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«Joy includes everything, happiness and sorrow»
Emir Kusturica, in molte interviste

La scoperta del cinema

Durante i weekend lavoravo per farmi un po’ di soldi. Il lavoro consisteva nel portare il carbone per il riscaldamento alla Cineteca, dove si programmavano vecchi film. Spesso, quando la consegna era finita, il direttore ci faceva entrare gratis. Uno dei primi film che ho visto in questo modo è stato Senso di Visconti. Non ci capivo niente, ma mi rendevo conto che sullo schermo stava accadendo qualcosa di importante, di diverso dal solito. Poco tempo dopo, un altro film mi ha sconvolto, La strada di Fellini. Lì ho fatto il mio ingresso nel mondo magico del cinema. Ho avuto la fortuna di poter approffittare di un periodo fertile del cinema italiano. […] Quel cinema era molto vicino alle emozioni che provavo intimamente. Una vibrazione forte, mediterranea. […] Quella specie di nuovo realismo aveva tutto quello di cui ha bisogno un film: delle emozioni, la possibilità di viaggiare dentro una storia… E poi, naturalmente, ho iniziato a girare i primi film amatoriali. Sono arrivato al cinema grazie al carbone, è magnifico, no?

L’esperienza di Praga

Il mio insegnante principale era Otakar Vávra, un vecchio professore che aveva diretto un sacco di film e aveva lavorato sotto tutti i regimi cecoslovacchi. Negli anni dell’Accademia ho visto molti film. Per quel che riguarda gli studi, ho avuto soprattutto una base pratica. […] Ho terminato gli studi e già avevo diretto due mediometraggi di mezz’ora e due cortometraggi di dieci minuti, in 35mm. […] Una buona abitudine ricorrente alla Famu era che uno studente si occupasse di tutti i compiti possibili; si cominciava come aiuto-operatore e si finiva come regista. Non ho lavorato direttamente con Jirí Menzel ma ho parlato a lungo con lui; ha persino interpretato una piccola parte nel mio film di diploma. Quel periodo di studi mi ha insegnato soprattutto ad assorbire la visione cecoslovacca del mondo: un avvicinarsi senza pretese ai drammi umani, che si adatta molto bene alla sensibilità slava. Per esempio, i film di Forman si sono creati uno spazio espressivo inedito – un po’ come ha fatto Truffaut in Francia – in cui le componenti tragiche e umoristiche si integrano.

Il cinema jugoslavo e la Bosnia

Ho ben presente i film della “nouvelle vague jugoslava” di autori come Makavejev, Djordjević e Pavlović, e credo che facciano parte di una tradizione culturale minore che non si è consolidata nel nostro Paese, ma che reputo considerevole. Quando studiavo a Praga, non pensavo affatto che film “impegnati” come i loro potessero essere così importanti; amavo molto i film di Pavlović, che considero il nostro cineasta più caratteristico. Tutti i suoi film parlano della vita di periferia, di gente che non vive né in città né in provincia, ma in zone marginali, tipiche della Jugoslavia, dove non esiste un’autentica popolazione urbana, perché non c’è mai stata. Pavlović ha trattato del tema dell’immigrazione verso la città e ha analizzato i codici morali di questa gente, che ha notevoli ambizioni pur vivendo ai margini. Tutti i suoi “drammi morali” rivelano una visione intimamente scettica, molto balcanica, piena di humour, ma lucidissima».

Sidran, Dolly Bell e i viaggi d’affari

Ho incontrato Sidran in televisione e mi ha detto: «Noi due dobbiamo lavorare insieme!». […] Pensava che l’argomento del suo romanzo Dolly Bell fosse adatto a me. È stato importante per me, mi ha condotto verso un nuovo punto di partenza della mia vita. Si trattava di un’epoca e di una situazione che mi erano molto familiari. Il personaggio di quel padre che credeva sinceramente che il comunismo si sarebbe affermato a colpo sicuro prima della fine del secolo; quei gruppi di giovani che non desideravano altro che suonare e cantare; quei quartieri pieni di autentiche emozioni e di amori schietti: mi era tutto molto vicino. […]

