Le società occidentali (e non solo loro, peraltro) sono sempre più plurali: dal punto di vista culturale e religioso, ma più semplicemente, più diffusamente, e più radicalmente, dal punto di vista degli stili di vita (si pensi ai diversi modi di mangiare e di vestirsi oggi possibili), dei progetti di vita, della pluralizzazione dei modelli di riferimento (quelli familiari, ad esempio: non c’è n’è più uno solo valido per tutti).
Di fatto, oggi è possibile vivere in molti modi diversi, seguendo le proprie inclinazioni, cambiandole, differendo dai modelli appresi nella propria famiglia, spostandosi altrove, imparando nuovi modelli e facendoli propri, e così via. Da questo punto di vista, la cifra interpretativa delle società, di tutte le società, non è più l’omogeneità (che è sempre stata relativa, peraltro) e l’immutabilità: al contrario, sono la disomogeneità e il cambiamento – per chi vuole cambiare, almeno; mentre altri continuano a vivere secondo modalità più o meno tradizionali, o che considerano tali (talvolta senza avvedersi che non lo sono più).
Questo consente il formarsi, per scelta e non per nascita, di gruppi – che qualcuno chiama tribù – di persone che condividono gli stessi valori e stili di vita. Ma a differenza delle tribù (o popoli, comunità, ecc.) del passato, in cui si nasceva e si viveva per tutta la vita, queste tribù possono essere scelte, cambiate, mischiate, e se ne può condividere il percorso anche solo per un periodo della propria vita (magari molto coinvolgente, dal punto di vista dei cambiamenti indotti nella persona: ma che è sempre reversibile, e può essere breve). Più o meno, quello che succede nella vita familiare: oggi sempre più caratterizzata dalla scelta e dalla pluralità di modelli potenzialmente da seguire, ma anche dall’instabilità e dal mutamento; e in tanti altri settori, a cominciare dal lavoro.
Questo processo, ampiamente potenziato dallo sviluppo tecnologico e dall’allargamento progressivo della sfera delle libertà e dei diritti, nasce per sviluppo interno di queste società: incluso per quel che riguarda gli aspetti religiosi su cui maggiormente si incentra il dibattito mediatico e politico (scelta di non essere religiosi, conversioni ad altre religioni, sincretismi, scelte religiose temporanee, intermittenti, forme di religiosità fai da te, ecc.). Le migrazioni tuttavia, per i loro numeri e per la velocità dei processi in atto (il cambiamento lento è meno percepito come tale, e ha più tempo per essere introiettato, fatto proprio), rendono molto più visibili questi processi, e di fatto il dibattito finisce per incentrarsi sul cambiamento indotto da esse: non è facile quindi accorgersi che anche le migrazioni sono invece parte di un cambiamento più grande, che viene da più lontano, e porterà più lontano il cambiamento sociale (un effetto, quindi, e non solo una causa di mutamento, come pure accade).
La sempre più diffusa mobilità territoriale, per fare un esempio, non è una caratteristica dei soli immigrati: è un processo che coinvolge fette sempre più grandi della società, e in proporzione più gli autoctoni degli immigrati (solo che chi va via non si vede...), più le classi superiori di quelle inferiori, più i nostri figli dei nostri genitori. Se anche, magicamente, scomparissero tutti gli immigrati da un paese (quali poi? quelli appena arrivati, quelli arrivati da vent’anni – che non sono più gli stessi –, i figli degli immigrati – che non sono nemmeno immigrati, ma nati e socializzati nella società in cui vivono?), questo processo andrebbe avanti ugualmente. Ed è questo il nodo che probabilmente necessiterebbe di una più attenta riflessione e discussione, perché è quello che maggiormente ha cambiato le nostre vite, i nostri valori, forse la nostra stessa antropologia: l’homo sapiens sempre più sta diventando (o forse ridiventando: la storia dell’umanità nasce con le tribù nomadi, non con quelle stanziali, con i cacciatori e raccoglitori che si spostavano in cerca di cibo e di migliori condizioni di vita, non con i contadini e poi i cittadini) anche homo vagans.
