Stasera Bruno è alterato. È arrivato euforico dal medico, che gli ha tolto il drenaggio al timpano. Prima era passato dal registro automobilistico e aveva riempito i moduli necessari per conoscere i proprietari dei veicoli che erano riusciti a localizzare; non che avesse ricevuto buone notizie, ma era quasi sicuro che da quattro di loro avrebbero potuto cavare qualcosa. In uno degli internet point pachistani del quartiere aveva trovato su Google i telefoni dei proprietari delle auto, e adesso era solo questione di incrociare chiamate, sospetti e intuizioni e poi passare all’incasso.
Uscito dall’internet point, ha telefonato a Raquel. La donna è arrivata mentre Bruno stava finendo una birra. Anche lei è stata dal suo medico, ma Bruno non domanda niente perché, secondo lei, non gli interessa niente tranne se stesso. Ormai non se la prende più quando non chiede, quando non sa, quando non pensa che gli altri possano avere i loro problemi, i loro demoni, le loro brutte giornate. E oggi è una di quelle giornate. L’epatite C le sta prosciugando il fegato e, dopo i due tentativi falliti con l’interferone, l’hanno messa in lista d’attesa per il trapianto. Una lista lunga, nella quale le passano davanti tutti: bambini, padri di famiglia, immigrati con venti figli, gente perbene senza un passato di tossicomania né di alcolismo, persone che non sono considerate a rischio, al contrario di lei, e forse per questo finirà per morire, raggrinzita, gialla e secca come una fiammella la notte di San Giovanni.
Cos’altro fare se non prendersi una sbronza bella grande e, a quanto sembra, malinconica? Una sbronza di mille gin tonic e, se arriva Cristian, anche fumare un po’ d’erba. Magari schiatterà, e a quel punto la loro lista d’attesa potranno ficcarsela dove vogliono!
Sono passati al bar di Joan ma il lunedì, a quanto pare, il cinese chiude. “Questi qui si adattano in fretta” pensa Raquel con un ragionamento e un tono che ha preso in gran parte da Bruno, anche se le costa ammetterlo. “Sono comunisti. Quando arrivano sono dei morti di fame, non hanno le palle per affrontare i loro padroni e poi vengono qui a fare danni, abbassano i prezzi e sconvolgono il mercato, fanno licenziare gli spagnoli, restano aperti la domenica e le feste comandate. Tutto in nero, evidentemente, perché altrimenti non si capisce come fanno. Come quando io lavoravo nel negozio di scarpe. Chi vuole ancora buone scarpe che non facciano male ai piedi? Poi però, se il lunedì vuoi farti una birretta, vieni qui e trovi chiuso, perché i signori riposano.” Adesso sono nel locale di Mireia, il Mauri, un sudicio club del Barça che funge anche da bar, e dove, per un motivo o per l’altro, c’è sempre casino. Le decorazioni sono come quelle delle vecchie cantine di un tempo, con enormi botti di vino – probabilmente vuote da lustri –, foto di modelle e cantanti – probabilmente morti anch’essi da lustri –, manifesti di corride e imprese sportive del club, risalenti anch’essi alla notte dei tempi. La figlia del proprietario, Mireia, caracolla fra i tavoli muovendo i fianchi come le macchine da autoscontro, con quel modo tutto suo, selvatico ma piacevole, di servire i clienti. Il padre è sempre inchiodato dietro il bancone a servire le birre, davanti a uno spillatore di design firmato Lorenzo Quinn, un tentativo vano e lontano di ammodernare il locale che nessuno si avventura a ricordare. Il figlio più piccolo carica casse, aggiusta frigoriferi e si dedica a spegnere e attizzare liti con arabi, tifosi del Real Madrid e altre persone malviste da queste parti, ma delle quali si sente la mancanza quando non si fanno vedere per due giorni di seguito.