[In Papà è in viaggio d’affari, N.d.A.] Sidran e io desideravamo fare un film sulla nostra infanzia e, al tempo stesso, sulla gente del nostro Paese. Ed ecco che allora ci siamo trovati a raccontare degli anni Cinquanta-Sessanta nella città di Sarajevo, la nostra. Il modo migliore, abbiamo creduto, per esprimere i sentimenti che intendevamo rappresentare era quello di passare attraverso l’infanzia e l’adolescenza di un personaggio durante un periodo che è stato molto importante per la Jugoslavia. Insomma, l’infanzia di un personaggio corrisponde all’infanzia di un Paese. […] È difficile trovare in Jugoslavia un tipo di dramma esistenziale che non sia in rapporto con gli avvenimenti del passato. Da noi non esistono miti personali, non sono consolidati. È questo il motivo di tutte quelle piccole commedie satiriche serbe; una sorta di riflesso della vita. La sola maniera possibile di realizzare una storia drammatica, nel senso più generale del termine, è quella di trovare un rapporto con le pressioni politiche, costanti in Jugoslavia.

Filmare i colori dei gitani

La prima volta che sono arrivato nella strada centrale di Sutka, un quartiere gitano, sono stato colpito dal numero di matrimoni che vi si svolgevano. L’equivalente è inimmaginabile a Parigi o a Sarajevo. I gitani non vivono che per queste cerimonie, le nozze, la festa di San Giorgio ecc. Il resto del tempo non vivono. E non è solo un’impressione visiva. La cosa stupefacente, anche, è che i gitani conservano da più di mille anni la loro identità pur non avendo scuole né libri. È miracoloso. Noi volevamo far vedere che c’è anche una cultura della povertà, che la loro vita è strutturata culturalmente. Andare all’opera fa parte della nostra cultura, ma anche la loro ha manifestazioni molto precise. Nel film sono musulmani, ma non hanno niente a che vedere con l’Islam e le sue regole. In realtà, i gitani sono sopravvissuti perché celebrano tutte le feste religiose, cattoliche, protestanti, ortodosse e musulmane. Sono i nostri rappresentanti in Paradiso, la loro personalità è in armonia con la comunità. Non è possibile cogliere presso di loro foto individuali, è sempre una foto di gruppo. […]

Il film [Il tempo dei gitani, N.d.A.] assomiglia al loro costume tipico. Sotto la camicia portano tre magliette di colore diverso, i pantaloni hanno l’aria di arrivare da un altro pianeta. È un film dove tutto si mescola, semplicemente perché la vita è così.

L’america e il pesce freccia

Quello che mi ha colpito degli Stati Uniti è che ciascun individuo vuol fare qualcosa di grande: essere capace di volare, diventare un attore celebre ecc. Il libro che ha funzionato da riferimento – che è stato e resta uno dei miei romanzi preferiti – è Il giovane Holden di Salinger ed è quello che mi ha permesso di penetrare questo Paese. È un continente che offre una materia straordinaria per sviluppare i sogni e legarli alla gente. […]

Quando studiavo a Praga – una città barocca, favolosa – e passeggiavo la domenica sognando di ritornare a Sarajevo, ero un po’ intimidito, spaventato da quella grande tradizione culturale che non c’era nel mio Paese natale. Mi sentivo come un pesce volante nelle strade deserte… E quella stessa impressione di essere un pesce, l’ho conosciuta negli Stati Uniti, dove le domeniche sono ancora più dure che nell’Europa dell’Est. Ne parlavo con Jim Jarmush: «Perché le domeniche sono così difficili da passare, nella cultura cristiana?». E si è arrivati alla conclusione che è, senza dubbio, l’arrivo del lunedì che ci fa paura. Pertanto, ho voluto, con la metafora del pesce volante, esprimere quel passaggio dell’uomo lungo le strade che è come attraversare la storia: credere di comprendere qualcosa quando non si comprende assolutamente niente.

