«Per qui pregunta?»
«No ho sé.»
«Aquest és un telèfon públic. És un bar. Sta chiamando un bar» spiega Mireia, che passa dal catalano al castigliano senza motivo apparente, forse per l’accento dell’interlocutore o per rendere più formale la conversazione.
«Vorrei parlare con la persona che mi ha chiamato da questo telefono due giorni fa verso le nove di sera.»
«Non la posso aiutare. Un sacco di gente usa questo telefono.»
Mireia invece ricorda perfettamente che due giorni prima l’unico a chiederle di fare una chiamata era stato Cristian.
«Mi rendo conto che la mia telefonata può sembrare strana, ma non si preoccupi. Mi ha chiamato per offrirmi un affare. Non ci siamo capiti ma poi ci ho pensato meglio e credo che quell’affare mi possa interessare. Le lascio il mio telefono, nel caso in cui dovesse tornarle in mente chi è stato. Mi faccia questo favore. Può scrivere...?»
«Sì, prendo nota.»
Mireia cerca una penna e un foglio di carta. La prima sa dove trovarla, anche se è bagnata e forse non funziona. Per la carta è più complicato. Nel cassetto insieme alla penna non ce n’è neanche un pezzettino. Sul bancone non c’è un contenitore per i tovagliolini, e di sicuro lei non pensa di sforzarsi più di quanto stia già facendo. Il tizio non fa altro che chiedere, e lei, Mireia, non ha nulla da guadagnarci. Be’, forse qualcosa sì, pensa. Una scusa per abbordare Cristian appena entrerà dalla porta. Forse un segreto. Un cliente abituale – tutti lo sono, perché nel suo bar vanno quelli di sempre e, purtroppo, solo quelli –, il signor Castillo, sta leggendo un quotidiano sportivo mentre dà l’ultimo sorso al suo carajillo, ormai freddo e quasi imbevibile. Mireia bofonchia qualcosa che potrebbe essere un “Per favore” e gli prende il giornale dalle mani. Sull’angolo di una pagina annota il numero di telefono, poi strappa il foglio, macchiato da mezza mattinata di olio e molliche di pane. Quindi restituisce l’oggetto mutilato al suo lettore che non riprende la lettura, come fosse stato scoperto nel suo miserabile tentativo di perdere tempo, fingendo di interessarsi all’acquisto di questo o quell’altro calciatore nel mercato invernale. A Mireia piace offrire alla clientela dettagli come quelli. Si compiace della sua competenza, della sfacciataggine, della sua assenza di buone maniere e di timori; è una specie di Calamity Jane di quartiere, femmina dalla testa ai piedi.
«Non le prometto niente. Farò circolare la voce. È tutto quello che posso fare per lei.»
«Grazie. Vuole che richiami?»
«No, può anche fare a meno di richiamare. Se la persona che cerca non si fa viva con lei, vuol dire che non sono riuscita a trovarla o che magari non vuole parlare con lei. Ho cercato di essere gentile ma qui ho un sacco di lavoro e sono da sola. Piuttosto, lei che fa tante domande, come ha detto che si chiama?»
«Ho detto... Frankie» mente Max, aiutato dalla compilation anni Ottanta che suona nella sua auto in quel momento. «Mi può dire dove si trova esattamente il bar? In quale...?»
Mireia però ha già riagganciato. Dalla porta ha visto entrare Cristian, quasi evocato dalla chiamata. Non indossa l’eterna maglia verde portafortuna, e questo può significare due cose. O è passato a casa di Raquel e ha lasciato la roba sporca, oppure stasera ha un appuntamento. O entrambe le cose, maledizione. Mireia si scioglie i capelli prima di chiamarlo a gran voce dall’altro lato del bancone. Cristian ispeziona il bar ed entra.
«Chi cerchi, tesoro?»
«Bruno.»
«Da queste parti non si è ancora visto. Magari è dai vostri amici cinesi» lo provoca, gelosa e intraprendente.
«Joan e la sua famiglia sono brave persone.»
«Certo. Come Fu Manchu. Tu lo sai chi era Fu Manchu? Mio padre mi spiegava i film di Fu Manchu. Ecco, loro sono Fu Manchu. Tutti i cinesi sono Fu Manchu.»