Raquel guarda Bruno, che sembra alterato e, di colpo, si tappa le orecchie per non sentire né lui né gli altri. Le piace quella sensazione sottomarina di silenzio blu. Le piace vederlo paonazzo, assecondato dal figlio del padrone, quando urla, sputa parole tra i denti sparando a zero contro un mare di magrebini che stanno dall’altro lato del locale. Tutto è cominciato con il telegiornale. Immagini da Pakistan, India, Iran... Raquel non lo ricorda con precisione. Facevano vedere una folla che ammazzava di botte due ragazzini di tredici e sedici anni, che avevano approfittato del caos creato da un’inondazione per rubare materiale di nessun valore per giocare a cricket. Bruno, che nell’internet point era stato costretto da due marocchini ad aspettare, non è riuscito a resistere, e ha sbottato sfoderando tutto il repertorio, dai Re Cattolici fino all’isola di Perejil. Gli altri hanno risposto ricordando Granada, gli ebrei, la Palestina, Ceuta e Melilla. Poi è stato il turno delle Torri Gemelle, la Santa Inquisizione, Giovanna d’Arco, le adultere lapidate, Hitler, le bambine e le mutilazioni genitali che subiscono, l’Opus Dei, le caricature di Maometto...
«Ma come potete negare che questo vi rende inferiori... che siamo migliori di voi? Ma l’hai visto il filmato? E non dici niente?»
«È solo una notizia falsa. Si tratta di...»
«Falsa un cazzo! Quei ragazzini sono morti. Ed erano musulmani, erano dei vostri. Il vostro dio vuole questo? Siete un branco di assassini che vivono ancora nel Medioevo...»
«Bruno...»
«Che reazione avete quando vedete una cosa del genere? Che cosa fate? Eh, dimmelo. Che cazzo fate? Andate a chiedere giustizia come quando vi toccano le solite quattro stronzate, le moschee e il rantanplan, o ramadan, come diavolo si chiama?»
«Niente di quello che dici è vero. La legge è legge e va rispettata. Gli ebrei, gli Stati Uniti e...»
«Mi fate tutti un bel pompino. Tutti. Tutti. Non se ne salva neanche uno...»
«Bruno...»
«È vero che costringete le donne a indossare una specie di sacco perché nessuno le deve guardare? Con le nostre donne però vi cadono gli occhi, vi prudono le mani... ma con le vostre, quante premure! Un sacco addosso. Meno male che le coprite, perché fanno pure schifo...»
«Bruno, stai esagerando...»
«Lasciami in pace, Raquel. Sono stanco di tutta questa gentaglia...»
E Raquel lo lascia in pace. In definitiva, gli uni o gli altri non sono altro che una manica di stronzi. Gli uni coprono la faccia alle donne, le murano vive, gli altri le buttano giù dai balconi e se le scopano sul marciapiede. Gli uni le trasformano in sedie, mobili, in sacchi dentro casa, e gli altri le lasciano buttate lì, le rendono schiave del sesso, le costringono a spaccarsi la schiena per il lavoro, sfruttate ed esauste sul pavimento del supermercato.
E lei, Raquel, che ha bisogno di un fegato. La tua vita si consuma, bambina, ti scivola via tra le dita, ne resta sempre un po’ meno, ogni giorno. Lei ha avuto tutto. O almeno adesso la vede così. Ha avuto una casa. Ha avuto un marito lavoratore e dei figli nati al ritmo delle vacanze al mare e delle automobili cambiate. Ha avuto un lavoro. Ha avuto amiche che le offrivano il caffè e andavano a cena da lei il sabato. Quando è iniziato ad andare tutto storto? Ormai neppure se lo ricorda più. Lei tradiva suo marito. Suo marito tradiva lei. Le piaceva la notte. Si era innamorata dell’uomo sbagliato. Di uno che aveva la parola “disastro” scritta in fronte perché tutti la leggessero. Tutti tranne lei, ovvio. Aveva perso la testa per uno che la portava in posti dei quali ignorava anche l’esistenza. Posti dentro e fuori di lei, nella sua pelle, nelle sue viscere, nella città. Uno che non aveva un domani ma solo un presente immediato, fugace, come un cerino che brucia ma tu sai che non vale la pena tentare di mantenerlo acceso e stai lì, godendo, a guardare come si consuma, come ti brucia i polpastrelli. Uno che l’aveva drogata per la prima volta con quell’ago delicato. Uno che le aveva rotto il culo, pure per la prima volta. Uno che aveva deciso di lasciarla per non portarla dove andava lui, in un paesino, in casa di amici, a gestire un negozio che vendeva mobili marocchini o qualcosa del genere, e vivere al sole. Lei voleva