle presenze nelle patrie galere. Quanti sono gli stranieri in carcere? Al 31 agosto 2015, ultimo dato disponibile mentre scriviamo, sono 17.304 su un totale di 52.389: ovvero poco più del 33% dei detenuti (giusto per un confronto: sono il 74,2% in Svizzera, il 46,75% in Austria e il 42,3% in Belgio, ma con una media europea del 21%). Un dato evidentemente molto alto, largamente superiore alla percentuale degli stranieri sulla popolazione totale, che secondo l’Ismu, all’inizio del 2015 era del 9,5%, includendo gli irregolari.
Al 30 giugno 2015 erano comunque stranieri il 29,3% dei condannati in via definitiva, ma ben il 39,5% i detenuti in attesa di giudizio e addirittura il 40,7% quelli in attesa di primo giudizio, a testimonianza del fatto che gli stranieri godono molto meno degli italiani della possibilità di usufruire di pene alternative al carcere, il che spiega in parte la loro presenza (del 36,5% di detenuti stranieri che potevano accedere a misure alternative, solo il 20,8% ne ha beneficiato effettivamente, con uno scarto negativo rispetto agli italiani di oltre quindici punti).Tra le altre ragioni, perché spesso gli stranieri, in particolare irregolari, non hanno un domicilio, o non hanno una famiglia presso cui trascorrere gli arresti domiciliari. Inoltre gli stranieri hanno più spesso avvocati d’ufficio, sia per problemi linguistici sia per il livello di istruzione sono meno capaci di comprendere quanto sta succedendo e quindi opporvisi, e sono inoltre oggetto di alcuni pregiudizi, presenti anche tra i giudici così come in tutte le categorie di cittadini italiani. Una parte dei reati, inoltre, ad esempio quelli legati al traffico di droga, in alcuni casi – quelli scoperti negli aeroporti e alle frontiere – sono sì commessi da stranieri, ma al loro arrivo, spesso al loro primo ingresso in Italia: non si tratta quindi di immigrati, regolari o irregolari, ma di viaggiatori stranieri che hanno come meta del loro traffico l’Italia.
Si deduce da questi dati che gli stranieri delinquono più degli italiani? Sì, e anche no. Vediamo perché.
Non c’è dubbio che su alcuni reati la percentuale di stranieri sia molto più alta: in particolare reati contro il patrimonio, reati legati allo spaccio, altre forme di microcriminalità che producono elevato allarme sociale (e qui c’è un altro paradosso percettivo: la grande criminalità, economico-finanziaria e mafiosa, produce molto meno allarme e presenza sulla stampa).
Ci sono gruppi etnoculturali che mostrano una certa ‘specializzazione etnica’ rispetto ad alcuni reati (si pensi ai rom per quel che concerne i furti in appartamento, e ad alcuni gruppi magrebini per lo spaccio). Ma è anche vero che un numero non piccolo di reati è legato alla condizione stessa di stranieri: ovvero sono tali semplicemente perché si è stranieri irregolari – e non lo sarebbero se non lo si fosse (non si applicano infatti ai cittadini). Sono i reati cosiddetti amministrativi, come il mancato rispetto del foglio di via, o la mancanza di permesso di soggiorno: reati legati a una condizione, non a un atto compiuto. A cui si aggiungono spesso reati di ‘reazione’ ai controlli, legati a questa stessa condizione: falsificazione di documenti (falso in atto pubblico) o resistenza a pubblico ufficiale e reati conseguenti (aggressione, rissa, ingiurie e percosse durante i tentativi di fuga e simili).
I dati in questo senso sono chiari: sempre al 30 giugno 2015 gli stranieri erano ben il 42,9% dei detenuti condannati a pene inferiori ai tre anni di carcere, e solo il 5,4% degli ergastolani. Anche se questo non significa che gli stranieri costituiscano solo bassa manovalanza criminale: questo era vero in una prima fase dell’immigrazione. Poi, anche qui, giocano un ruolo importante il tempo e altri fattori di integrazione (anche la criminalità, paradossalmente, può esserlo): per cui in determinati settori, come lo spaccio, il contrabbando, il traffico di manodopera e la tratta, lo sfruttamento della prostituzione, la gestione del caporalato, gli immigrati occupano sempre più spesso anche posizioni di rilievo nelle gerarchie criminali, in termini di riconoscimento e di rendite. Resta però vero che gli immigrati sono più presenti nei furti con destrezza negli appartamenti, nelle rapine di strada, nello spaccio, e molto meno degli italiani nelle rapine a mano armata con obiettivi di rilievo, e ancora meno, per ovvi motivi, nei reati di corruzione o interni alla pubblica amministrazione, e in altri tipi di reati fiscali o finanziari tipici dei crimini dei colletti bianchi.