La guerra, sopra e sottoterra

Questa storia è nata dalla mia sofferenza personale. Sono stato una vittima del comunismo, e so che le uniche cose buone che c’erano nel comunismo erano i suoi stessi sbagli. I quali furono numerosi: dal calcio al cinema. Convivendo con questi errori, sono stato ingannato perché non ho compreso l’evoluzione della Storia. Una Storia senza logica, perché non c’è alcuna logica nel fatto che un Paese si distrugga quando l’Europa marcia verso l’integrazione. Stampati sulla mia pelle ho i segni di questo film che ormai incarna la mia integrità. Io stesso sono stato vittima della propaganda. Quando sono uscito dal sotterraneo per girare il mio primo film, non sono morto, ma mi sono reso conto che il mondo doveva essere visto attraverso una prospettiva diversa da quella che mi avevano insegnato. […]

Durante le riprese ho perso il padre e la mia casa di Sarajevo è stata distrutta. […] Tutto ciò mi ha molto segnato, e questo è stato un peso troppo grave per le mie spalle. Ma gli slavi, me compreso, hanno la capacità di rispondere alla sofferenza con un’energia inattesa. Ho spesso anche pensato che la via più facile non è sempre quella da prendere. È per questo che i miei film sono quello che sono. Non si inseriscono, come Forrest Gump, nella storia dell’edonismo. Se avessi voluto essere più popolare, avrei potuto sventolare la bandiera della nuova Bosnia. Ho preferito, invece, seguire una via mia, personale. Ed è per questo che non posso tornare nel mio Paese, dove sono considerato un nemico.

Il sogno

Il sogno è ciò che preserva la vita. Si possono cercare delle spiegazioni storiche, sociologiche, psicologiche alle questioni fondamentali dell’uomo, non si troveranno mai delle risposte definitive. Perché non esistono risposte definitive. Siamo spinti a razionalizzare ogni cosa, ma sono i sogni che vestono le nostre vite. Anche se cerchiamo di conquistare l’universo, se arriveremo su altri pianeti, credo che l’uomo sia un pesce che nuota nelle strade vuote delle città… Oggi stiamo vivendo un periodo molto difficile. Giochiamo con i computer, con i satelliti… La tecnologia è affascinante, ne convengo, ma può anche trasformarsi in un mezzo di distruzione. Ecco perché l’uomo è un pesce, un essere sconosciuto, imprevedibile e misterioso. […]

Dove va Malik alla fine del film [Papà è in viaggio d’affari, N.d.A.]? In fondo non lo so. Un certo ordine sulla Terra è venuto a mancare, e lui è in difficoltà: la sola soluzione possibile al suo dramma domestico era questa fuga verso il cielo… Beninteso, tutto ciò è una metafora. Moreno De Bartoli ha detto recentemente a un giornalista che ciò che preferiva nel film era il momento in cui partiva, alla fine, sollevandosi da terra. Potrei cercare di ragionarci sopra, di pensarci, ma mi rifiuto […] Questa partenza forse è una fuga… una fuga verso il sogno che abbiamo perduto.

Le levitazioni

Credo che alcune cose debbano allontanarsi dalla legge di gravità terrestre. L’amore non deve essere sottomesso a una cosa così stupida come la gravità. Il cinema deve sollevarci, strapparci alla pesantezza della terra. Come filmare un colpo di fulmine fra due persone? Bisogna sollevarli. Questo è cinema! Credo che l’amore si possa mostrare meglio facendo levitare due persone per aria che non facendogli dire delle banalità come «ti amo». La levitazione è una bella metafora della spiritualità, dell’arte e del modo in cui bisogna trattare il proprio pubblico. Il pubblico deve essere sollevato da terra con tutti i mezzi: energia, effetti visivi, emozioni… Bisogna soffiare la vita dentro un film. Registi come Jean Vigo o René Clair sapevano farlo splendidamente. Le scene di levitazione devono inserirsi nel movimento del film. Se fai levitare tutto come in un film hollywoodiano di media qualità, non è che un effetto speciale senza grande interesse.