andare con lui. Perché tutto quello le sembrava un paradiso e non avrebbe mai permesso che accadesse senza di lei. Aveva dovuto scegliere e aveva scelto. Era andata via con lui. Si era scrollata di dosso i suoi figli – sarà solo per qualche mese, diceva senza credere fino in fondo alla sua bugia – e tutto ciò che aveva, tutto ciò che poteva portarsi e non si era portata. Lei voleva solo una pausa, forse la libertà di coloro che sanno non guardare indietro, dei morti dimenticati nei cimiteri. Ma lì, nel paradiso, lui non c’era già più. C’erano la sua faccia, le sue mani, la sua bocca, le sue parole, ma lui no. Non più. E un giorno non c’era più nemmeno quello. L’attività che avevano aperto – un locale, qualche mobile, un computer – era passata dopo poche ore in altre mani, e il suo uomo era già l’uomo di un’altra. E quell’uomo che non era più il suo uomo le consigliava di tornare con suo marito e i suoi figli, perché lui si era stufato e voleva essere lasciato in pace. Lei ci aveva provato – ad abbandonarlo, a dimenticarlo, ad avere orgoglio, a tornare –, ma ormai era troppo tardi per tutto. Una mattina, nella pensione ancora da pagare, si era guardata nello specchio del bagno e aveva scoperto che lei era ancora lì, ma tutto il resto no. La sua anima era rinchiusa nel corpo di una tossica con due occhiaie profonde, spettinata, con gli occhi da pazza, di chi ha passato notti e notti a cercare chi non voleva stare con lei, gli occhi di una donna che ormai era andata a letto con chiunque potesse darle i soldi sufficienti per iniettarsi una dose. Allora aveva pensato a Cristian, e Cristian l’aveva salvata e portata a Barcellona.
Cristian è suo fratello ma non lo è. Il padre di Raquel aveva lasciato sua madre e se n’era andato a vivere con una donna che aveva già un figlio da un altro. Questo figlio di un altro è Cristian. Bruno questo non lo sa. Non gliel’ha detto quando si sono conosciuti. Lui crede che siano fratelli, figli dello stesso padre. E che per questo non possono scopare. Ma non è così. Né una cosa, né l’altra.
Un rumore metallico. È il modo più efficace che Mireia possiede per ottenere silenzio nel suo bar, gettare acqua gelata su qualsiasi discussione. I clienti abituali lo sanno e lo accettano perfino con simpatia. Mireia lascia cadere il vassoio vuoto, quello che porta avanti e indietro tra il bancone e i tavoli, da un’altezza sufficiente a imporre un punto finale alle discussioni. A Raquel, che si è tappata di nuovo le orecchie, quel rumore arriva attenuato, non le dà fastidio e le permette di vedere i movimenti di tutti come al rallentatore. Si accorge di qualcosa. Anche Bruno. Sono le otto di sera. Troppo presto perché succeda qualcosa di grave nei bar, nelle strade del quartiere. Ma entrambi vedono che i magrebini adesso tacciono, che sono incazzati, e che Bruno è solo e ha bevuto troppo. Uno di loro parla all’orecchio dell’altro, e questi esce dal bar. È evidente che va a cercare rinforzi tra i suoi per affrontare Bruno. Raquel lo sa. E dovrebbe saperlo anche Bruno.
«Andiamo via.»
«Perché?»
«Lo sai benissimo anche tu.»
«Non saranno quelle merde a farmi abbandonare il bar. E poi abbiamo appuntamento con Cristian.»
«Possiamo vederci da un’altra parte. Ora lo chiamo sul cellulare.»
«È già qui.»
Cristian, ignaro di ciò che è accaduto nel bar, arriva sorridente. Raquel tenta di indovinare, guardandolo negli occhi, se quell’allegria è naturale o forzata, ma non ci riesce. I suoi poteri l’hanno abbandonata. Le transaminasi le hanno tolto l’intuito da strega. Deve essere proprio questo.
«Amico, non te la cambi mai quella maglietta?»
«Questa?» dice Cristian afferrando la stoffa sul petto. «È la mia maglietta portafortuna.»
«Sarebbe meglio non attirare troppo l’attenzione.»
«Non ti preoccupare. È verde, quindi mi posso mimetizzare nel bosco.»
«Un paio di palle. Piuttosto, delle sei targhe che hai trovato, solo quattro sono utilizzabili. Delle altre due, una era l’auto di una compagnia di assicurazioni, sì, la Ford, quella nuova. L’altra, quella guidata dal lungagnone, era a nome di una donna.»
«Potrebbe essere della moglie.»
«Sì, potrebbe, ma, dall’aspetto, quello lì mi sembrava più un imbecille che vive ancora con la mamma e guida la macchina della vecchia.»