«So chi era, Mireia. Però non mi risulta che Fu Manchu gestisse un bar o facesse panini.»
«Panini con carne di cane.»
«Dammi una birra.»
«Un bicchiere?»
«No, bevo dalla bottiglia, come i veri uomini.»
«Vedo che ci siamo fatti belli, c’è aria di festa?»
«Io non festeggio più. Ormai sono fuori mercato.»
«Sicuro?»
«Sicuro.»
«Ecco la tua birra, signor Vero Uomo.»
Entrano degli operai che indossano una tuta verde. Si siedono a un tavolo. Da qualche giorno sono puntuali come un orologio. Mangiano e bevono senza fare casino e se ne vanno sempre alla stessa ora. Questi sono i clienti che le interessano e non quegli ubriaconi, disgraziati, rifiuti umani che consumano solo le sedie e le tessere del domino, pensa Mireia, ma in questo momento è la donna che prevale e non vuole perdere il filo che la lega a Cristian. Cerca con lo sguardo suo fratello in fondo al locale, e lo trova alle spalle di uno dei giocatori che si stanno scannando a carte. Con l’aiuto di un cliente, lo strappa alla sua concentrazione e, con un gesto deciso, lo spinge verso il tavolo dei nuovi arrivati.
«Calma, calma, ragazza...» commenta Cristian.
«È ora che lavori un po’ anche quel bestione, ne ho le palle piene di dover fare tutto da sola.»
«Figlia mia, come sei romantica...»
«Ha parlato il membro della Casa Reale.»
«Chi era quello?»
Cristian indica una vecchia foto con autografo, incorniciata e appesa dietro le bottiglie, e che in qualcosa ricorda una croce sull’altare. Nell’immagine, un giocatore con la maglietta biancazzurra con il collo a V, la palla tra i piedi e un incedere maestoso.
«Un amico di mio padre. L’unico dell’Espanyol che ammetto nel mio locale.»
«L’hai conosciuto?»
«Oh, ma che dici? Non sono mica così vecchia...»
«Che ne so, magari da bambina...»
«No.»
«Si chiama Canito, ed era il migliore» interviene il signor Castillo, quello a cui prima Mireia aveva tolto il giornale. «Un imperatore rovinato dalle donne e dal vizio.»
«Adesso capisco perché era amico di tuo padre.»
«Ehi, giovanotto, adesso la devi piantare!»
«Ha giocato nel...»
«Fine. Il Bar dello Sport ha chiuso, signor Castillo.»
Questi accetta l’intimazione al silenzio. Si guarda intorno in cerca di una qualche complicità davanti alla maleducazione della barista, che lui continua a frequentare perché i proprietari sono gli stessi da sempre, con i clienti di sempre, tifosi del Barça, brutti, sentimentali.
«Se vedi Bruno digli che...»
«Alt, Signor Rapido, devo dirti una cosa...»
«Dimmi.»
«Quando sei entrato, avevo appena messo giù il telefono con uno che ti cercava.»
«Cercava me?» La sorpresa sul volto di Cristian le sembra totalmente sincera. «Chi era?»
«Non lo so.»
«E allora...?»
«Voleva parlare con qualcuno che l’aveva chiamato da questo telefono l’altro ieri verso le nove di sera.»
«Io non ho chiamato.»
«Hai chiamato tu. Lo so perché sei stato l’unico a usare il telefono.»
«Merda. E che ti ha detto? Cosa voleva?»
«Niente. Che voleva proporti un affare. Parlare con te. Ha detto che l’altro giorno non vi siete capiti e poi ci aveva ripensato, o qualcosa del genere.»
«Ti ha detto altro? Un nome, qualcosa?»
«Era un nome straniero, ma non me lo ricordo. Con tutto questo casino. Ma il numero te l’ho segnato. È un cellulare.»
Mireia tira fuori dalla tasca il pezzetto di carta e lo avvicina a Cristian. Lui guarda i numeri come se attraverso di loro potesse decifrare il futuro o la verità della verità. È tentato di buttarlo, ma poi pensa che sarà un vantaggio più che uno svantaggio.»
«Gli hai detto che sapevi chi era stato a chiamare?»
«Per chi mi hai preso? Sono una ragazza discreta e so tenere un segreto.»