Un altro dato pare significativo, in termini di interpretazione del fenomeno: anche se non sempre sono accessibili dati disaggregati dettagliati, una gran parte dei detenuti sono in condizione irregolare. Diventa quindi importante, se si vogliono interpretare i fenomeni con rigore, capire se a portarli in carcere è la condizione di straniero o non piuttosto quella di irregolare: il che ci potrebbe dare anche dei suggerimenti in termini di proposte di modificazione normativa e di politiche differenti.
Le nazionalità di provenienza maggiormente presenti in carcere sono comunque note anche per talune specializzazioni criminali: al primo posto troviamo la Romania, al secondo il Marocco, al terzo l’Albania, al quarto la Tunisia e al quinto la Nigeria. Insieme, queste nazionalità contano per oltre il 60% dei detenuti stranieri; mentre altre nazionalità sono rimarchevolmente sottorappresentate rispetto alla loro presenza nel paese, con tassi di presenza in carcere inferiori a quelli degli italiani. Il che dovrebbe spingerci ad articolare il discorso anche rispetto ai paesi di provenienza, alle loro culture e religioni (senza troppo facili generalizzazioni: ad esempio troviamo paesi musulmani sia tra quelli sovrarappresentati che tra quelli sottorappresentati), così come alle provenienze da zone rurali o urbane, e al momento storico e politico che stanno attraversando.
Un discorso a parte merita la devianza minorile. Già negli anni Trenta la sociologia statunitense, in alcune situazioni, notava tassi di delinquenza maggiori nelle seconde generazioni. Gli indicatori in realtà possono andare in entrambe le direzioni, e molto dipende dalle politiche di integrazione e di cittadinizzazione dei diversi paesi, e dal momento storico attraversato.
Di fatto la presenza negli Ipm (Istituti penali per minorenni, i riformati penitenziari minorili) vedeva al 28 febbraio 2015 una presenza di 168 stranieri su 407, pari al 41,3% del totale, in buona parte provenienti da paesi dell’Est europeo e dal Maghreb. Vale per i minori, in misura ancora maggiore rispetto agli adulti, il problema già visto della difficoltà di accedere a pene alternative e in particolare all’assegnazione ai domiciliari, data la mancanza, spesso, della famiglia stessa, o la presenza di genitori irregolari o con domicilio non dichiarato. Ma sono anche in misura minore collocati in comunità, e restano negli istituti mediamente per un tempo più lungo.
L’allarme legato ai minori, oltre a quello legato alle famiglie rom (spesso peraltro in possesso di cittadinanza italiana), è legato a fenomeni come quello delle baby gang e dei reati tra coetanei (bullismo scolastico, furti di modesta entità, estorsioni, minacce, molestie, aggressioni, ma talvolta anche rapina), che destano, comprensibilmente, un forte allarme sociale. Un altro fenomeno di grande impatto è quello delle gang etniche giovanili, alcune di particolare violenza. Il fenomeno non è una novità storica (non a caso il cinema americano, da West Side Story a I guerrieri della notte, ce ne ha mostrate molte versioni, a testimonianza del loro peso, anche sull’immaginario), e spesso si risolve in conflitti interetnici e tra bande straniere stesse, ma in alcuni contesti metropolitani, soprattutto in alcune città del Nord, comincia ad acquisire una certa visibilità, a seguito dell’attività di gruppi come la MS13 (Mara Salvatrucha) salvadoregna, i Latin Kings ecuadoregni, i Comando peruviani, e altri ancora: il fenomeno infatti, iniziato tra i latinoamericani, organizzati in bande transnazionali, ha coinvolto anche giovani dell’Est europeo, nordafricani e asiatici.
