7.
I rifugiati non sono un’emergenza

1. Chi sono i rifugiati

Un rifugiato è innanzitutto uno che scappa (da fugere, fuggire; come profugo, del resto): dalla guerra, dalle persecuzioni razziali, etniche, di appartenenza tribale, politiche, religiose, legate all’orientamento sessuale, per quanto riguarda la definizione più stretta e rigorosa. Ma anche da catastrofi climatiche o ambientali, dalla desertificazione e dalla fame. O da una situazione insostenibile, o dalla persecuzione di un capo locale o di un burocrate di partito, che non ti lascia libero, che ti impedisce di svolgere la tua attività, di vedere riconosciuto un tuo diritto. O da una famiglia opprimente, da un marito, un padre o un patriarca dispotico, che ti impedisce anche solo di studiare, di sposare la persona che ami o ti impone un matrimonio forzato. O da un villaggio di cui si è capro espiatorio, dalle cui leggi non scritte e dal cui giudizio non si riesce a sfuggire, da una situazione personale difficile diventata insostenibile. O da ciò che si è fatto una volta e che impedisce un futuro diverso, o da ciò che si è e non si vuole più essere. Uno che scappa, quindi. E che cerca, appunto, rifugio: un posto dove stare, dove essere protetto, dove non rischiare più la vita.

C’è qualcosa che spinge via, e qualcosa, altrove, che attrae, che promette una vita migliore, o anche solo la libertà e l’autodeterminazione: beni del cui valore noi spesso non ci rendiamo più conto perché ci sono dati gratis per il semplice fatto che siamo nati senza merito nel posto giusto, ma che fanno la differenza tra il vivere e l’essere vissuti, tra il decidere e l’essere decisi, tra il contare e l’essere solo contati. E chi scappa auspica di trovarli altrove, lo crede, lo sogna, se va male si illude.

Questo per dire che, certo, c’è una definizione specifica di rifugiato, a cui faremo riferimento. Ma non di rado le motivazioni sono indistinguibili da quelle di un migrante economico, o solo rafforzative, perché si sovrappongono ad esse, si sommano, si saldano l’una con l’altra. C’è un’ampia zona grigia: che rende comunque indispensabile lo sforzo di distinguere, ma rende ugualmente un po’ ipocrita la distinzione rigida, ad esempio, per paesi. Perché, certo, se si è perseguitati in quanto membri di una minoranza di qualunque genere, la cosa è evidente: ma c’è sempre chi perseguitato direttamente non lo è, ma vuole semplicemente andarsene da una situazione che non gli aggrada, che è comunque peggiore di quella che si vive in altri paesi, senza propria colpa e senza ragione.

2. Fondamenti giuridici

La condizione di rifugiato è definita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, un trattato delle Nazioni Unite firmato da 147 paesi. Nell’articolo 1 della Convenzione si legge che è considerato rifugiato «chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Dal punto di vista giuridico-amministrativo è quindi una persona cui è riconosciuto lo status di rifugiato perché se tornasse nel proprio paese d’origine potrebbe essere vittima di persecuzioni.

La Costituzione italiana precede la Convenzione, ma prevede lo stesso principio. L’articolo 10, terzo comma, recita infatti: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Il comma successivo aggiunge poi un principio di grande importanza, necessario corollario del precedente: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici». Come si vede, si tratta di una soglia di tolleranza molto elevata: basti pensare che le libertà democratiche la cui impossibilità di esercizio è condizione sufficiente per chiedere asilo sono quelle garantite dalla Costituzione italiana, notoriamente piuttosto avanzata, e non quelle garantite (anche se magari non praticate) dal paese di provenienza del rifugiato.Come sempre, esiste tuttavia una Costituzione formale e una Costituzione reale. Per oltre quarant’anni non c’è stata alcuna legge che desse attuazione a tale principio: le prime, tardive e incomplete basi alla normativa le ha date la legge 39/1990, più nota come legge Martelli; e, fino ad allora, ci si è aggrappati solo alla Convenzione di Ginevra, cui sfortunatamente l’Italia aveva all’epoca aderito con una clausola restrittiva, la cosiddetta “riserva geografica”, che di fatto ne consentiva l’applicazione essenzialmente ai soli paesi dell’Est europeo appartenenti all’ex blocco sovietico e abolita appunto con la legge citata. Un seme della Guerra fredda che ha continuato a dare i suoi frutti: consentendo, a parità di condizioni, il riconoscimento, poniamo, di un polacco o di un russo, ma non di un cittadino medio-orientale o proveniente dalla nostra ex colonia Eritrea, in situazione di guerra endemica da decenni (e, magari, discendenti degli ascari che avevano combattuto al fianco dell’Italia per i fasti dell’impero).

