2

In quell’andirivieni dalla rampa di uscita del metrò Maragall la presenza di Bruno si fa notare. Raquel finisce in fretta la sua sigaretta; sfoggia lunghe unghie dipinte e un’aria da signora offesa. I capelli, ancora bagnati, hanno un buon profumo. La droga le ha mangiato gli zigomi, ma sono ancora sufficientemente sporgenti da poterci poggiare gli occhiali. Grandi, neri, orrendi. Ha ordinato un tè con latte. E con una bustina di zucchero. Indossa la corazza. Ma sotto la corazza si nasconde un cobra. Le piace questa immagine. I cobra non ci pensano due volte prima di attaccare. Si lanciano al collo appena la preda si distrae. O forse ci pensano. Ma chi cazzo lo sa cosa c’è nella testa di un cobra, oltre al veleno? Magari non c’è niente. Solo il veleno e l’istinto di uccidere. Perché dovrebbe volere altro un cobra?

Dalla faccia di Bruno non si capisce se l’incontro è andato bene o male. Attraversa col rosso. Senza guardare di lato. Come sempre. Come un imbecille. Come un supereroe.

«Magari finisse sotto un camion!»

Quando sente la donna parlare così, Cristian si volta. Vede Bruno attraversare con due falcate i tavolini ed entrare nel locale. Quando si lascia cadere sulla sedia di fianco a Cristian, il rivestimento in finta pelle emette un accordo sostenuto. Raquel non fa una piega. Dopo la discussione di qualche giorno fa, Bruno non dorme più in magazzino, quel capannone gestito dai nigeriani in cui entrambi vivono da mesi. Non ci dorme dal momento del casino con donna Inma e la successiva ecatombe, quando era venuto a sapere che Raquel aveva speso – lei gli aveva detto di averla persa – buona parte dei soldi che lui aveva guadagnato con quella partita. Lei lo sapeva che tanto, prima o poi, sarebbe tornato. Che gli sarebbe passata e sarebbe tornato. Ma non le era sfuggito che, dopo le liti, trascorreva sempre più tempo prima del suo ritorno, e temeva che stavolta non l’avrebbe fatto. Non che avesse paura di non rivederlo, ma, quando fossero arrivati alla fine della loro storia, avrebbe voluto essere lei a giustiziare il colpevole, non il contrario. Un’altra boccata alla sigaretta. La terz’ultima. Un sorso. Il primo. Il rossetto macchia il bordo della tazza. Di nuovo cerca di darsi un tono con un sospiro annoiato. Lì dentro non c’è niente che sia degno della minima attenzione, per cui Raquel insiste a guardare la strada.

«Tutto bene, Bruno?» domanda Cristian.

«Cos’ha tua sorella?»

«Non lo so. Chiediglielo tu.»

«Sua sorella non ha niente» risponde Raquel senza voltarsi.

«Non tenermi il muso.»

«Non te lo tengo.»

«Invece sembra di sì.»

«È una tua impressione.»

«Certo che ho questa impressione. Si può sapere che diavolo ti succede?»

«Niente, Bruno, niente.»

«Se non hai niente allora stai zitta, cretina.»

Raquel si volta di scatto.

«Non ti permettere di dirmi di stare zitta. E di insultarmi.»

«Io te lo ordino e tu stai zitta, cretina.»

Un rapido movimento del braccio di Bruno blocca sul nascere l’intenzione di Raquel di colpirlo. Le afferra il polso, lo stringe, ci pianta le sue unghie annerite, le torce il braccio sul tavolo. Lei tenta di graffiarlo con l’altra mano. O forse di bruciarlo con la sigaretta, che le cade a terra, tra i piedi. L’uomo la tiene ferma, veloce, efficace, senza fare rumore, con movimenti lenti, quasi acquatici. Sfrutta il momento anche per cambiare rapidamente posto, sedersi a fianco della donna ed evitarne la fuga che sarebbe assai probabile qualora lui allentasse la presa. Appena può, le toglie gli occhiali. Lei ha gli occhi piccoli, infossati, come scavati nel tronco di un albero.

«Hai buttato al vento la metà dei soldi che ti ho dato. Sarebbe stato meglio che me li avessero presi gli sbirri. Mi sfuggi come fossi un appestato e adesso te ne esci con questi modi da troia di lusso. Ma chi cazzo credi di essere?»

«Bruno, lasciala, le fai male.»

Dietro il bancone, un cameriere fa finta di non vedere. Cristian si alza e va verso di lui. Ordina due birre e un altro tè con del latte. A quanto pare, la donna ha fatto raffreddare troppo l’altro e adesso è imbevibile. Cristian lascia denaro più che sufficiente per le consumazioni.