La presenza di un numero sempre maggiore di immigrati in Europa non è, dicevamo, solo un fatto quantitativo, con svariate conseguenze sociali, economiche e culturali. Differenti livelli quantitativi nei vari indicatori non producono solo un cambiamento quantitativo. Insieme producono e creano nuove problematiche, nuovi processi di interrelazione: in una parola, un cambiamento qualitativo – niente di meno, come si è detto, di un nuovo tipo di società.
Alquanto diverso dal modello di Stato-Nazione come noi lo conosciamo, e dai suoi principi fondatori, che non a caso sono oggi in crisi. Si pensi agli elementi stessi dello Stato: un popolo, un territorio, un ordinamento – tutti e tre, per motivi diversi, attualmente in crisi, sotto pressione, in perdita di capacità definitoria e dunque di efficacia. Per non parlare di quell’altro elemento, implicito ma ben reale nella nostra comprensione della società (lo sanno bene coloro che appartengono a una minoranza religiosa), che si aggiunge ai tre precedenti: una religione. Il sogno di Alessandro Manzoni in Marzo 1821 («Una d’arme, di lingua, d’altare. Di memorie, di sangue e di cor»), poco dopo essersi realizzato, va inevitabilmente ridiscusso e ridefinito.
La pluralizzazione avviene e aumenta già per dinamiche interne alle nostre società, come detto. Ma, in più, la presenza di immigrati non è culturalmente né religiosamente neutra. Gli immigrati non arrivano ‘nudi’: portano con sé, nel loro bagaglio, anche visioni del mondo, tradizioni, credenze, pratiche, tavole di valori, sistemi morali, immagini e simboli. E prima o poi sentono il bisogno, se mai l’hanno perduto, di richiamarsi ad esse come ad indispensabili nuclei di identità; spesso per identificazione, talvolta anche solo per opposizione. Essi spesso giustificano e confermano una specificità e anche una sensibilità religiosa, che una modernità superficiale nelle apparenze e nello stesso tempo profonda e radicale nella sua capacità di scalfire gli stili di vita tradizionali e i convincimenti su cui si basano, apparentemente fa di tutto per cancellare. In una parola, la religione, e ancora di più la religione vissuta collettivamente e comunitariamente, ha un suo spazio e un suo ruolo nella costruzione dell’identità individuale e collettiva di nuclei significativi di immigrati – di molti, non di tutti.
Questo processo provoca un cambiamento radicale nel nostro criterio interpretativo e, ancora prima, nella nostra percezione, nel nostro vissuto relativo al rapporto tra religione-popolo-territorio. Per dirla nel modo più semplice possibile, noi siamo abituati a immaginare, del tutto intuitivamente, che, grosso modo, ad un territorio corrisponda un popolo con una religione dominante, e con l’eventuale corollario di qualche presenza minoritaria. Oggi la com-presenza di diversi gruppi culturali e di diverse entità religiose, resa ancora più visibile dalla presenza di cospicue comunità di immigrati che si richiamano a religioni più o meno estranee alla storia europea, o almeno percepite come tali, ci costringe a fare i conti con quella che potemmo chiamare una diversa ‘geo-religione’: ovvero un rapporto diverso tra geografia e religione – meno legato ai confini degli Stati e alla separazione, e più legato alla mobilità e all’interconnessione.
Non c’è più, insomma (semmai c’è stata in maniera così totale: in realtà anche questa unitarietà è un mito di origine romantica), un popolo con una propria fede che abita un determinato territorio; ma assistiamo al progressivo prodursi di una realtà molto più articolata, in cui su un medesimo territorio si mischiano (o non si mischiano, ma comunque co-abitano) popoli, religioni, etnie, culture e altro ancora. La pluralità, insomma, da patologia che era, si è fatta fisiologia: è diventata, o sta diventando, normale. Un effetto anche questo, e tra i meno percepiti, della globalizzazione.
La pluralizzazione avviene dunque su tutti i piani. E non è solo un fatto (ad esempio, la maggiore offerta culturale, valoriale e religiosa disponibile). È un processo. Che cambia la società, e dunque ci cambia. Cambia noi, e cambia gli altri attori in gioco, in primo luogo gli immigrati stessi: trasformando le nostre e le loro identità individuali e collettive.