Le influenze e la visione

Per la mia formazione sono stati importanti, oltre a Ivo Andrić (scrittore bosniaco vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1961, N.d.A.), Meša Selimović, morto da diversi anni anche lui, e il Camus di Lo straniero. Per quest’ultimo, il rapporto che il personaggio di Meursault aveva con la morte della madre era estremamente autentico; nello stesso tempo lo ritengo molto lontano da me. Mi sento molto vicino anche agli scrittori latino-americani. Ci sono in Bosnia dei modi di esprimersi che sono molto simili a quelli dell’America latina. E i miei scrittori preferiti sono Carlos Fuentes, Gabriel García Márquez e altri romanzieri dello stesso genere. Mi ritrovo nei loro problemi, nelle loro raffigurazioni dell’amore, nella loro forza, nei segni che infarciscono i loro racconti, nel loro interesse per il sogno. E tutto questo in mezzo alla povertà. […]

Credo che la più grande influenza su di me l’abbia avuta L’Atalante di Vigo. Esprimeva una visione sociale del mondo, era completamente antiteatrale, senza carattere artificiale, mostrava dei momenti di vita intima che diventavano dei drammi umani, era pieno di un’emotività di primo grado. Non un solo Paese europeo avrebbe potuto creare un suo proprio cinema senza l’influenza del realismo poetico francese o del neorealismo italiano.

Il montaggio

Ciò che so del montaggio, l’ho appreso da Fellini. Quando studiavo a Praga, guardavo i suoi film e vedevo come utilizzava il montaggio parallelo per raccontare una scena in un unico luogo. Lui lavora più su una struttura epica che su una drammatica. Ciò significa che deve dare velocità alla scena. L’energia che infonde conducendo contemporaneamente tre o quattro racconti crea una dinamica che vi trascina alla scena successiva. Lo fa alla sua maniera, da pittore, da uomo mediterraneo, da umorista distaccato ma, come molti grandi artisti della vecchia generazione, lui crede che non siamo obbligati a seguire il tipo di costruzione ereditato da Ibsen e dalla drammaturgia del diciannovesimo secolo.

Il cinema dopo l’innocenza

Certo che fare cinema mi ha fatto perdere l’innocenza, e molte altre cose! Ma, evidentemente, grazie all’arte e alla sua natura si acquista la capacità di scegliere le cose più importanti e di mettere ordine in se stessi. Così, ho perso davvero la mia innocenza ma, immediatamente e quasi in modo selvaggio, ho trovato le risorse per ricostruire la mia vita e per renderla più forte. Se posso vivere senza girare film? Non penso, perché ogni volta che provo a ricordarmi dei momenti importanti della mia vita, questi ritornano riletti nell’ottica del mio mestiere, anche quando non erano direttamente legati alle riprese di un film. Il cinema mi aiuta a conservare la memoria della realtà. Cosa sarebbe l’uomo senza memoria?

Cinema e nazionalità?

Underground è il mio film più importante, non soltanto per le sue qualità, ma per le perdite che ha comportato: prima fra tutte la perdita della mia ingenuità politica. Ho ricevuto una lezione molto precisa e significativa: attenersi fermamente alla logica non significa niente in rapporto alla Storia. La Storia ha una sua logica particolare. Ci ho messo molto sentimento, molta nostalgia… Non è forse il mio film migliore, ma è sicuramente il mio film più importante, quello più riuscito dal punto di vista formale. Il fatto di avere vissuto in un Paese e di accorgersi che esso non esiste più rappresenta per me una perdita irreparabile. Underground non è un film nostalgico, è un necrologio. Sono io a essere nostalgico! […]

Non ho più sentimenti nazionali. Prima ero jugoslavo e mi trovavo bene tra le nostre differenze religiose e culturali. Ora invece sono come i gitani del mio film. Non mi resta che il cinema. Come diceva Marilyn Monroe: «Io abito nei miei film!».