«Posso fidarmi di te?»
«La domanda mi offende.»
«Lo so, bella. Guarda, se chiama di nuovo, niente di niente. Digli che non sai chi ha chiamato e di lasciarti in pace.»
«Casini?»
«No, non è niente di grave, ma quel tipo non ha da offrirmi nessun affare interessante. Mi hai detto che è uno straniero?»
«Sì, il nome è straniero.»
«Russo? Arabo? Sudamericano?»
«No, inglese.»
«Non conosco nessun inglese.»
«Ma non aveva un accento straniero. È dei nostri. Solo il nome... Aspetta... Frankie, si chiamava Frankie!»
«Frankie? Non conosco nessun Frankie. Va bene, fa niente. Tu, acqua in bocca.»
«Va bene, bello, ho capito.»
«Un altro favore, Mireia.» Cristian pronuncia in modo premeditato il nome della ragazza, che china la testa e si sporge un po’ dal bancone, in attesa della nuova confidenza. «Non dire niente di tutto questo a Raquel e Bruno, capito? Ho i miei motivi.»
«Stai chiedendo un sacco di favori.»
«So ripagarli.»
«Fino a oggi sei stato un pessimo pagatore.»
«Sono incasinato, però... Vuoi che usciamo insieme venerdì o sabato quando chiudi?»
«Non c’è bisogno di aspettare l’orario di chiusura. Posso anche non venire a lavorare. Qui dentro faccio la schiava. Per una sera si arrangeranno senza di me.»
«Venerdì?»
«Va bene. Ma cerca di non farla finire come l’ultima volta, quando a metà serata mi hai riportata a casa, e poi sono venuta a sapere che sei rimasto in giro a fare baldoria.»
«Te l’ho già spiegato cos’è successo quella volta.»
«Sì, bugie per donne cretine. Venerdì alle otto. E fatti una doccia...»
«Perché?»
«Non si sa mai.»
Risata fragorosa, come un rumore di piatti rotti, come un incidente d’auto.
«Guarda, è arrivato Bruno.»
Qualche giorno dopo, Max si presenta al bar. Non è stato difficile rintracciarlo. È bastata una chiamata, farsi passare per qualcun altro, un vecchio che risponde al telefono, resti di antiche imposture – di quando, molti anni fa, per lavoro si era occupato di recupero crediti – che gli hanno spianato la strada. Sa che le possibilità di ottenere ciò che vuole sono minime. Per cominciare, non è sicuro che il suo piano stia in piedi. Certo, lo ha maturato, ci ha riflettuto tutti questi giorni, dal primo lampo di ispirazione, quando tornava dal suo incontro con Merche, quando, come sempre, non aveva potuto avvicinarsi troppo al cerchio magico della sua casa, quando era tornato alla routine delle chiamate perse e senza risposta, all’attesa dell’attesa, l’eterna attesa di niente, o meno di niente. Ha tenuto a mente quell’idea per svilupparla, qualche ora più tardi, disteso insonne sul suo letto matrimoniale, nel quale passava quasi tutta la vita: mangiare, dormire, leggere. Tutto, meno che fare l’amore con Merche. Lì, inzuppato da una pioggia invisibile di realtà ed evidenze, un racconto gelato di mezze verità e diaboliche regole del tre, ha tracciato la strada, e l’ha vista chiara, semplice, definitiva. Al mattino seguente l’idea era ancora dentro di lui, attaccata come una calamita. Ma adesso non sa, non può, non vuole smettere di dire a se stesso che è soltanto una pazzia, una scommessa avvelenata contro l’infelicità.
Era cosciente che esisteva un rischio del quale però ignorava la natura, e questo lo rendeva vulnerabile. Cosa poteva succedergli? Che lo scoprisse Merche? Il piano era talmente sgangherato che neanche lei ci avrebbe creduto, se anche fosse venuta a saperlo. Il denaro? Il denaro era solo questo: denaro. Avrebbe svuotato la polizza di credito, avrebbe lasciato scoperte parecchie assicurazioni di clienti piccoli. Gli era indifferente. La propria integrità fisica? Avrebbe fatto bene a muoversi con cautela. Di sicuro quella gente era pericolosa. Era meglio non dimenticarlo.