Globalizzazione e migrazioni hanno dunque avuto l’effetto non intenzionale di rendere disponibili su scala globale culture altre, lontane, sconosciute o misconosciute. Esse ci stanno ora, per così dire, rimbalzando addosso, proiettate su uno scenario globale e ri-localizzate altrove, in particolare proprio nell’Occidente da cui origina anche il macroprocesso della globalizzazione. Un effetto, questo, che hanno da tempo osservato, forse prima e meglio di altri, alcuni antropologi, a diretto contatto con le culture altre e i loro cambiamenti.
Il mondo è diventato una rete di relazioni sociali e, nello stesso tempo, nonostante ciò che temevano alcuni, non si è assistito ad alcuna omogeneizzazione dei sistemi di significato: un’americanizzazione o una sorta di macdonaldizzazione e disneyzzazione del mondo, come paventavano alcuni studiosi nello scorso decennio. Certo, il mondo, ovunque si vada, ha anche molti tratti, modelli, modalità di lavoro e di consumo, comuni. Nello stesso tempo, la produzione culturale delle periferie, in direzione del centro – e, attraverso il centro, tra di loro – si è diffusa e incrementata. Molti di noi, viaggiando per il mondo, hanno la sensazione di poter ritrovare ovunque situazioni e prodotti familiari, che diminuiscono lo stress indotto dal doversi risocializzare a una nuova cultura. Nello stesso tempo, ovunque – e anche a casa nostra, nelle nostre città e nei nostri paesi – possiamo trovare sempre più spesso persone e elementi culturali e religiosi (cultura e culto derivano dopo tutto dalla stessa radice etimologica) diversi, lontani, che non conoscevamo prima, che non ci erano familiari.
È insomma in corso un processo di de-ri-territorializzazione delle culture, che avrà in futuro esiti significativi, e già ha cominciato a mostrarceli. Da un lato avviene (da parte nostra) la scoperta o ri-scoperta di culture e saperi altrui (dalla cucina alla medicina, dalle arti alle credenze religiose) che troviamo in territori lontani, apprendiamo e riportiamo ‘a casa’, mettendoli a confronto con i saperi attuali (per esempio quelli prodotti dalla ‘ragione scientifica’), e anche con i nostri saperi ‘tradizionali’. La presenza in Occidente di rappresentanti di questi saperi, ormai sempre più numerosi e ricercati dall’Occidente stesso, è un altro modo per far viaggiare mentalità, conoscenze, simboli, visioni del mondo. Dall’altro c’è l’arrivo, attraverso le migrazioni, di saperi condivisi da alcuni gruppi: si tratta in questo caso non solo di conoscenze e idee sul mondo, ma di pratiche sociali e culturali diffuse e condivise all’interno di gruppi sociali (le comunità immigrate) sempre più ampi, in grado di viverle, di farle riprodurre, e anche di contaminarle con forme di conoscenza altre. E poi ci sono le situazioni in cui ci si mischia, e sono molte.
L’effetto più immediato ed evidente di questi processi è l’aumento del livello di pluralizzazione – non solo teorica, ma effettivamente, concretamente e immediatamente disponibile – dell’offerta culturale, che ha quindi potenziato le possibilità di scelta date nel concreto a ciascun individuo. Le migrazioni, soprattutto da paesi extraeuropei, hanno infatti favorito la presenza e la diffusione di modalità di credere ‘altre’, dal momento che i nuovi immigrati hanno portato con sé, come ovvio, anche il proprio bagaglio culturale. Un processo tanto più forte e convincente in quanto tali culture e religioni non sono rappresentate solo da individui e famiglie, che in qualche modo progressivamente si integrano o non si integrano, o al limite si incapsulano senza cambiare (o cercando di non farlo, con discutibile successo), nella società di accoglienza. Esse trovano e assumono forme di radicamento collettivo e comunitario, che consentono di ‘trapiantare’ anche forme e modalità di vissuto quotidiano e di appartenenza e identificazione culturale.