Va detto però che vi furono varie deroghe, tutte nobili e politicamente e umanamente opportune: dai cileni rifugiatisi nell’ambasciata italiana a Santiago, dopo il golpe del generale Pinochet del 1973, grazie al ruolo coraggioso del personale diplomatico dell’epoca, a quasi un migliaio di boat people vietnamiti raccolti dalle navi della nostra marina nel 1979 nel mar cinese meridionale, tutti ben accolti nel nostro paese, fino a gruppi di afghani, di caldei iracheni, ed altri ancora.

3. Pochi in Europa, pochissimi in Italia: fino a ieri

Il risultato di questo quadro è che l’Italia è stata per svariati decenni uno dei fanalini di coda dell’Europa, quanto a numero di rifugiati presenti sul territorio e al loro trattamento: ancora nell’anno 2000 i permessi di soggiorno per rifugio politico e richiedenti asilo (e si parla di stock, non di flusso) erano poco più di 10.000, e nel 2010 erano 56.000, con circa 10.000 domande presentate in quell’anno, cioè 1 ogni 1000 abitanti (quando in Germania nello stesso anno erano quasi 600.000, nel Regno Unito 240.000, in Francia circa 200.000, e in Svezia la percentuale più alta, 9 ogni 1000 abitanti).

La situazione è però radicalmente cambiata in tempi recenti. Nel solo decennio 2003-2013 le persone di competenza dell’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) sono passate da poco più di 17 milioni a quasi 43 milioni, tra rifugiati, richiedenti asilo e sfollati (la percentuale maggiore). Si tratta di una emergenza umanitaria vera: non si vedevano tanti rifugiati e richiedenti asilo dal 1994, anno del genocidio in Rwanda. Tra questi – tragedia nella tragedia – i minori di 18 anni non accompagnati che, nel 2013, costituivano la metà dei rifugiati.

I dieci principali paesi di provenienza di rifugiati erano nel 2013 l’Afghanistan, la Siria, la Somalia, il Sudan, il Congo, il Myanmar, l’Iraq, la Colombia, il Vietnam e l’Eritrea (i primi tre, da soli, producono oltre la metà dei rifugiati del mondo). Di questi paesi, due sono ex colonie italiane (Somalia e Eritrea): una terza, la Libia, è da dove passano molti dei profughi di oggi – ed è un paese sulla cui distruzione, con le conseguenze che abbiamo visto anche in termini di traffico di esseri umani, l’Italia e ancor più altri paesi europei hanno notevoli responsabilità. I dieci paesi che ospitano più rifugiati nel mondo sono invece il Pakistan (1.616.500), l’Iran (la metà, 857.400), il Libano (altrettanti), e poi a seguire Giordania, Turchia, Kenya, Ciad, Etiopia, Cina e Stati Uniti. Solo se prendiamo in considerazione i primi venti paesi troviamo, a fondo classifica, due nazioni europee, la Francia e la Germania. Se invece prendiamo in considerazione, al posto delle cifre assolute, la percentuale sulla popolazione, la situazione è la seguente: il paese con più rifugiati è il Libano (178 ogni 1000 abitanti), seguono la Giordania (88), il Ciad (34), la Mauritania (24), Malta (spesso accusata di non accettare i migranti: 23), Gibuti (altrettanti), il Sud-Sudan (20), il Montenegro (14), Liberia e Kenya (12). Come si vede, nessun paese europeo. Il grosso dei rifugiati, in sostanza, l’Europa non la vedono nemmeno da lontano: i più del resto sono sfollati nei paesi confinanti con il proprio.