Max è lì, seduto a uno dei tavoli, beve una birra analcolica, svogliatamente. Di fatto, avrebbe preferito più un tè alla menta, o un qualsiasi altro infuso, ma l’ambiente gli aveva rubato tutta la sua sicurezza, appena quella ragazza gli si era avvicinata e gli aveva chiesto cosa voleva bere. Una volta finita l’Agua de Moritz se ne sarebbe andato e avrebbe dimenticato quella storia assurda. Adesso è pienamente conscio che progetti come il suo possono solo finire nel più assoluto disastro. Forse, per questo, adesso preferirebbe non incontrare l’uomo che cerca.
Come farà a sapere chi è? Questa è un’altra delle variabili impazzite del suo piano. Max crede che la persona che lo ha chiamato per ricattarlo sia la stessa contro cui era quasi andato a sbattere una volta, dopo uno degli appuntamenti con Merche. Ricorda il suo aspetto, la sua maglia verde. Forse non sarebbe in grado di descriverne i tratti somatici ma, se si presentasse l’occasione, saprebbe riconoscerlo. Ne è assolutamente certo. Tutto ciò non fa che aumentare la forza che lo ha portato a sedersi a quel tavolo. Esistono molte possibilità che nulla funzioni, che abbia sbagliato bar, che il tipo che ha chiamato fosse passato da questo locale per caso e che non ci avrebbe più messo piede, che non fosse la stessa persona che Max credeva, e perfino che stia seduto al suo fianco senza saperlo. Tutto quello, quell’unica possibilità su un milione, fa sì che Max si autoconvinca che, se la connessione funziona, vuol dire che il piano è buono, e l’obiettivo che insegue è possibile, efficace, un autentico calcio nel sedere al destino.
Max finisce la birra e si ripromette di tornare domani, dopodomani, tutti i giorni che saranno necessari, ma dovrebbe fare turni di guardia di settimane intere prima di scartare la possibilità di imbattersi nella faccia che lui identifica con la voce della telefonata. Non dispone di tanto tempo, per cui si arma di coraggio e si dirige al bancone. Paga la birra a Mireia e l’abborda.
«Salve, sono Frankie.»
«Salve, Frankie.»
«Ho chiamato l’altro giorno.»
«Sì, e le ho detto che l’avrebbero richiamata.»
«Sono passato a bere una birra. Nient’altro.»
A Max trema la voce ma spera che non si noti. Tenta di far credere a quella ragazza che ha un messaggio chiaro e che non ammette repliche.
«Senta, capisco che il tizio che ha chiamato sia, come dire, diffidente, che abbia qualche sospetto, ma voglio solo parlare con lui, proporgli un affare che credo possa essere conveniente.»
«Conveniente per entrambi, immagino.»
«Ovvio. Gli chiedo solo di chiamarmi. Non sono né un poliziotto né roba del genere. Se vuole vada in una cabina, faccia il mio numero, ascolti quello che ho da dirgli e basta. Se dice no, pazienza.»
«Io le ho già detto che non so chi l’ha chiamata e neanche se lo ha fatto da qui.»
«Solo nel caso in cui dovesse saperlo.»
«Va bene. Altrimenti?»
«Verrò tutti giorni qui, fino a quando lo vedrò» mente Max. Ha deciso che questo è il suo ultimo tentativo. «Posso essere molto pesante...»
«Frankie...»
«Sì?»
«Nessuno si chiama Frankie.»
«Io sì.»
«Certo.»
«Be’, è un soprannome.» Max tenta di rabbonirla. «Per via di quel gruppo musicale, Frankie Goes to Hollywood. Ma lei è troppo giovane per ricordarlo.»
«Senta, Frankie detto Hollywood, mi lasci il suo telefono.»
«Gliel’ho già dato.»
«L’ho perso.»
Max cerca nel portafoglio un biglietto di qualsiasi genere che non lo coinvolga né dia più informazioni di quelle che il ricattatore già possiede. Trova un vecchio biglietto da visita color crema, di qualcuno che non era mai arrivato a essere suo cliente, e ci scrive dietro il numero del suo cellulare. Poi lo consegna a Mireia ed esce dal bar. Non crede quasi più che lo chiamerà qualcuno, chiunque esso sia.