Sguardo sul futuro

Occhio destro: Ora avrei voglia di dirigere un piccolo film, un film a basso costo. Un film molto diverso da questo: solo per dimostrare che posso evitare lo stile barocco, i grandi apparati, che posso tornare al genere di film che facevo prima. Forse ho lavorato troppo con questa troupe: li adoro, hanno talento da vendere, ma non è più possibile ora. Ho bisogno di sangue nuovo. Potrei rinnovarmi meglio con una nuova troupe. Il mio prossimo film aprirà un nuovo capitolo nella mia vita. (ottobre 1995)

Occhio sinistro: Vorrei informare i miei amici e anche i miei nemici che nel giorno del mio quarantunesimo compleanno ho deciso di smettere di fare film. Non so fino a che punto questo solleverà i miei nemici, ma sono certo che i miei amici comprenderanno quanto la mia vita diverrà più semplice. (novembre 1995)

Gatti neri e gatti bianchi

L’intenzione originale era quella di fare un documentario sulla musica gitana. Poi ho scoperto che corrispondeva alla mia maniera di fare cinema, con quel suo modo eclettico di imporsi. […] Il modo archetipico di vita dei gitani non è mai cambiato.

Per me fare un film deve essere una cosa vicina al fare musica. Se questo non succede è molto difficile credere che si possa strutturare una storia. Non conosco nessun regista di talento che non abbia anche un buon orecchio.

Spazio e moralità

In modo inconscio, attingo ad alcune forme del pensiero filosofico che pongono quali principi fondamentali dell’universo i quattro elementi della natura: terra, acqua, fuoco e aria. Cerco semplicemente di porre i miei personaggi in questi quattro elementi, di integrarli in essi. Per ottenere un buon risultato, non è sufficiente basare un film sul dialogo e sui conflitti e bisogna evitare di presentare i personaggi in una posizione eretta; bisogna invece scuoterli in tutte le direzioni possibili, in modo che l’aria e lo spazio circostante ne siano saturi. Per fare questo, devo allontanarmi dal tradizionale ideale di moralità, dove il bene e il male sono così nettamente separati.

Stile

Faccio sempre di più di quanto dovrei in una scena e mi batto per questo. Perché credo profondamente che sfondo, mezza figura e primo piano siano tutti e tre egualmente importanti. In teoria l’industria del cinema di oggi concorderebbe con me, ma poi finisce sempre con l’affidarsi ai primi piani.

Energia e film biologici

Promettilo! termina con la frase «Questa è una provocazione» perché intende provocare tutti. Questo film vuole essere arte con un preciso fondamento politico. […] Oggi nei supermercati si vendono prodotti biologici e anche qua al Festival di Cannes abbiamo una sezione biologica, alla quale appartengono i miei film. […] Promettilo! è strutturato come i miei vecchi film, ma ha l’energia e la capacità di coinvolgimento dei più recenti. La sua energia fantastica è il nostro marchio di riconoscimento. Ho promesso al direttore del festival che farò una bevanda, la “Kusturica Energy”, e che la offrirò ai giornalisti per tenerli svegli durante le proiezioni.

Generi e il cinema

Viviamo in un periodo in cui si stanno cercando nuovi modi di fare cinema. Io tento di farlo combinando elementi slapstick e burlesque con tematiche assolutamente serie. Continuo a essere ossessionato da Bruce Lee e Ingmar Bergman, che cerco di conciliare non in maniera diretta, ma in un modo che rispetti l’idea della mescolanza dei generi. […] Questa è una strategia necessaria se vogliamo infondere energia e novità al cinema in quanto arte: bisogna rompere le regole.