4. Ma oggi sono in aumento: sbarchi e profughi

Nel 2013 l’Europa ha ricevuto 483.600 richiedenti asilo, di cui 398.200 nei 28 paesi dell’Unione Europea, con un incremento sull’anno precedente del 32%. In Italia sono stati 27.800 (primi i nigeriani, con 3500 domande, poi pakistani, somali ed eritrei): + 60% rispetto all’anno precedente, una percentuale doppia rispetto alla media europea (vero è che si partiva da percentuali assai basse); ci sono stati anni in cui ce ne sono stati di più: 34.000 nel 2011, a seguito delle cosiddette primavere arabe. Ma, naturalmente, gli sbarcati – tra i quali solo una parte richiede asilo, e solo una parte tra di essi lo ottiene – sono stati molti di più: 62.691 nel 2011, 13.267 nel 2012, 42.925 nel 2013, 170.100 nel 2014 attraverso 1111 sbarchi intercettati, con un trend crescente negli ultimi anni. E, ragionevolmente, aumenteranno ancora: se ne stimavano 200.000 per il 2015, ma ci sono stati anche gli inaspettati arrivi via terra, per lo più in transito, che hanno contribuito a cambiare le politiche di diversi altri paesi europei.

Le domande di asilo vengono esaminate lentamente, troppo, e comunque non riescono a stare dietro agli sbarchi in tempo reale: a cavallo tra il 2013 e il 2014, su oltre 100.000 sbarcati sono state esaminate solo 35.000 domande – 24.000 circa hanno ottenuto una qualche forma di protezione, tra cui il permesso di soggiorno per motivi umanitari, e quasi 4000 lo status di rifugiato.

Nel 2014 circa 278.000 rifugiati, richiedenti asilo e migranti sono arrivati in modo irregolare in Europa, quasi il 160% in più rispetto al 2013 (107.000). Mentre erano stati 141.000 gli ingressi registrati nel 2011, durante le primavere arabe. Questi dati, forniti dall’Agenzia europea Frontex, sono riferibili chiaramente solo agli arrivi irregolari intercettati dalle forze dell’ordine.

In Italia, le tre regioni che hanno visto un maggior numero di arrivi sono la Sicilia (120.239), la Puglia (17.565) e la Calabria (22.673). Prevalentemente provengono dalla Siria (42.323, circa il 25%), a seguire l’Eritrea (34.329, 20 %), il Mali (9908, circa il 6%) e la Nigeria (9000, il 5,3%). Ci sono poi gli arrivi clandestini, non intercettati. E quelli che non ce la fanno ad arrivare: 3279 migranti morti nel Mediterraneo nel 2014, oltre 2000 stimati nei primi sei mesi del 2015: circa il 2% di quelli che hanno provato ad attraversarlo. Una percentuale enorme: la stessa, come ha notato il demografo Massimo Livi Bacci, degli schiavi morti nella seconda metà del Settecento sulle navi partite dal Senegal e dall’Angola. Mentre, dei salvati, la grande maggioranza deve la sopravvivenza all’essere stata intercettata dalle imbarcazioni dell’operazione navale italiana Mare Nostrum e poi dell’operazione europea Triton. Operazioni, quindi, che hanno letteralmente salvato dalla morte decine di migliaia di vite umane.

5. Che fare?

Il problema dei rifugiati ha finito inevitabilmente per sovrapporsi a quello degli sbarchi, e dei profughi. In parte lo sono, sovrapposti: lo testimoniano i riconoscimenti dello status di rifugiati ottenuti da oltre un terzo delle persone che hanno fatto domanda di protezione internazionale. Ma in parte no, come testimoniano le pratiche che non hanno avuto buon fine, e ancor più coloro che nemmeno hanno presentato domanda: molti per mancanza di requisiti, altri per tentare di ottenere il rifugio politico in un altro paese, con legislazione più favorevole o condizioni di vita e possibilità di lavoro migliori (le regole comunitarie prevedono infatti che la richiesta di asilo politico debba essere fatta, e possa essere accettata, solo nel paese in cui si è entrati – o in cui si è stati scoperti).