«Possiamo controllare.»
«Va bene, non ci perdiamo niente.»
«Chiami tu, Raquel?»
«C’è qualche donna?»
«Una.»
«Faccio solo quella. Dovremmo andarcene, Bruno. L’arabo ha appena ricevuto una chiamata sul cellulare.»
«Sarà Bin Laden.»
«Impossibile, è morto» risponde Cristian, accodandosi allo scherzo.
«Mi arrendo. Fai come ti pare, Bruno. Vuoi continuare a fare lo sbruffone, ma io stavolta non ti faccio da infermiera e da mamma. Lasciamo perdere. Cosa chiediamo?»
Bruno distribuisce a entrambi i fogli stampati. La sua grafia è brutta, storta, quasi timida, scritta a penna. Cristian e Raquel la riconoscono subito.
«Vi ho indicato la cifra vicino al numero di telefono e alla targa della macchina. Tra la faccia che avevano i nostri pollastrelli e il tipo di automobile, ho scritto come sempre quello che, secondo me, possiamo spremergli.»
«Siamo come una concessionaria» scherza Cristian.
«Sì, una fottuta concessionaria dell’amore e delle corna.»
«C’è altro? Sono stanca. Tu resti qui?» chiede Raquel a Cristian.
«Sì... boh... non lo so.»
«Ordiniamo qualcos’altro, Raquel?»
«Andiamo via, Bruno. E tu perché non esci con noi, Cristian?»
«Che succede? Non sei capace di uscire senza il tuo fratellino? Prima o poi mi toccherà fare lo stronzo con voi due...»
La donna lo ignora. Lei vuole solo stare in pace con la propria coscienza. Vuole sapere se Cristian ha portato qualcosa, qualunque cosa, se beccherà qualcosa. Ha bisogno di un trapianto per vivere. Ha bisogno di bere, di stordirsi fino a quando non le importerà più niente di niente, neppure sapere se vuole continuare a vivere.
«Vieni o no?»
«Dimenticavo. Il lavoro che hai fatto tu da solo, Cristian, quando sono dovuto andare dal medico. Quello della Saab... Non ho messo nessuna cifra. Com’era? Ti sembrava uno danaroso?»
«Sì, portava giacca, cravatta e tutte quelle stronzate.»
«Chiedigli quello che vuoi. Ma ricordate, niente telefoni fissi o cellulari, solo internet point e telefoni pubblici, d’accordo? Vado a pagare.»
Appena Bruno si separa da loro, Raquel affronta Cristian direttamente.
«No, non ho niente.»
«Maledizione!»
«Magari becco qualcosa dopo.»
«Dopo quando?»
«Non mi avevi detto che ti saresti comportata bene?»
«Hai qualche appuntamento?»
«Devo passare per la plaza del Niño del Aro a vedere se c’è qualcosa lì, oppure da Lip’s. Bruno viene?»
«Ha la partita. Ammesso che esca vivo dal bar. Vieni con noi, perché ha detto qualche parola di troppo a un paio di arabi e credo che ci sarà casino.»
«Cazzo, lo sai che io non sono portato per le risse.»
Bruno torna infilandosi in tasca le monete del resto. All’altro estremo del bar, una partita a carte ha generato una discussione e uno dei giocatori si è allontanato. Viene sostituito immediatamente. Bruno gli augura tutta la sfiga del mondo.
«Tutto sistemato, fratellini, il Guerriero Mascherato se ne va passando per i cessi, perché ci sono i mori che mi aspettano fuori.»
«Complimenti per il coraggio» chiosa Raquel.
In fondo al locale, una porta a due ante in legno dipinto di azulgrana, i colori del Barça, funziona come faro per ubriachi e sbandati che hanno voglia di pisciare. Il bagno è lo stesso sia per le donne sia per gli uomini. Nello stanzino, oltre alla porta che dà sul pisciatoio con il suo specchio ormai opaco, la sua catena con l’impugnatura bianca, il water col suo coperchio color legno e il pavimento coperto di segatura, ci sono le casse con le confezioni vuote di Cacaolat, birra, Coca-Cola e, in mezzo a quelle, una porticina che dà su un vicolo posteriore. È un’uscita che pochi conoscono. Bruno dubita che i magrebini sappiano della sua esistenza. Apre la porta. Il vicolo è deserto, fatta eccezione per il vecchio Tomás, con i piedi in un catino, seduto sulla sua sempiterna seggiolina di corda.