Diventa o ridiventa dunque cruciale e strategico riflettere sulle implicazioni di quello che potremmo chiamare il fattore C: C come cultura. Non è un caso che si diffondano espressioni – per descrivere le trasformazioni delle nostre società – che fanno riferimento al mosaico delle culture o al patchwork religioso che si starebbe formando. Ma queste espressioni mettono in evidenza solo l’aspetto statico, rigido, di quanto sta succedendo, ovvero l’aumentata pluralizzazione culturale delle nostre società. In realtà, si tratta di un processo dinamico e alquanto complesso, che si lascia meglio descrivere dall’immagine, non statica ma dinamica, e in continua evoluzione, del caleidoscopio delle culture: i cui pezzi, sia quelli piccoli sia quelli più grandi (fuor di metafora, sia le nuove forme culturali, sia quelle vecchie, in passato monopolistiche e tuttora dominanti, o almeno maggiormente istituzionalizzate), sono in continuo movimento, e anche in continua trasformazione interna.
Lo scambio culturale, come pure la presenza di immigrati, costituiscono alcuni tra i motori che muovono il caleidoscopio. E il sovrapporsi dei vari pezzi, quelli nuovi e quelli preesistenti, produce nuove forme e nuove sfumature di colore, ovvero produce fenomeni di meticciato e di sincretismo culturale. Ha effetti, insomma, anche ‘interni’, di peso tutt’altro che trascurabile.
Ci si mischia, insomma. In molte forme diverse di quello che potremmo chiamare ‘multiculturalismo di mercato’: si pensi alla cucina fusion, che mischia diversi gusti e sapori e modi di cucinare, o alla world music, che consente di mischiare elementi eterogenei, producendo non solo un nuovo tipo di musica, ma spesso anche un nuovo modo di fruirla, e nuovi pubblici, a loro volta più ‘misti’ – in una parola, una nuova cultura. Ma il fenomeno è più ampio e complesso, e include anche la mixité delle persone, il confondersi e il fondersi dei corpi, dei sentimenti e dei progetti di vita. Pensiamo a quelle che chiamiamo coppie e famiglie miste – in tendenziale rapido aumento – e più ampiamente a quel complesso di fenomeni che mischiano le persone sul lavoro, a scuola, nei settori del divertimento (sport, cultura, arti, ecc.), ma anche alle amicizie e alle compagnie plurali.
Oggi, a seguito e come effetto della pluralizzazione culturale, assistiamo nelle società a un doppio movimento, in due direzioni contrarie, anche se entrambe producono cambiamento (e che sono caratteristiche di fasce diverse della popolazione): verso il meticciato, il formarsi di culture e situazioni sociali complesse e appunto meticce, da una parte; e verso il ritorno e la chiusura identitaria, dall’altro.
Il ritorno dei fondamentalismi religiosi, degli etnicismi, dei razzismi, dei più diversi tribalismi, appartiene a questa seconda tendenza. Come anche quel curioso fenomeno che sono le identità reattive: ovvero la scoperta di avere un’identità collettiva in presenza di persone che ne hanno un’altra. Come i molti che stanno riscoprendo di essere cristiani da quando ci sono i musulmani, ad esempio. E ne troviamo anche tra i musulmani, ovviamente (e tra gli immigrati in generale), che riscoprono le loro identità da quando vivono in un ambiente che non le contempla. Naturalmente si tratta di identificazioni spesso superficiali, di facciata, magari legate a un simbolo. Non certo di pratiche sociali, di forme di appartenenza reali, ancor meno di condivisione profonda dei messaggi veicolati dai simboli medesimi. Si pensi alle battaglie sul crocifisso, o sul velo, spesso paradossali, dove l’attaccamento al simbolo viene da individui che personalmente non ne onorano i contenuti profondi. E dove magari se ne chiede l’ostentazione pubblica, prescindendo dal loro significato intimo: insistendo sulla forma in un certo senso proprio perché si è dimenticata la sostanza.