Per i rifugiati, occorre non solo suddividerli correttamente sul territorio (cosa alla quale, come noto, alcune regioni, soprattutto del Nord e soprattutto a guida leghista, hanno fatto strenua opposizione), ma migliorare complessivamente il meccanismo di gestione.

Alcune cose vanno fatte a livello europeo: a cominciare dal cambiamento della stessa normativa europea, disciplinata dagli accordi di Dublino nelle loro varie formulazioni; consentendo la mobilità o la ricollocazione sulla base di una equa distribuzione tra paesi; fornendo i dovuti incentivi economici a chi ne accoglie di più; lavorando sulla prevenzione nei paesi d’origine, investendo sulle strategie di contenimento in Niger, in Ciad e altrove, e soprattutto operando per pacificare stabilmente la Libia, le cui coste fuori controllo e in mano ai trafficanti sono diventate il principale punto di partenza degli sbarchi nel Mediterraneo. E, in prospettiva, elaborando una strategia che consideri strutturale e non emergenziale, pianificandolo, l’ingresso di rifugiati e migranti in Europa, in maniera sicura, legale e, appunto, pianificata.

Altre cose vanno fatte a livello nazionale e locale. Tra le prime, accelerare drasticamente la rapidità dell’iter burocratico per il riconoscimento; e consentire per legge al rifugiato di poter lavorare in tempi rapidi, passando così dallo stato di soggetto passivo (che di fatto impedisce un inserimento normale nella società) a quello di soggetto attivo della propria integrazione. E finanziare una seria campagna di cooperazione allo sviluppo e di pacificazione politico-diplomatica dei paesi da cui i profughi provengono, anche per far passare dalle parole ai fatti lo slogan, troppo spesso abusato, dell’«aiutiamoli a casa loro», che pure un senso ce l’ha.

A livello locale occorre accelerare moltissimo l’esame delle pratiche: senza puntare troppo, retoricamente, sul rimpatrio dei non aventi diritto (ci rie­scono poco, a renderlo operativo, anche altri paesi europei: e potrebbe non essere necessario, come abbiamo documentato in altri capitoli). Occorre creare una struttura di accompagnamento degli enti locali, e attuare contestualmente (non dopo: concordandoli prima) dei meccanismi di incentivazione e di compensazione dei Comuni. E soprattutto programmare i flussi, spiegandoli a sindaci e cittadini. In Germania, ad esempio, la struttura centralizzata che li suddivide (il cui rispetto è ferreo, pur trattandosi di paese federale: nessun comune o regione, pur discutendone criteri e quantità, si sognerebbe mai di rifiutarli), programma gli inserimenti in base anche alle tendenze demografiche, dispone di contributi economici e strumentali, e ne spiega agli enti locali i vantaggi di prospettiva, che sono molti (più residenti vuol dire più lavoratori, più consumatori, più bambini nelle scuole e pazienti per i medici, più clienti per i negozi, cioè più posti di lavoro autoctoni, ricchezza e Pil – e in prospettiva più lavoratori per pagare le pensioni a fronte dell’invecchiamento della popolazione). Le associazioni e le cooperative (di fatto, delle aziende) che si occupano della gestione delle emergenze, dovrebbero essere professionalizzate anche su questioni come quelle dell’insegnamento della lingua, del supporto psicologico per persone che sono passate attraverso traumi gravissimi, nei paesi d’origine e nella traversata, dell’assistenza con le dovute specificità di donne e minori, dell’inserimento scolastico e lavorativo, in collaborazione con gli enti locali e il tessuto associativo.