Maradona

Ho iniziato dal famoso match contro l’Inghilterra, dove Maradona attraversa tutto il campo superando ben sette giocatori inglesi prima di segnare. Quando vidi quel gol per la prima volta rimasi allibito. Consideravo l’intera azione alla stregua di un film, e nel guardarla mi sembrava di essere un architetto che studia lo stile rinascimentale. […] I grandi campioni creano gli eventi, non costruiscono finzioni, anche se le loro imprese hanno qualcosa di completamente irreale. Questo perché la palla, la più perfetta forma geometrica, vola e si muove secondo traiettorie spesso inimmaginabili. Ogni partita di calcio è alla fine solo una brutta copia dello splendido match fra Argentina e Inghilterra. […] Volevo tornare alla mitologia della mia infanzia al momento in cui il calcio era al centro di tutto. I sobborghi erano i luoghi dove i duri si facevano le ossa e si preparavano al futuro. Questo film mostra la mia fiducia nelle vite parallele che Maradona e io abbiamo vissuto. Abbiamo molte cose in comune. La mia fortuna è che non mi sono capitate tutte le sventure che sono successe a lui, ma come Maradona ho delle opinioni molto forti sulla povertà e le ingiustizie del mondo. […] Maradona ha una sensibilità politica molto intensa, oltre a una rara autonomia e libertà di pensiero. Nel documentario mi sono concentrato su alcuni episodi della sua vita e ho giocato con il montaggio inserendo scene dei miei film.

Conversione

Quando è morta mia madre [2005, N.d.A.] mi sono fatto battezzare con rito ortodosso con il nome di Nemanja. Non volevo trovarmi nella situazione descritta nel Pancho Villa, dove a uno scozzese condannato a morte qualcuno chiede come mai stia scavando una fossa così profonda. «Non voglio che gli avvoltoi mi attacchino dopo morto», risponde. Nei Balcani, anche dopo che te ne sei andato ti continuano a perseguitare, per questioni ideologiche, nazionaliste o religiose – nonostante si stia parlando di un territorio minuscolo! Per evitare questo, ho deciso di diventare ortodosso. Non avevo idea che questo avrebbe causato così tante reazioni, ma sono stato stupido e avrei dovuto immaginarmelo. Quando sento queste cose capisco che non posso rimanere neutrale e penso al futuro dei miei figli. Ecco perché mi sono fatto battezzare nella religione nella quale li ho cresciuti. Non sono un grande credente serbo o ortodosso, ma neanche un grande erzegovino.

Dichiarazioni ricavate da: Serge Kagansky, Arizona Dream. Intervista a Emir Kusturica, «Il Mucchio Selvaggio», n. 18, febbraio 1993; Lorenzo Codelli, Entretien avec Emir Kusturica, «Positif», n. 296, ottobre 1985; Martine Jouando e Desan Bogdanović, Intervista con Emir Kusturica, dal pressbook di Papà è in viaggio d’affari; Alberto Crespi, Intervista: Emir Kusturica, «Cineforum», n. 285, giugno 1989; Emir Kusturica, Entre ciel et terre, «Cahiers du cinéma», n. 425, novembre 1989; Michel Ciment, Lorenzo Codelli, Entretien avec Emir Kusturica, «Positif», n. 345, novembre 1989; Michel Ciment, Comment “voler” le film, «Positif», n. 383, gennaio 1993; Michel Ciment, Entretien avec Emir Kusturica, «Positif», n. 417, novembre 1995; Jean-Marc Bouineau, Le petit livre de Emir Kusturica, Spartorange, Garches, 1993; Luisa Ceretto (a cura di), Emir Kusturica: Visioni gitane di un acrobata, I Quaderni del Lumière, n. 28, 1998; John Wrathall, Gypsy Time, «Sight & Sound», vol. 7, n. 12, dicembre 1997; Momentum and Emotion: Emir Kusturica’s Black Cat, White Cat, «IndieWire», settembre 9, 1999; Intervista, «Politika», 27 maggio 2007; Interview with Director Emir Kusturica, «The Interviewer», 26 gennaio 2010; «Libération», 2 giugno 2006; Goran Čvorović, Maradona’s Dribbling with Stars, Vecernje Novosti, Belgrado, 23 aprile 2008 [tradotto in inglese da Nina Novaković e Matthieu Dhennin]; My Wife Is the Pillar of My Family, «Story», Belgrado, 21 gennaio 2009 [tradotto in inglese da Nina Novaković e Matthieu Dhennin].