Entrambe le tendenze costruiscono il nostro paesaggio sociale. Ed entrambe proseguiranno. In fondo ciascuno di noi, a seconda delle situazioni, spesso è in bilico tra l’una e l’altra, o è contestualmente l’una e l’altra. Siamo più complessi e ambigui di quanto ci piaccia ammettere. E il principio di non contraddizione vale solo all’interno di ben definiti contesti teorici: non esiste nella realtà, nelle persone. Meno ancora nelle coscienze. Queste tendenze non esauriscono quanto avviene nella società. È vero, in molti ambiti ci si mischia sempre più spesso. In altri si reagisce ai cambiamenti rifugiandosi in una spesso illusoria autosufficienza e purezza. Ma in altri ambiti ancora si vive semplicemente come prima: accettando però i cambiamenti del paesaggio sociale e facendo i conti con essi, allargando la sfera delle relazioni personali, facendo esperienze e incontri nuovi, aprendosi in definitiva al cambiamento pur rimanendo se stessi, e spesso senza farsi molte domande su cosa è successo – accettandolo, semplicemente. Potremmo chiamarlo l’ambito delle identità pro-attive: che non cambiano e non mischiano, o non troppo, i propri riferimenti culturali; che non rifiutano quelli altrui; e semplicemente si relazionano con il nuovo, prendendone atto.
La società oggi si divide su questioni diverse da quelle del passato. Tramontate le divisioni di classi (non che non esistano più le classi e i conflitti di interesse – tutt’altro –, ma sembrano progressivamente scomparire dal vocabolario diffuso, e forse dalla percezione maggioritaria) oggi ci si divide, sempre più spesso, su fattori di inclusione ed esclusione, molto materiali (spese, interessi, costi e benefici, tasse, servizi, ecc.), ma altrettanto spesso ammantati di giustificazioni etniche, razziali, culturali o religiose.
La diversità, anzi l’alterità diventa un problema o addirittura una colpa in sé. Il che significa che anche gli attori sociali (inclusi quelli religiosi) si dividono sempre più non solo e non tanto tra loro, ma al proprio interno: tra dialoganti e non dialoganti, tra aperti al cambiamento o chiusi ad esso, tra coloro che sono disposti a mettersi in discussione, e/o a mettere in discussione la società per come era, e coloro che non ci pensano nemmeno: anche a dispetto dei fatti, dei cambiamenti già avvenuti, di cui non si vuole tenere conto. Tra coloro che sono dunque disposti a misurarsi e a confrontarsi con la diversità e l’alterità, e coloro che ne negano le basi stesse. Con tutte le forme intermedie di atteggiamento che possiamo immaginare.
La diffusione della paura nelle nostre società, la sua frequente strumentalizzazione mediatica e politica, il suo grosso mercato anche economico, sono un segno chiaro che un pezzo significativo della società rifiuta, per definizione, qualunque apertura, anzi, qualunque incontro. E quello che accade – più cambiamento, più complessità, più meticciato – per molti, legittimamente, significa più incertezza, più stress, più paura, più rifiuti, più chiusura. Più pre-giudizi, anche, in senso letterale: giudizi dati prima di conoscere davvero e di persona, in forma per così dire esperienziale.
La società dunque si divide e si dividerà tra costruttori di ponti e costruttori di mura, tra coloro che percorrono le strade e coloro che si chiudono in casa. La polarizzazione tra i due gruppi sta diventando sempre più forte. E ce ne possiamo accorgere all’interno delle comunità religiose come nel mondo laico, dove talvolta è più difficile parlarsi all’interno, tra persone che hanno scelto opzioni diverse, che non confrontarsi con l’altro vero e proprio. Anche se, in fondo, c’è bisogno di tutte e due le cose: di rafforzare e di tutelare le identità; e di farle comunicare tra loro.
L’Italia è un paese abituato a pensarsi e ad essere pensato, in termini religiosi, in maniera sostanzialmente omogenea. La percezione esterna ce lo mostra con chiarezza: l’Italia viene di norma semplicemente definita un ‘paese cattolico’; che si tratti di una guida turistica, di un articolo di giornale o di un libro di sociologia delle religioni. Non siamo conosciuti come un paese religiosamente ‘plurale’. La presenza all’interno del territorio italiano del centro mondiale del cattolicesimo, ovvero del Vaticano (politicamente, della Santa Sede) contribuisce notevolmente a questa percezione globale.