Non è ancora un fenomeno cospicuo, in Italia, ma potrebbe peggiorare, anche a seguito del proseguire della crisi e a causa del contesto obiettivamente difficile che vivono molte famiglie immigrate, in cui i figli (spesso di collaboratrici domestiche e badanti, con alle spalle situazioni familiari difficili e presenze in istituto, o di genitori impegnati a lavorare tutto il giorno e che quindi non seguono i figli in famiglia e nel percorso scolastico, per loro più difficile e causa quindi di frustrazione e desiderio di rivalsa) riconoscono l’insuccesso del progetto migratorio e di inserimento dei genitori, e si vedono considerati essi stessi target generalizzato e non accettato delle politiche migratorie e del dibattito mediatico sull’immigrazione.
Tornando alla questione della devianza prodotta da stranieri, meritano considerazione certe ipotesi avanzate in alcuni studi sul tema. La prima è che gli stranieri siano maggiormente presenti anche perché più frequentemente oggetto di controlli, perquisizioni, operazioni mirate. Il dato è difficilmente misurabile, ma non c’è dubbio che le politiche di controllo, a livello locale, normalmente per reati minori e minimi, soprattutto in città governate da forze politiche dichiaratamente anti-immigrati, e andate al potere sulla base di programmi di controllo degli stessi, veda i vigili urbani e le forze dell’ordine più attivi in questo senso.
Va detto però, come ha notato un osservatore come Marzio Barbagli che studia da tempo questi fenomeni, che c’è anche un contesto storico via via peggiorato, in particolare dal 1973, anno dello shock petrolifero e della prima crisi economica: quando si è passati da una immigrazione da domanda, effetto di fattori di attrazione, a una da offerta, effetto di fattori di spinta (push più che pull, per stare alla terminologia anglosassone) – con maggiore presenza irregolare e minore possibilità di inserimento regolare con successo: un fenomeno che la recente crisi dei profughi ha acuito.
Ma non bisogna dimenticare che gli stranieri non sono solo soggetto, sono anche oggetto di devianza e vittime di criminalità. Della criminalità di altri stranieri, innanzitutto: fin dal momento dell’ingresso irregolare, se si è passati per organizzazioni specializzate nel traffico di manodopera o nella tratta, e che può continuare con forme di sfruttamento e di caporalato, ma anche di violenza, di truffa (legate ai documenti, alla disponibilità di alloggio e altro). E della criminalità degli italiani, che si può manifestare in molte forme: dall’alloggio e lavoro in nero (o dalla discriminazione nella ricerca di lavoro e alloggio), al pagamento di retribuzioni più basse e alle violazioni contrattuali, alla violenza sessuale, fino agli atti di razzismo vero e proprio, ai pregiudizi diffusi, all’istigazione all’odio razziale – e alle forme di criminalità legate al business sugli immigrati e all’accoglienza, come hanno mostrato l’inchiesta di Mafia Capitale e altri scandali simili. Sui reati contro gli immigrati la letteratura è molto meno vasta, e forse non a caso. Tra le forme di discriminazione minori possiamo riferirci a quella istituzionale legata a politiche di ordinanze e politiche sociali locali esplicitamente rivolte contro gli immigrati, limitandone ad esempio l’accesso alle risorse di welfare, o non riconoscendone le pratiche religiose. Tra quelle maggiori vi sono invece gli atti di esplicita ostilità e le aggressioni nei confronti di migranti, di profughi, ma anche di comunità religiose e di luoghi di culto, in particolare per quel che riguarda le moschee, fino ad alcuni casi di azioni di gruppo contro immigrati e di omicidi a sfondo razziale. L’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali presso il Ministero dell’Interno, ha raccolto, nel solo 2014, 1193 segnalazioni di casi di discriminazione etnico-razziale, 990 dei quali sono stati giudicati pertinenti (quasi un terzo dei quali riguardano tuttavia l’ambito della comunicazione, come l’incitamento all’odio su media e new media), mentre sono in calo rispetto agli anni precedenti, ed è una notizia certamente positiva, le segnalazioni riguardanti l’ambito del lavoro e dell’alloggio.