Lo scrittore e il turbine della storia

Trovare una collocazione originale nel panorama del romanzo europeo dovette essere, per uno scrittore italiano dell’Ottocento, un’impresa quasi disperata. In effetti i ‘nostri’ scrittori di questo secolo (fanno eccezione Manzoni e – ma solo dopo una tarda riabilitazione – Verga) non hanno acquisito una fama paragonabile a quella dei contemporanei stranieri e ciò non solo all’estero, ma persino nel nostro Paese. In ciò ha sicuramente giocato un po’ di snobismo di stampo provincialistico, ma sono state sicuramente determinanti le condizioni storiche della Penisola: a livello politico una ‘nazione’ italiana è ancora tutta da costruire e a livello economico-sociale sopravvivono forme di aristocrazia feudale accanto ai primi barlumi di una coscienza di classe nelle rare aree in cui si è avviata l’industrializzazione. Ciò significa che la borghesia italiana non può di fatto avere quell’identità forte che la sociologia della letteratura associa alla «ascesa del romanzo», per usare la fortunata espressione di Ian Watt (Le origini del romanzo borghese). Così, mentre in anticipo sui nostri tempi si impongono modelli stranieri con cui gli scrittori italiani devono inevitabilmente fare i conti (non sfuggono nemmeno Foscolo o Manzoni), resta comunque forte il peso della tradizione, vincolante soprattutto sul piano linguistico.

Ippolito Nievo affrontò e in gran parte superò questi pesanti condizionamenti, ma la sua opera attende ancora, quantomeno dal pubblico, il riconoscimento che merita.

Merita riconoscimento, per incominciare, la piena consapevolezza del quadro storico rapidamente tratteggiato. Intanto si pose il problema di conciliare nello scrivere l’esigenza espressiva individuale e quella di una comunicazione ‘educativa’ rispetto ai problemi della nascente nazione. Dichiarò infatti: «Voglio scrivere scrivere scrivere, finché altri avrà pazienza di leggere e al di là», ma era anche d’altra parte determinato a trovare «il modo d’adoperarsi» per non essere «un’inutilità sociale» (dalla corrispondenza con l’amico Andrea Cassa, 1853-1854). In qualche misura Foscolo e Manzoni, come modelli ‘nostrani’, avevano dato forma concreta alle due esigenze importando il romanzo autobiografico (Ultime lettere di Jacopo Ortis) e quello storico (I promessi sposi). Nievo seppe far tesoro della lezione dei due maestri: assunse dal primo l’endiadi Amore e Patria come polo sentimentale personale, ma stemperò la tentazione individualistica sullo scenario della Storia, come aveva fatto Manzoni. Ancora: con l’invenzione di un narratore ‘ottuagenario’ (quello che nel linguaggio cinematografico si definirebbe un lungo e solo flashback) lo scrittore saldò le istanze del sentimento a quelle della ragione, assicurandosi il punto di vista del ‘giudizio’ maturo, insieme storico e morale. Nell’Ortis (come nel Werther, del resto) gli eventi ‘precipitano’ e travolgono il protagonista; nelle Confessioni di un italiano gli eventi coincidono con il tempo che è trascorso e sono collocati in una prospettiva che ne permette, appunto, la valutazione. Ma il sistema morale di riferimento non è, come per I promessi sposi, quello di una religiosità senz’altro autentica, ma confessionale. Per Nievo fu sostanzialmente ‘provvidenziale’ il fatto stesso di vivere, valore la vita stessa, morale il viverla. E ciò valse sia sul piano personale sia su quello dell’impegno politico e sociale. (Viene in mente, non solo per il titolo, il novecentesco Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda). Per questo Carlino Altoviti, il protagonista delle Confessioni, non è mai appagato, è sempre pronto a rimettersi in gioco; passata la giovinezza, non vive di rimpianti e di nostalgia, ma la rievoca con la freschezza di chi vi ha ‘naturalmente’ aderito e ne ha serbato tutto il sapore. Alla fine della vita, non si pone come la Lucia manzoniana l’annoso problema metafisico del male del mondo o, in veste di patriota, non vive il disincanto, come già gran parte degli intellettuali italiani a lui contemporanei: «Ho misurato coi brevi miei giorni il passo d’un gran popolo; e quella legge universale che conduce il frutto a maturanza, e costringe il sole a compiere il suo giro, mi assicura che la mia speranza sopravviverà per diventare certezza e trionfo». Carlino Altoviti si congeda così, nell’ultima pagina del romanzo, ribadendone l’originalità: i ‘suoi’ brevi giorni (la vita è sempre troppo breve, per chi la ama...) hanno misurato il passo ‘d’un gran popolo’. Da questa dichiarazione emerge anche la lucida consapevolezza che Nievo ebbe delle condizioni in cui si trovava a operare come scrittore, di cui si è detto. Se riconobbe, addirittura nel titolo, il debito con un modello straniero (quel Rousseau che sentiva molto affine per la sua natura insieme appassionata e meditativa, per il suo credo insieme laico e religioso, per gli interessi educativi), volle insieme indicare il bisogno per l’Italia di una narrativa propria, in grado di misurarsi non solo con un genere letterario d’attualità, ma con la sua identità di ‘gran popolo’ e di nascente nazione.

Ma nel brano riportato c’è dell’altro. Il frutto che giunge a maturazione, il sole che ogni giorno risorge... Queste immagini evocano un altro grande amore di Ippolito Nievo, indissolubile da quello per la patria e alimento di quello per la vita: il mondo contadino. In uno scritto teorico incompiuto (Frammento sulla rivoluzione nazionale, steso appena prima o appena dopo la spedizione dei Mille), lo scrittore denunciò i rischi che stava correndo il processo di unificazione, collegati all’incomunicabilità o, peggio, all’ostilità tra borghesia urbana e masse agricole, al paternalismo delle classi dirigenti, alla falsa coscienza dei ‘maestri’: «Mal si insegna l’abbicì ad uno che ha fame; mal si presenta l’eguaglianza dei diritti a chi subisce continuamente gli improperi d’un fattore. Sono sforzi che aggiungon la ridicolaggine all’impotenza... Date la facoltà di operare a seconda degl’insegnamenti, prima di fare maestri. In una parola fate degli uomini fisici e morali con una saggia economia, fatene degli esseri uguali a voi, colle leggi, coi codici, coi costumi, prima di far dei saccenti e dei fratelli con le chiacchiere». Nel Novelliere campagnolo (La nostra famiglia di campagna), terminato nel 1856, aveva già appassionatamente scritto che i contadini sono più sereni, più semplici, più buoni degli altri «perché il loro futuro è uguale al passato, e tutti possono contare di vivere così ricchi come sono nati, e di morire sul letto dove è morto il padre loro e l’avo». In altri termini, se si volevano coinvolgere i contadini nell’impresa risorgimentale era necessario dimostrare loro concretamente che il cambiamento avrebbe portato almeno i vantaggi dell’ubbidienza alla natura, che fa maturare i frutti ogni giorno e ogni giorno sorgere il sole... Personalmente Nievo ci credeva: «Io lo confesso senza vergognarmene: ebbi sempre gli istinti quieti della lumaca, ogni qualvolta il turbine non mi portò via con sé» ebbe a scrivere. Che fosse valsa la pena di affrontare coraggiosamente e attivamente, come fece, ‘il turbine’ del suo tempo, vale a dire la ‘rivoluzione nazionale’, fu la sua speranza. In questo senso ha ancora molto da insegnarci, oggi.