Quanto alla situazione interna, le cose sono più complicate. Nonostante le sue storiche divisioni su molti piani (storia, lingue, tradizioni, sviluppo economico, indicatori sociali, comportamenti politici, ecc.), evidenti nella frattura tra nord e sud e in altre sub-divisioni, l’Italia si considera sostanzialmente unita dalla medesima appartenenza religiosa: l’espressione ‘campanilismo’, per definire la stessa diversità interna è di per sé istruttiva – i campanili vengono considerati tutti appartenere, più o meno, alla stessa tradizione religiosa. La storia, il radicamento istituzionale e sociale, il peso culturale e politico, e non ultimo il quadro legislativo (la costituzione, il sistema concordatario, la presenza nella scuola pubblica e della scuola privata cattolica) mostrano senza dubbio l’esistenza di un riferimento comune rappresentato, più che dalla Chiesa cattolica come soggetto, dal cattolicesimo come identificazione. Ma molte cose stanno cambiando.
Le minoranze tradizionalmente presenti nel nostro paese, fino a un passato recente abbastanza poco visibili, e in parte volutamente occultate o ‘dimenticate’ anche dalla percezione di senso comune, sono sempre più presenti sulla scena pubblica. Si pensi a gruppi non cristiani di antica o antichissima presenza in Italia, anche precedente a quella cristiana, come gli ebrei, o a minoranze cristiane storiche, come i valdesi. I riconoscimenti istituzionali dovuti alla stipula di Intese hanno dato significativi strumenti di legittimazione e di riconoscimento anche simbolico maggiori ad alcune comunità religiose minoritarie, aumentandone la visibilità. Il meccanismo dell’otto per mille ha inciso ulteriormente su questo aspetto, rendendo simbolicamente evidente a tutti l’esistenza di un pluralismo religioso interno.
Questo tuttavia non è che un aspetto, e numericamente il meno rilevante, dell’aumentata pluralità religiosa del nostro paese (se ragioniamo in termini di appartenenza religiosa, e non di modalità diverse di credere: ciò che porterebbe ad evidenziare un ulteriore pluralismo, interno alle differenti religioni). Un altro aspetto è dato dallo svilupparsi di nuove chiese e nuovi movimenti, a cui un numero sempre maggiore di cittadini decide di aderire: dalle chiese pentecostali ai testimoni di Geova, per non citare che alcuni tra quelli che conoscono la crescita numerica maggiore. Ma si pensi anche all’influsso sempre più significativo di gruppi religiosi che non appartengono alla tradizione cristiana (buddhisti, ad esempio), o che propongono qualche forma di sincretismo religioso.
Infine, ed è l’argomento statisticamente più incisivo, ci sono i movimenti migratori, che hanno portato con sé tradizioni religiose poco o per nulla presenti in passato in Italia (si pensi all’islam, per citare il caso più evidente e noto, ma il discorso vale anche per l’ortodossia e per diverse religioni orientali), o anche modalità diverse di appartenenza a religioni già presenti, come quella cattolica e diverse confessioni protestanti, ma anche l’ebraismo.
Sintetizzando, potremmo dire che l’ultimo quarto di secolo, quello che ci separa dall’approvazione del nuovo Concordato e delle prime Intese, ha portato a una trasformazione radicale del campo religioso: da paese monoliticamente cattolico, o almeno percepito come tale, l’Italia è diventata, sul piano religioso, sempre più plurale. Questo processo è avvenuto per due ragioni:
– una pluralizzazione interna al campo cattolico, sempre più evidente;
– e una progressiva maggiore presenza di religioni altre, o di modi altri di essere religiosi, nonché di opzioni non religiose, ovvero di fuoriuscita dal campo religioso medesimo.
Questo secondo elemento della pluralizzazione è a sua volta dovuto a due tendenze:
– una pluralizzazione interna, autoctona, prodottasi nella popolazione residente;
– l’arrivo di popolazioni alloctone, di religione differente rispetto a quelle già presenti nel paese (e talvolta a modi diversi di appartenere alle medesime religioni: si pensi ai cattolici o ai protestanti immigrati – dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina – e agli autoctoni delle stesse confessioni, che spesso si sentono molto diversi, nel modo di vivere la fede, e in un certo senso rispetto agli stessi valori condivisi).
Un mondo così non è un mondo dato per scontato: cambia, e ci coinvolge nel suo cambiamento. È fatto di incontri, di confronti (positivi o negativi, che spingono a ulteriori incontri o al rifiuto dei medesimi), ma anche di scontri.