Ma è necessario anche coinvolgere la pubblica opinione, con campagne di informazione dei cittadini, momenti di incontro pubblici, per ottenerne il consenso informato: non si può pensare di creare consenso intorno a operazioni oggettivamente problematiche, senza spendere né un centesimo né alcuna strategia e professionalità comunicativa, o, diremmo meglio, dialogica. E occorre anche saper raccontare gli esempi positivi, le storie di successo e di integrazione, gli esempi riusciti di dialogo con la popolazione, le scuole, il dialogo interculturale e interreligioso. Nonché i fatti, nudi e crudi: il sistema di accoglienza dei rifugiati (le sigle esoteriche di Cara – Centro di accoglienza per richiedenti asilo – e di Sprar – Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), il perché a un certo punto i profughi sbarcati vengono distribuiti sul territorio, chi paga, come si spende. Per esempio i famosi 35 euro al giorno, che vanno alle strutture di accoglienza, e peraltro provengono dall’Europa, e non vengono tolti a nessun altro, tanto meno ai cittadini italiani, perché appartengono a un fondo specifico spendibile solo in questo modo – sono quindi soldi in più che entrano in circolazione e implementano l’economia e l’occupazione locale, non in meno e sottratti a qualcuno.

Bisogna avere il coraggio di dirselo. La questione dei profughi, come l’immigrazione, non è più, se mai lo è stata, una questione emergenziale: è un dato strutturale del mondo globale. E va affrontata come tale. Con strategie, non con parole d’ordine. Con politiche – che come tutte le politiche hanno un costo – non con slogan. Con pragmatismo, non con precomprensioni ideologiche. Lo stesso si può dire della questione numericamente più contenuta, ma intrecciata ad essa, del rifugio politico.

Ricordiamo una definizione ironica del rifugiato, specie politico: «persona che serve il suo paese all’estero, pur non essendo ambasciatore». C’è molto di vero: perché i rifugiati, gli oppositori delle dittature, sono spesso la faccia migliore di un paese, e gli rendono servizio, soprattutto nel dopo – quando le dittature cadono e si torna alla normalità. Oltre che giusto, è un vantaggio occuparsene: le relazioni strette in esilio diventano legami economici, politici, culturali, diplomatici, con il paese che li ha ospitati. Perché, anche questo va detto, i rifugiati politici veri tendono a rientrare nel loro paese, se la situazione lo rende possibile, se non è passato troppo tempo, se gli è rimasto qualcosa: a differenza di altri, loro non se ne sono andati via volontariamente.

Proprio per questo il rifugiato ha il diritto di essere accolto, riconosciuto (solo questo chiede, e di questo si tratta, anche legalmente: di un ri-conoscimento) in maniera diversa rispetto ai migranti economici: perché suo malgrado è portatore di qualcosa di specifico, che lo rende meritevole di una considerazione speciale. E deve avere la possibilità di far conoscere la propria situazione e quella del suo paese, perché appunto così lo serve, aiutando noi nel migliorare la nostra consapevolezza, oltre che le nostre conoscenze, che lui ha, come frutto amaro di esperienza, e che noi non abbiamo (sì, anche queste aumentano grazie alle testimonianze dirette, e possono venir buone politicamente, economicamente e persino militarmente).

Potrà sembrare fastidioso a certe orecchie, ma il rifugiato è un testimone: e, talvolta, porta con sé il destino, la coscienza e il desiderio di riscatto di un intero paese. Non dobbiamo guardare troppo lontano per ricordarcene. Settant’anni fa, in Francia, gli esuli antifascisti perseguitati dal regime hanno costituito l’avanguardia, l’abbozzo di una classe dirigente che è diventata parte della classe dirigente che ha costruito la Repubblica e scritto la Costituzione. Uno di loro, per sopravvivere, lavorò come muratore, e poi tornò nel suo paese. Molti anni dopo sarebbe diventato presidente di uno Stato democratico da cui tanti anni prima, quando quello Stato democratico non era, era dovuto fuggire. Si chiamava Sandro Pertini.