«Guardi che non si può fumare.»

«E chi fuma?»

«La signora.»

«La signora non sta fumando.»

«Prima fumava.»

«Prima tutti fumavano.»

«Volevo dire, un attimo fa.»

«Non me ne sono accorto. Lei è sicuro che stesse fumando?»

«Sicuro.»

«Glielo dirò. La signora è nervosa. Magari è stato per questo: ha i nervi e ha fatto il gesto nervoso di fumare, ma senza accendere la sigaretta. Molte volte succede anche a me.»

Al tavolo c’è tensione. Arriva Cristian con le birre e il tè, il latte caldo e tre bustine di zucchero. Raquel ne usa una sola. Passano i minuti. Nessuno dice niente.

«Dai, lasciate perdere, tanto è sempre uguale.»

«Io?»

«Ma sì, che senso ha stare così, se tra un attimo starete già bene...? Siamo una famiglia, cazzo. Sistemate le vostre cose. Vediamo, che cosa è successo?»

«È successo che lei non mi ama.»

«Certo che ti ama, Bruno, non fare il bambino.»

Lui gli lancia uno sguardo obliquo. Che cazzo succede a Cristian? Non fare il bambino? Deve avere cambiato le pastiglie per dormire! Da quando si è messo a fare l’assistente sociale? E a lui, invece? Che sta succedendo a lui? “Lei non mi ama.” Mostra le carte come un principiante. Cancellalo, cancellalo immediatamente.

«Certo che ti ama. È vero che lo ami, Raquel?»

«Fatti i cazzi tuoi, Cristian.»

«Non parlavo sul serio, signorina. Non me ne frega un cazzo se mi ami o no. Secondo te non me ne sono accorto che non mi hai mai amato?»

«Sempre la stessa storia.»

«Sì, c’è solo una storia.»

«Che palle, Bruno, che palle.»

«Lo vedi? Lo vedi? Chi è che cosa? Chi fa che cosa?»

«Va bene, smettila.»

«Lo sai di cosa sono sicuro? Lo sai?»

«No. Di cosa?»

«Che in realtà c’è una cosa di me che lei ama. E amerà sempre.»

«Bruno, sempre la stessa musica. Cambia disco ogni tanto...»

«I miei soldi. I soldi di Bruno, quelli li ama, altroché...»

«Il signor Danaroso... Bruno il Danaroso.»

«Piuttosto, hai portato il quaderno?» lo interrompe Cristian.

Raquel sospira ed espira con la bocca aperta. Le manca qualcosa. Si chiede dov’è finita la sua sigaretta. Ne accenderà un’altra. Ma prima, pensa, la cosa migliore è sbloccare quella situazione, affrontare il discorso che devono affrontare e, dopo un po’, ognuno per la propria strada. Cerca il quaderno. Non riesce a tenere a freno la lingua. Il cobra. Al collo.

«A proposito, signor Danaroso, Brenda e la tua nuova fidanzatina vanno in giro per il quartiere a vantarsi.»

«Quella figlia di...»

«Dai, basta. Com’è andata con quello della Passat?» interviene Cristian, quasi gridando.

«Bisognerà lasciarlo tranquillo per un paio di mesi.»

«Perché?» chiede la donna.

«Perché sì. Perché faccio quello che cazzo mi pare.»

Raquel gesticola rivolgendosi a Cristian. Oggi non sarà per niente facile, pensa lui. Bruno, comunque, sembra avere sintonizzato la manopola su una frequenza più equilibrata, malgrado la risposta. Raquel si accende un’altra sigaretta. Il cameriere le fa un cenno. Lei inforca gli occhiali neri e non vede più niente di ciò che non vuole vedere. Specialmente il cameriere.

«Io so quando fare certe cose.»

«Già.»

«Se questa gente la soffochi troppo, finisci per perderla, e allora addio affari.»

«Un vero filosofo...»

«Dovresti imparare la lezione.»

«La so già.»

«Qualche problema?»

«No, solo che mi ricordo qualcuno che diceva che è meglio...»

«Raquel...»

«...che bisogna picchiare subito forte. E poi dimenticarli.»

«Questo è diverso. Ogni caso è diverso dagli altri. Bisogna essere anche un po’ psicologi, cretina.»

«Non parlo più.»

«E poi questo qui lo abbiamo già ripulito abbastanza. Non ti pare?»

«Non lo so. Se lo dici tu...»