Il conflitto è fisiologico, nelle società: ne è una sua parte fondamentale. Può non essere bello, ma spesso si rivela più utile di quello che crediamo, per aiutarci a comprendere qualcosa o qualcuno, per arrivare a un grado maggiore di consapevolezza. Basti pensare al ruolo che ha nella nostra vita di coppia, nelle nostre famiglie, nelle imprese, nei contesti politici, e nella geopolitica. È quindi una componente costitutiva e ineliminabile della vita sociale e, in definitiva, della vita stessa. Quello che possiamo fare è cercare di evitarlo, di anticiparlo, di fare in modo che duri il meno possibile, che faccia meno danni possibili, che non arrivi alle estreme conseguenze. Ma non sempre si riesce: ancora una volta, basta guardare alla nostra vita di coppia e familiare, al lavoro, alla politica.
Il conflitto quindi esiste a prescindere dalle migrazioni. Ma le migrazioni possono portare nuove forme di conflitto nelle società: tra culture, tra religioni, più semplicemente tra modi di vivere diversi e contrastanti.
Noi siamo appena usciti dal secolo che ha generato i più spaventosi conflitti della storia umana. Forse proprio a seguito di questo, apparteniamo a una cultura che sembra considerare la parola stessa ‘conflitto’ come impronunciabile: una cosa negativa, un tabù, che è meglio evitare di nominare, quasi che questo significasse evocarne la realtà. Nella vita personale facciamo di tutto per evitarli, i conflitti: non riuscendoci, naturalmente, ma perdendo l’abitudine e le capacità di affrontarli e superarli. In realtà, come abbiamo visto, il conflitto è inevitabile, per maturare, per crescere: ci arricchisce delle posizioni altre e altrui (è attraverso di esse, combattendole, che le conosciamo, e talvolta le incorporiamo), ci rafforza, ci proietta verso l’alterità in quanto tale. «Il conflitto è il senso originale dell’essere-per-altri», ha scritto Sartre molti anni fa. In questo senso il conflitto è anche naturale, e in questa forma ineliminabile, come ci mostrano l’etologia e, semplicemente, l’evoluzione della specie, inclusa quella umana.
Il conflitto ha anche una sua ragione profonda: «Occorre sapere che la giustizia è conflitto», sottolinea un frammento di Eraclito, istituendo un legame tra quella che ci sembra un’ingiustizia e il suo opposto. La stessa democrazia è conflittuale – nasce come conflitto tra parti e tra partiti, appunto – e come tale è dunque anche instabile per definizione.
Ma il conflitto non è necessariamente sinonimo di violenza. Il problema e la sfida è quindi trovare i metodi (tra cui vanno incluse le istituzioni) per risolverli, i conflitti, e questi possono essere non violenti, o comunque, invertendo le parole di Eraclito, giusti. Questo tuttavia è possibile solo riconoscendolo, il conflitto, e quindi gestendolo, non negandolo, non reprimendolo. E se tutto questo è vero per gli individui, e per il conflitto sociale all’interno delle società e delle culture, perché non dovrebbe essere vero per i conflitti tra religioni?
Tra l’altro, il conflitto tra culture e religioni non è effetto dello spesso evocato scontro di civiltà descritto da Samuel Huntington in un suo famoso libro dal medesimo titolo, basato su un modello statico, in cui le culture (e le religioni) sono separate, impermeabili, incomunicanti. È semmai piuttosto il contrario: effetto dell’incontro, della conoscenza reciproca, letteralmente della con-vivenza, su un medesimo territorio, all’interno del medesimo quadro giuridico e istituzionale.
La crisi, il conflitto, serve anche per discutere – sempre troppo tardi, ma sempre meglio tardi che mai – di un problema. La crisi, il conflitto, serve anche per scoprire i limiti fino ai quali ci si può spingere, e i confini sociali che non è possibile oltrepassare. Nel conflitto si formano le leadership. Nel conflitto ci si deve interrogare intorno a un senso di responsabilità comune, che non produca eccessi dannosi, che possono ritorcersi su chi li produce: si misura la propria forza reale, ma anche quella dell’altro, e quella della società, delle sue regole, dei suoi strumenti di regolazione. Attraverso il conflitto si sperimenta chi è ‘noi’, ma anche chi è l’altro, e l’idea stessa di alterità. Nel conflitto impariamo a misurare la differenza tra ciò che siamo, ciò che vogliamo e ciò che possiamo ottenere. Il conflitto, inoltre, è un mezzo per far affiorare alla superficie della coscienza ciò che giace e ribolle in profondità.