«Forza, andiamo, non c’è nessuno.»
«Io non vengo, Bruno.»
«Tu vieni con me. Resto un’ora, al massimo due e poi proseguiamo.»
«Lo sai che non è vero. Che ci faccio io lì? Tra l’altro l’ultima volta ti sei innervosito e hai perso. Te lo ricordi?»
«Me lo ricordo. Certo che me lo ricordo. Quasi mille euro, porca puttana. E cosa pensi di fare?»
«Resto qui con Cristian e poi vado a casa.»
«Se finisco presto ti chiamo.»
«Va bene.»
«Un bacio.»
Bruno apre la bocca per baciare la sua donna. Il suo alito sa di tabacco, di alcol, di notte brava. Strizza l’occhio a Raquel che gli fa un gesto per dirgli di sbrigarsi e non sfidare l’ira di Allah. La donna chiude la porticina mentre sente i passi di Bruno allontanarsi nel buio e il gemito di un vecchio che deve essere il saluto di Tomás, con i suoi piedi piagati immersi in acqua e bicarbonato.
Non si sente più niente. Raquel se ne sta lì, al buio, quieta e nascosta da tutto, per alcuni istanti, fino a quando la assale il timore che Cristian se ne sia andato. Un cliente del bar entra per andare al bagno e si spaventa nel vedere la sua sagoma disegnata nell’oscurità. La donna si scusa e torna alla luce. Cristian non è al tavolo. Raquel, ansiosa, guarda dappertutto e alla fine lo vede, appoggiato al bancone, parlare con quella reliquia di telefono che il Mauri ancora conserva, e annotare qualcosa con la penna che la focosa Mireia gli ha lasciato. Raquel lo saluta e gli indica che lo aspetta al tavolo. Quando Mireia si avvicina, le chiede un altro Tanqueray.
«Cosa sta facendo mio fratello?»
«Non ho idea. Mi ha chiesto carta e penna. Si vede che col mio telefono fisso paga meno che col cellulare. Magari sta chiamando la fidanzata.» Mireia sonda il terreno. Ha perso la testa per Cristian, lo sanno tutti. Anche a Raquel va bene, perché così si fa applicare alle consumazioni il tre per due stile Carrefour mentre l’ultima consumazione, di solito, è omaggio della casa. Cristian non mostra interesse per la ragazza, ma si lascia amare quanto basta per mandare avanti divertimento e affari, il flirt, le fantasie e avere il tavolo migliore le sere in cui vengono a vedere le partite alla tv. Un tempo sentiva le fitte della gelosia come aghi conficcati nella gola, con tutte quelle che ronzavano intorno a Cristian, ma è acqua passata. È passato un secolo ormai, ed è possibile che siano diventati davvero fratelli. Come Hänsel e Gretel. Uguali a quei due, ma senza la strega.
Ordina ancora da bere. Uno degli arabi entra nel locale in cerca di qualcuno che non c’è. Cristian torna al tavolo.
«Non mi dire che stavi chiamando da qui.»
«Lo faccio quasi sempre.»
«Se lo viene a sapere Bruno...»
«Non lo verrà a sapere.»
«Perché non chiami da un internet point?»
«Non mi piacciono quei posti. C’è sempre la fila e puzzano. E poi è lo stesso. Chi vuoi che ci venga qui?»
«Va bene, basta non farlo sapere a Bruno...»
«Tranquilla. Tu come stai?»
«Di merda. Ho bisogno di un fegato nuovo.»
«Quasi tutti.»
«No, parlo sul serio. Sono in lista d’attesa per un trapianto.»
«Cosa? La lista della spesa...?»
«Non fare lo spiritoso.»
«Cazzo, che roba. Dai, non ti preoccupare. Queste cose sono rapide» le dice passandole il braccio sulla spalla mentre lei gli dà un bacio sulla guancia. «Non buttarti giù. Male che vada, lo compriamo.»
«Sei pazzo? E dove vorresti comprarlo?»
«Al mercato della Boqueria. Lì c’è un po’ di tutto. Un fegato di merluzzo ce l’avranno di sicuro.»
«Stronzo!»
Raquel gli dà uno spintone mentre scoppia in una di quelle risate fragorose che fanno sì che la vita e la notte siano posti nei quali stare bene, nei quali anche gente come loro può essere felice. In lontananza il vassoio di Mireia sbatte di nuovo per terra. Sta per iniziare il notiziario sportivo.