Raquel appoggia sul tavolo un vecchio quaderno a spirale con una copertina nera sulla quale Robinho, con la maglia del Real Madrid, esulta dopo un gol. A quel punto lei si disinteressa del resto. Non apre il quaderno, che è ciò che gli altri si aspettano. E se lo aspettano perché è quello che fa sempre dopo averlo appoggiato sul tavolo. Robinho e Cristian si spazientiscono. Bruno sembra divertito dalla scena. Non gli dispiace che Cristian veda con i propri occhi come è fatta sua sorella, chi è che fa sempre casini. Raquel, da parte sua, sa che non dovrebbe avere quell’atteggiamento, ma non riesce proprio a evitarlo. Almeno per il momento. Cristian si rivolge a lei con un tono assai poco amichevole.

«Ragazzina, vedi di stare al tuo posto. Questi sono affari, capito? Non è il momento di giocare ai fidanzatini. Cerca di concentrarti. Fai attenzione. Perché altrimenti potremmo decidere di andare avanti anche senza di te, e credo che non ti piacerebbe.»

Lei vorrebbe replicare ma sa che il fratello ha ragione. Non ha frenato in tempo. Bruno non è un problema, sa come gestirlo, ma Cristian è un’altra cosa. È sempre stato un’altra cosa. Cerca una penna nella borsa, e dopo averle trovata apre il quaderno alla prima pagina vuota.

«Allora, cancelliamo la mensilità di quello con la Passat?»

«Sì.»

«Quindi faccio risultare che ha già pagato tutto?»

«No.»

«Allora come facciamo? Stai diventando un po’ troppo morbido.»

«Sì. No. Sì e no.»

«Andiamo bene...»

«Ha già pagato tutto, idioti. In realtà, ero così incazzato per quei soldi persi che gli ho fatto pagare tutto e anche qualcosa in più» dice Bruno.

Cristian lascia scappare una risatina prima di bere il resto della birra. Raquel vuole evitare che Bruno veda il sorriso che ha stampato in faccia, per cui china immediatamente la testa. Stenta a distinguere i numeri con gli occhiali scuri, ma non se li toglie. Riesce a cancellare la cifra stabilita per l’uomo della Passat. Mette un +. Poi aspetta che Bruno le dica quanto ha incassato in totale.

«Quanto?»

«Qualcosa.»

«Misterioso il ladro... come sempre.»

Tanto Cristian quanto Raquel sanno che Bruno alla fine lo dirà. Gli piace fare il prezioso. Ricordare a entrambi, qualora lo avessero dimenticato, chi è che sa fare le cose per bene. Da chi dipende che la vittima non muoia soffocata o sparisca prima del tempo. Insomma, chi è il capo.

«C’è altro?»

Quindici righe per ogni foglio del quaderno. Scritte con la calligrafia di Raquel. Modello e targa della macchina. Nome del proprietario. Numero di telefono. Indirizzo. Di fianco ad alcuni di quei nomi, la maggior parte, le quantità di denaro scritte in rosso che a volte coincidono e a volte no. Due, tre, quattro mensilità, e addio. Di che cosa si tratta? La grande idea di Bruno, il suo capolavoro. Le entrate di denaro che consentono a Raquel di sognare di uscire dal capannone dei nigeriani. Per Bruno, invece, solo un periodo positivo che porterà a un altro ancora migliore. Cristian la pensa più come Bruno che come Raquel. Fino a poco tempo fa, la sua percentuale gli sembrava corretta, anche se la donna ha già cominciato con la solita solfa, mettendo il dito nella piaga. Se un giorno, per un caso sfortunato, Bruno andasse in galera, i soldi bisognerà riscuoterli comunque, e allora...

«Niente.»

«Abbiamo delle cose da decidere.»

«Quali cose?»

«Se è il caso di lasciar perdere Sants e la casa di Pedralbes.»

«E gli altri posti?»

«A Castelldefels ormai da parecchio tempo non facciamo più niente.»

«Sì, è vero.»

«Vogliamo tornare a operare lì?» domanda Cristian.

«No, lasciamo stare ancora per un po’ Castelldefels. Devo pensarci bene. Ne parleremo quando sarà il momento. Oggi non facciamo niente. Andiamo a farci una paella alla Barceloneta, da Paco. Offro io. La signora ha fame?»

Raquel mette via il quaderno. Si alza. Prende il pacchetto di sigarette, l’accendino e la penna. Si fa scivolare una mano sul culo, per verificare che la finta pelle della sedia non le abbia giocato un brutto scherzo con la gonna, ed esce. Non ha intenzione di rispondergli. Nessuna intenzione. Ma quando gli uomini si avviano verso la metropolitana, lei li segue. Quasi indifferente, con la sua sigaretta e con la chioma che ondeggia come un elefante ubriaco. Va matta per la paella. Bruno lo sa, e Paco prepara una paella da urlo. Cosa potrebbe fare lei contro tutto questo?