L’estremizzazione delle opinioni ha dopo tutto una funzione, ed è precisamente questa: rendere visibile il non solitamente visibile, conscio l’inconscio, e consapevole l’inconsapevole. Lasciare che le parole dicano il non abitualmente detto. Solo che tutto questo funziona finché il conflitto non porta a voler eliminare fisicamente l’altro: e purtroppo, come sappiamo bene, non è sempre così. In questo caso il conflitto cresce di scala e diventa distruttivo.
C’è anche un altro problema, per le società: che taluni soggetti, individuali e collettivi, dal conflitto ci guadagnano, in visibilità e consenso: è chi urla di più, chi fa più rumore, che si fa più sentire – e i media ne amplificano la voce. E questo può accadere, e di fatto accade, sia all’interno delle comunità immigrate che nella popolazione autoctona. I radicali delle varie sponde, in sostanza, hanno interesse non a risolvere i conflitti, ma precisamente a farli nascere e a farli durare. E poiché i conflitti hanno un costo sociale ed economico per le società, questi gruppi provocano alla società seri danni, che durano nel tempo.
Non lo sappiamo, naturalmente. Quello che sappiamo è che le nostre società hanno vissuto negli ultimi decenni delle trasformazioni gigantesche, in parte precedenti e in parte collegate alle migrazioni, che hanno visto crescere enormemente il loro livello di pluralismo culturale e religioso.
E i cambiamenti quantitativi, oltre una certa soglia, diventano cambiamenti qualitativi. Non si tratta più allora della stessa società, solo un po’ più plurale di prima: ma, di fatto, di un’altra società, che della pluralità fa una caratteristica fondativa. Nessuno ce l’ha detto prima, e può legittimamente non piacerci, così come possiamo avere nostalgia per una società diversa: ma, di fatto, questo cambiamento ha già raggiunto la soglia dell’irreversibilità – il mondo non sarà mai più come prima, la globalizzazione e le possibilità di mobilità, favorite dall’evolversi delle tecnologie (incluse quelle di trasporto, sempre più rapide ed economiche), non sono reversibili. Il che non significa, naturalmente, che non si possano porre limiti, sia esterni che interni, ad un’ulteriore pluralizzazione: che, comunque, continuerà a produrre i suoi effetti.
Questo fenomeno non era stato previsto. Le nostre costituzioni non ne parlano e per certi versi non lo regolano. Ma oggi c’è, è accaduto. È normale che produca anche controtendenze, incomprensioni, rifiuti, come accade; nello stesso tempo, come pure accade, di fatto coinvolge segmenti sempre più ampi delle società, che ne trovano svariate forme di beneficio. E, naturalmente, va esso stesso regolato.
Non esistono tuttavia modelli di riferimento di successo. Sia i modelli multiculturalisti (come quello anglosassone e, in passato, olandese) che quelli basati sull’integrazione individuale (come era quello francese), sia i paesi che offrivano percorsi di cittadinizzazione – anche formale – facili (basati sullo jus soli: Francia, Gran Bretagna) che quelli che prevedevano percorsi difficili o impossibili (basati sullo jus sanguinis, come la Germania), hanno mostrato problemi e difetti anche gravi: non a caso tutti i modelli sono oggi in discussione e in fase di ripensamento, nelle più svariate direzioni.
Serviranno forme di sperimentazione, come già accade a livello locale, di municipalità. Occorrerà andare avanti per un po’ per tentativi ed errori. Mantenendo fermi i principi fondativi (l’inalienabilità dei diritti, l’universalità della loro applicazione all’interno della società), ma trovando forme efficaci di coinvolgimento, di dialogo, e al contempo di controllo – evitando tuttavia forme di conflitto generalizzato tra gruppi contrapposti, o che vengono volutamente contrapposti.
La sfida che hanno davanti a loro le nostre società è questa: niente di meno che questa.